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 2025  settembre 07 Domenica calendario

L’orecchio magico di Ferrara

Leonard Bernstein lo definiva “il maestro”. Senza aggiungere altro. Herbert von Karajan lo ascoltò dirigere una prova della Filarmonica di Berlino e ne rimase folgorato: «È un gigante», sussurrò. Sergiu Celibidache, che non considerava quasi nessuno alla sua altezza, riconosceva solo un direttore d’orchestra suo pari, se non superiore: «Lui, uno dei più grandi». Ma chi è questa figura che, tra le divinità della direzione d’orchestra del secolo scorso, veniva celebrata a tal punto da essere elevata di fatto a più grande direttore del Novecento?
Il suo nome è noto agli addetti ai lavori, ma poco al grande pubblico. E iniziano da questa “mancanza” (che è il tratto distintivo di un uomo divino che come Achille aveva un suo tallone) la storia, il mistero e l’enigma di Franco Ferrara, che, dagli anni Trenta fino alla sua morte, il 7 settembre del 1985, tutti chiamavano semplicemente “il maestro”.
Chi era dunque Ferrara, il direttore venerato dai grandi? «Un prodigio fin da bambino e con un padre che capì subito che davanti aveva qualcosa di speciale e lo segnò con una durezza spaventosa per farlo progredire negli studi musicali», racconta Gian Luigi Zampieri, suo ultimo allievo, che prova a tenerne in vita la memoria: domenica 7 settembre, alle 19 a Roma, nella chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, è stata programmata una messa di ricordo, a quarant’anni esatti dalla scomparsa.
Nato a Palermo nel 1911, nei primi anni Venti si trasferisce a Bologna, dove conosce i celebrati maestri dell’epoca: come Toscanini (era con lui il 14 maggio del 1931 al Teatro di Bologna, quando avvenne lo scandaloso schiaffeggiamento squadrista), ma anche Respighi e Guarnieri, che ne riconoscono subito le doti tanto da indicarlo, allora nemmeno ventenne, come spalla e assistente direttore al Maggio Fiorentino e in alcune loro direzioni. Guarnieri soprattutto, che poi lo farà debuttare prima a Montecatini e poi a Firenze il 20 gennaio del 1938: da questa data inizierà una carriera folgorante che porterà Ferrara sui podi più prestigiosi del mondo – da Berlino a Parigi – e a ottenere quasi subito la guida dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Il venerato Furtwängler, che guidava la Filarmonica di Berlino, lo chiama in quegli anni a dirigere la Settima sinfonia di Beethoven, una sorta di investitura religiosa- musicale per il giovane Ferrara: «Mi raccontava l’emozione e la fatica che aveva provato a far andare l’orchestra al tempo che lui aveva in mente, avendo di fronte Furtwängler e in platea l’allievo predestinato dei Berliner, von Karajan», dice Gabriele Ferro, altro suo vero studente.
Insomma, mancava solo la corona di alloro per consacrare Ferrara nel tempio delle divinità riconosciute a livello mondiale per la direzione d’orchestra. Ma ecco il tallone di Achille. Il “malessere”, mai diagnosticato con chiarezza, si manifesta la prima volta a Roma, nel 1940: Ferrara sta dirigendo la sinfonia Dal Nuovo Mondo di Dvorák, quando improvvisamente sviene e rimane in stato di semincoscienza per ore. Concerto annullato. Seguono esami clinici, ma nessuna diagnosi. Gli svenimenti iniziano a ripetersi, nasce anche il “mito” del maestro che sviene e alcuni concerti sono affollati da curiosi che vogliono solo vedere se il “malessere” si ripresenterà.
Impossibile andare avanti per un perfezionista come lui: nel 1948, all’apice di una carriera che sembrava non avere altezze e mete prefissate, Ferrara lascia la direzione d’orchestra. «Non sono più io», dirà agli amici, iniziando a dedicarsi all’insegnamento e, per sopravvivere, alla direzione di musiche da film: «Dirigerà le musiche de La porta del cielo di De Sica, che lo volle anche in alcune immagini, le uniche in movimento che restano del maestro, unitamente ai titoli di testa di Bellissima ( 1951) di Visconti, il resto sono solo fotografie – racconta Zampieri – E dopo lo vollero tutti i più grandi registi: Visconti per Il Gattopardo, Fellini per La Dolce Vita, e poi Antonioni, Monicelli, Petri, Comencini».
