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 2025  settembre 07 Domenica calendario

Niente paura il fascismo è solo un fantasma

Forse i politologi oggi sopravvivono per ricordarci come è finita la politica. Da quali patologie è affetta, con quanto pressappochismo esercita il proprio mandato. Si dirà che il canone è cambiato – lingua, tempi, velocità di esecuzione, immagine – il che è vero. Perfino scontato sottolinearlo. E chiedere ad Alessandro Campi cosa pensi dell’attuale condizione dell’agire politico, o anche cosa possa fare la scienza della politica (che scienza, diciamo la verità, quasi mai è stata) potrebbe risultare non solo superfluo ma inutile. Eppure Campi ha idee molto precise su quanto accade in Italia.
Da storico della destra, aggiungerei delle culture di destra, ha facoltà per parlare. E la prima cosa che mi dice è che non c’è il fascismo al potere. Quella parola che si combatte o si esorcizza o magari si rimuove, ma alla fine è sempre lì come l’ospite ingrato. Lì, con i suoi fantasmi, a ricordarci che siamo ancora un Paese diviso. Alessandro Campi racconta questa storia di divisione ricostruendo il tragico itinerario finale di Giovanni Gentile inUna esecuzione memorabile (edizioni Le Lettere).
C’era già un tuo vecchio libro su Gentile. Quando hai cominciato a occupartene e perché?
«Trent’anni fa, attraverso la mediazione del suo allievo Ugo Spirito e su impulso della rilettura del suo percorso politico filosofico fatta da Augusto Del Noce. Gentile eraun nome considerato intangibile a destra, salvo che a leggerlo era davvero in pochi. Si omaggiava il martire più che il filosofo e se ne ricordava solo la riforma della scuola. Decisi di approfondirne la figura».
Nell’Italia dei misteri cosa rappresenta il “mistero” della morte di Gentile?
«All’apparenza un altro cadavere eccellente, l’ennesimo buco nero politico-giudiziario della storia nazionale (Mattei, Moro, Pasolini…), il solito intreccio di ipotesi, allusioni, sospetti riguardo le motivazioni, i mandanti ed esecutori dell’esecuzione. Ma non esiste un “affaire Gentile”: sappiamo benissimo chi l’uccise e perché».
Questa certezza da cosa la ricavi?
«Da ciò che Gentile era stato durante il ventennio: un simbolo da abbattere, un fascista eminente da punire, peraltro intestarditosi sul tema della pacificazione quando l’interesse dell’area insurrezionale dell’antifascismo era condurre lo scontro civile alle sue conseguenze estreme. Da qui la decisione di eliminarlo da parte dei comunisti».
Ne definisci “simbolica” la morte, perché?
«Gentile è l’uno che paga per tutti, con riferimento a quegli intellettuali – la maggioranza – che si erano compromessi col fascismo e che proprio Gentile aveva spesso beneficiato e aiutato. Solo perché non c’era più Gentile a ricordare loro gli abbagli del passato, si sono potuti redimere e convertire, alla democrazia ma più spesso al comunismo. La sua uccisione fu, a suo modo,uno spartiacque sacrificale tra dittatura e libertà».
Sullo sfondo di questo evento tragico lasci agire il tema della guerra civile e il difficile rapporto che gli italiani hanno con il loro passato.
«Pensa solo a quanto c’è voluto prima perché la storiografia accettasse la categoria di “guerra civile”».
Sostieni che la guerra civile è stata per gli italiani una condizione ricorrente per secoli.
«L’Italia è stata e rimane un paese violento, passionale e preda di continui accecamenti. La pedagogia edulcorante e conciliativa delle istituzioni non può occultare questo dato storico. Ci può consolare il fatto, come intuì Machiavelli, che la conflittualità endemica è probabilmente l’origine del nostro dinamismo e del nostro spirito creativo».
Il lato meno consolatorio lo notò il poeta Umberto Saba che considerava gli italiani un popolo di fratricidi.
«Il conflitto fratricida è il mito fondante di Roma. Le congiure rinascimentali erano bagni di sangue in famiglia. Il Risorgimento ha avuto una componente di guerra civile. Due guerre civili sono all’origine e alla fine del fascismo. Poi gli anni di piombo. Berlusconiani contro antiberlusconiani. Ripeto, è la nostra storia. Il massimo del particolarismo (e settarismo) politico in una cornice di cosmopolitismo culturale iniettato nella storia italiana dal mito romano imperiale e dal cattolicesimo».
