Avvenire, 7 settembre 2025
Un fiume di milioni di dollari sul Web per trasformare in notizia la post-verità
La chiamano hasbara. La “spiegazione”, dal punto di vista del governo di Israele dei fatti che lo riguardano. I detrattori traducono: propaganda. In tempi di guerra si sa che è un’arma. Piuttosto costosa. A Gaza non c’è la carestia. Le foto dei bambini denutriti sono manipolate o mostrano gli effetti di malattie rare. Tutti i giornalisti di Gaza (solo palestinesi, poiché Israele vieta l’ingresso alla stampa) sono al soldo di Hamas. I terroristi fanno incetta del cibo e banchettano nei tunnel. I tredicimila dipendenti dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) sono tutti membri di Hamas. Negli ospedali di Gaza si nascondono i terroristi. I medici sono terroristi. Gli infermieri sono terroristi. Il numero delle vittime civili a Gaza, in proporzione ai combattenti uccisi, è inferiore a quello di altre guerre. Se fosse facile dimostrare queste tesi, il governo di Benjamin Netanyahu non avrebbe bisogno di tenere in piedi una macchina colossale di comunicazione, che comprende: un dipartimento delle Forze armate espressamente dedicato a ricostruire il legame diretto di ogni giornalista ucciso con la Jihad islamica o con Hamas; un gruppo di influencer ai quali (e solo a loro) è stato consentito ad agosto l’ingresso ai siti di distribuzione del cibo della Gaza Humanitarian Foundation per dire che nella Striscia non c’è fame; conferenze stampa di Netanyahu ad uso esclusivo dei giornalisti stranieri per denunciare presunte “fake news”; investimenti da decine di milioni di dollari per la promozione sui social e sui motori di ricerca di contenuti sponsorizzati dall’Agenzia di pubblicità del governo (sì, in Israele esiste: si chiama Lapam e riferisce direttamente all’ufficio del premier).
La campagna digitale lanciata nei mesi scorsi per dire che a Gaza “non c’è fame” è stata vista da oltre 6 milioni di utenti su YouTube e da altrettanti via Google. Stando a documenti pubblicati dal sito indipendente di giornalismo investigativo Dropsite News, in un articolo a firma di Jack Poulson e Lee Fang, il contratto stipulato lo scorso giugno per sei mesi con Google e YouTube dalla Lapam vale 45 milioni di dollari. «I registri mostrano che il governo israeliano – scrivono Poulson e Fang – ha speso allo stesso modo 3 milioni di dollari per una campagna pubblicitaria su X. Anche la piattaforma pubblicitaria francese e israeliana Outbrain/Teads riceverà circa 2,1 milioni di dollari». Un anno fa, la rivista statunitense di tecnologia Wired aveva rivelato l’esistenza di una campagna pubblicitaria israeliana su Google per screditare l’Unrwa.
Campagna confermata dal responsabile della Sensibilizzazione pubblica del ministero della Diaspora, Hadas Maimon, il 2 marzo alla Knesset. Iniziative simili vengono condotte per screditare Ong palestinesi, a partire dalla Hind Rajab Foundation (dal nome della bimba uccisa mentre chiedeva aiuto alla Mezzaluna Rossa, dall’auto in cui era chiusa con i cadaveri di sei familiari), descritte come filoterroristiche. E non c’è solo Gaza: una fase particolarmente frenetica di hasbara si è avuta a giugno in concomitanza con i dodici giorni di guerra contro l’Iran, presentata come essenziale per la sopravvivenza di Israele.
A conti fatti, il risultato è pari alle attese? Il presidente americano Donald Trump ritiene di no: «Israele ha perso la guerra delle pubbliche relazioni». La stampa israeliana è sempre più critica nei confronti del governo, allineandosi con buona parte della società.
Ma la “spiegazione” è diretta all’opinione pubblica internazionale e in particolare a quella statunitense filo-israeliana, che oggi tentenna. L’importante è non perdere il sostegno militare degli alleati, che dovranno pur rispondere alle loro piazze reali e virtuali.
Fattore essenziale, in tutto questo, sono i giornalisti. Da tenere rigorosamente fuori da Gaza. Capita poi che qualcuno riesca a procurarsi i documenti e sappia leggere i numeri. Facendo, anche in tempi di postverità, informazione giornalistica