Nel frattempo, comincia a girare il mondo per tenere corsi di direzione di orchestra e fare da “consulente” ai direttori più famosi: «Von Karajan mandava il suo aereo a prenderlo per chiedergli consigli su una Traviata o su un passaggio di Mozart – dice Ferro – io frequentavo i suoi corsi a Hilversum in Olanda, ma lui li teneva anche a Tanglewood sede dell’orchestra di Boston». E proprio a Tanglewood Bernstein e Ozawa, ascoltandolo e vedendolo dirigere, hanno una tale folgorazione da prestarsi come suoi assistenti per le lezioni: una foto ritrae questi due giganti mentre fanno da “aiutanti” a Ferrara.
Si dice che Bernstein pagò anche dei medici per cercare di curare il “malessere” del maestro. «Di sicuro Celibidache nel 1968 venne a sapere che Ferrara stava tenendo un corso a Manila – racconta Zampieri – Allora, un pomeriggio bussò nella stanza dell’albergo che ospitava il maestro. Lo trovò quasi nudo perché riposava e c’era un gran caldo: gli disse di vestirsi subito e lo portò da una sorta di mago. Ferrara ci racconterà divertito che gli misero sul collo interiora di chissà quale animale, chiaramente senza alcun risultato».
Ferrara insegnerà poi per molti anni, fino alla sua morte, all’Accademia Chigiana di Siena, che divenne un po’ una sua seconda casa e un ritrovo per i tanti suoi allievi come Gianluigi Gelmetti, Riccardo Chailly, Riccardo Muti, solo per citarne alcuni. Il suo posto a Siena venne poi preso da Carlo Maria Giulini, che però si rifiutò di fare un “corso” dopo Ferrara e tenne solo “seminari”: «Quello che so ve lo dirò, quello che non so lo chiederemo insieme a Ferrara», disse Giulini in una conferenza alla Chigiana, sapendo che ad ascoltarlo in platea c’era il maestro.
Resta una domanda: perché i grandi riconoscevano qualcosa di miracoloso in Ferrara? Che cosa aveva di speciale nella direzione di una sinfonia o di un’opera lirica? Sicuramente un orecchio sovrannaturale: «Una volta, stava registrando negli studi della Rca, in una camera del tutto insonorizzata, e interrompeva sempre l’esecuzione perché sentiva il rollio di un tamburo – ricorda Zampieri – ma i musicisti lo assicuravano che i tamburi erano tutti bloccati. Niente, il maestro sentiva qualcosa. Dopo ore, un tecnico degli studi trovò al piano di sotto, chiuso in una stanza, un tamburo che non aveva il fermo. Ma come poteva sentire il vibrare di un tamburo fuori da una stanza insonorizzata e in un altro piano? Questo era Ferrara».
Altri aneddoti sul “genio” che possedeva il maestro li descrive Roberto Liso nell’accurata biografia o li potrebbe narrare Martine Vaffier, fedele allieva. Nel bel documentario andato in onda su Sky nel 2013 e curato da Giorgio Mezzanotte e Anton Giulio Onofri, un allievo racconta che una sera, nel bar Fonte Gaia di piazza del Campo a Siena, un pianista chiacchierando picchiettava con le dita. Il maestro a un tratto disse: «Sul Fa metti il quarto dito, è molto meglio». Aveva capito cosa stava suonando nella mente e il passaggio specifico che richiedeva una certa diteggiatura. «Ma poi aveva un istinto che a chiunque faceva dire che la scelta fatta da Ferrara era quella giusta – conclude Ferro – il suo era un dono diretto, naturale, senza sovrastrutture. Il suo era un connubio tra una conoscenza tecnica spaventosa – suonava benissimo pianoforte e violino – e un’intuizione che forse non era umana. E io ne sono convinto: la sua malattia era tutta interiore, proprio in questo suo dono che soprattutto negli adagi, quando aumenta l’intensità emotiva, lo faceva cedere».
Ferrara come un semidio, insomma, che un Paese come il nostro non può e non deve dimenticare.