Guerra civile, resa dei conti ma anche guerra di liberazione. Non si può ignorare.
«Le due cose non si escludono. Per liberarsi dallo straniero il prezzo doloroso da pagare è stato combattere tra fratelli: da un lato, quelli che sostenevano l’alleato-occupante tedesco in nome di un patriottismo ormai degenerato, dall’altro i partigiani; molti dei quali si consideravano, non a caso, i veri patrioti».
Gentile filosofo e uomo è stato definito opportunista, barone, lacchè, e perfino mediocre studioso. Tu ne dai una lettura opposta: un moderato inviso alla frangia estrema del fascismo. Non è una visione troppo edulcorata?
«Gentile era effettivamente baronale, patriarcale, anche sin troppo attaccato al denaro, talvolta vendicativo. Ma aveva, ciò è riconosciuto da tutti, un senso spiccato della lealtà e dell’amicizia. Non l’ho edulcorato. Ne ho ricordato semmai il coraggio e la coerenza, merce rara nel mondo intellettuale italiano. Se fosse stato un opportunista avrebbe accettato il consiglio dei figli di starsene chiuso in casa, invece di andare incontro a una morte annunciata.
Sorvolo sulle accuse di mediocrità: la sua potenza speculativa, di valore europeo, è stata obiettivamente più complessa di quella di Croce».
Indaghi le ragioni dell’adesione di Gentile a Salò. Ma non ti interroghi sul velleitarismo di quella scelta, motivata più da un delirio che da una vera consapevolezza storica.
«Nel contesto della guerra civile i suoi appelli alla pacificazione erano sicuramente generosi ma irrealistici e, agli occhi delle fazioni estremiste rosse e nere, inopportuni. Ma Gentile era preoccupato, più che dell’immediato, soprattutto di ciò che sarebbe venuto dopo la sconfitta: la fine dell’Italia come comunità.
Temeva che il solco d’odio scavato allora si sarebbe perpetuato per decenni. Il suo assillo filosofico era l’unità, quello storico-politico la continuità della tradizione italiana».
A proposito di Salò, cosa pensi del “Salò-Sade” di Pasolini?
«L’ideologia della “bella morte” – che Pasolini ha tradotto in necrofilia politica e violenza distruttrice fine a se stessa – è un mito romantico decadente troppo enfatizzato quando si parla di Salò. Alla Repubblica Sociale aderirono non solo i Fo e gli Albertazzi, o i giovani combattenti e avventurieri votati al sacrificio ma perragioni di continuità istituzionale, patriottismo e senso dello Stato, anche funzionari, magistrati, soldati, insegnanti, dirigenti d’azienda, impiegati. Non volevano morire con le armi in mano, volevano salvare il salvabile dell’Italia».
Salò ha prodotto il nostalgismo neofascista del dopoguerra. Quanto è ancora presente nella destra italiana?
«Il nostalgismo aveva una matrice generazionale, per questo è sparito insieme a chi aveva vissuto quelle esperienze. Oggi resta semmai, in certi settori della destra, uno spirito di rivincita e risentimento frutto dell’esclusione dalla sfera pubblica ufficiale. Si considerano minoranza negletta anche ora che sono maggioranza elettorale. Una condizione psicologica che spinge a continue riaffermazioni identitarie rispetto a un passato che va rielaborato in chiave critica».
Vieni considerato un intellettuale di destra. Sei mai stato iscritto al Movimento sociale italiano?
«Non ho mai militato nella destra politica. Sono entrato direttamente nei ranghi di quella culturale ai tempi della Nuova Destra importata dalla Francia. Convegni, circoli, pubblicazioni, riviste: tutte iniziative che nascevano in polemica col nostalgismo neofascista e missino. Una grande palestra di idee, che mi ha poi spinto a battere strade nuove e personali, mantenendo però lo spirito curioso e un po’ vagabondo acquisito allora».
Non ritieni che oggi certe minoranze o frangeestreme che in Europa guadagnano consenso fino a rasentare il primato elettorale abbiano reinterpretato il concetto di nostalgia?
«La nostalgia oggi è un sentimento politico diffuso trasversalmente. La destra ne ha perso il monopolio, semmai quest’ultima sta conoscendo, in alcune sue espressioni, una strana torsione tecno-futurista à laMusk».
Alludi alla nascita di una tecno-destra?
«Si tratta di un sentimento che mescola tradizione e modernità. Tra gli interpreti ci fu Guillaume Faye – una sorta di Steve Bannon francese – che parlò di archeofuturismo. Voleva conciliare Evola e Marinetti».
In effetti Evola, come pittore, ebbe una suggestione futurista. A questo proposito, c’è una cultura di destra – al di là del libro di Furio Jesi – oggi spendibile?
«Jesi ce l’aveva, da illuminista, con i manipolatori del mito, con chi a destra piegava i simboli della tradizione religiosa a una lettura politico-ideologica. Ma questa è una parte della destra culturale: Evola, Guénon, per certi versi Tolkien nelle forzature dei suoi esegeti. Ma esiste una destra per così dire secolare, immersa nel flusso della storia reale, non in quella immaginifica o fantastica».
La tua curiosità e poi gli studi nell’ambito del pensiero di destra hanno un’origine familiare?
«Direi di no. Provengo da una famiglia di piccola borghesia: babbo carabiniere, mamma maestra d’asilo, entrambi d’origine contadina. Il loro obiettivo è statoportare alla laurea i tre figli maschi a costi di sacrifici.
L’Italia è cresciuta sinché il meccanismo di promozione sociale ha funzionato. Ma la passione per lo studio la debbo, più che alla famiglia, al mio professore di filosofia del liceo, Gennaro Marullo, comunista e tabagista. Saputo delle mie primitive simpatie politiche mi disse di non perdere tempo con cortei e sezioni di partito e di concentrarmi sui libri. Mi impose la lettura, sotto la sua guida, di Julius Evola, Augusto Del Noce e Giuseppe Prezzolini: tre anime della destra culturale tra le quali, mi disse, avrei poi scelto con libertà di giudizio. Ho preferito gli ultimi due e rifiutato il primo».
È ricorrente il richiamo all’egemonia culturale. Tu asserisci una filiazione di quella gramsciana da Gentile.
«Il modello di intellettuale militante organico a un disegno politico Gramsci l’ha chiaramente mutuato da Gentile. Con la differenza che in Gentile agiva una vocazione profetica in senso nazionale che in Gramsci diventa pedagogia di partito. Due modelli divenuti obsoleti da quando la figura sociale dell’intellettuale ha smesso di essere percepita come una voce d’avanguardia o coscienza critica collettiva. Gli ultimi a svolgere questo ruolo in Italia sono stati, in forme diverse, Pasolini, Sciascia, Bobbio e Sartori. Poi il grande vuoto».
Ha senso oggi, come vorrebbe la destra, in un mondo liquido e contraddittorio, ambire a una nuova egemonia culturale?
«Francamente non vedo questo tentativo, anche perché inutile nelle odierne società, talmente frammentate che nessuno può pensare di ricondurle entro un disegno culturale unitario. Semmai, approfittando della congiuntura politica, la destra tenta un riequilibrio sul terreno di un potere culturale dal quale era esclusa».
Ti sei occupato di Machiavelli. Il titolo del tuo libro richiama i “Discorsi”. Nulla sembra più distante da Gentile dell’autore del Principe. Eppure entrambi ebbero una visione dell’Italia e furono sconfitti. Sono gli sconfitti a chiarirci le ragioni profonde della Storia?
«Mettiamola prosaicamente così: i vinti, rispetto ai vincenti, si trovano in una condizione psicologica, un misto di amara malinconia, senso di distacco dal mondo, lucida rassegnazione, che li rende più idonei a riflettere sul passato, sui torti e le ragioni proprie e altrui».
Dirigi l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
Ma a chi interessa oggi il Risorgimento?
«A nessuno, in effetti. Per me è una sfida. Il Risorgimento, fuori dalla retorica che l’ha reso insopportabile alle nuove generazioni, è stato un’epopea collettiva da rivalutare. In quel contesto l’Italia fu unificata politicamente e divenne una nazione in senso moderno. Altro tema, quello della nazione, al quale sono molto sensibile e sul quale ho scritto molto. Da decenni ne dichiariamo la morte ma le nazioni sono sempre al loro posto. Evidentemente non sono quei manufatti artificiali che alcuni dicono».