il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2025
Intervista a Milo Manara
Federico Fellini lo ha definito “un uomo con gli occhi azzurri da cherubino”.
Gli occhi sono effettivamente azzurri.
Ma del cherubino Milo Manara ha veramente poco.
Ottant’anni il 12 settembre, la Mostra di Venezia lo ha celebrato con un bel documentario di Valentina Zanella (produzione e distribuzione K+, in sala da domani); tra erotismo e responsabilità sociale, politica e condivisione; tavole disegnate e qualche fraintendimento sulla percezione del pubblico (“a volte mi hanno preso come esperto di eros. Non lo sono”).
Impressione dopo essersi rivisto sullo schermo?
Ho provato la stessa sensazione di quando si ascolta la propria voce: si fa fatica a riconoscersi; e poi uno ha l’immagine di se stesso sempre idealizzata, migliore della realtà.
Un classico.
La sorpresa è ritrovarsi più vecchio di quello che si credeva.
Di testa o d’aspetto?
Di fisico. La testa è ancora giovane ed è una maledizione perché è imprigionata nel corpo di un anziano.
I parametri di una testa giovane.
Si nutrono le stesse fantasie, gli stessi ideali, gli stessi slanci di prima; (pausa, ci ripensa) in realtà in questo caso è invecchiata pure la testa.
Perché?
C’è una rassegnazione che un tempo non esisteva.
Rassegnazione o presa di coscienza?
La consapevolezza che difficilmente le cose muteranno, mentre una volta noi sessantottini eravamo convinti di cambiare il mondo.
È felice di essere nato nel 1945?
Sì. Intanto sono di settembre e la guerra era finita e poi ho avuto modo di trovarmi nell’età giusta, nel posto giusto e nel periodo storico giusto. Ho vissuto il ’68 da dentro, da studente di Architettura.
Era d’accordo con Pasolini rispetto agli scontri tra studenti e polizia?
Le sue frasi, le sue posizioni le capisco più oggi di allora; allora erano frasi difficili da accettare, sono passate solo perché pronunciate da Pasolini che per noi era al di sopra di ogni sospetto.
Lei manifestante aggressivo?
(Sorride) Le botte le ho prese perché Venezia non è una città adatta per le manifestazioni: non è semplice scappare.
Nel 2013 sul Fatto, con Pagani, ha espresso un timore: “Alla fine risulto sempre saccente”. E dopo il documentario?
Quando parlo appaio così, sembro uno con delle convinzioni incrollabili, delle certezze, ma non è vero.
Su cosa ritiene di non aver sbagliato?
Rispetto ai fumetti: mai pentito. Poi su una certa visione del mondo, anche in questo caso non ho mai cambiato idea: credo che la differenza tra la ricchezza e la povertà sia una tragedia del nostro tempo.
Nel documentario c’è un continuo “grazie” a Hugo Pratt.
Mi ha insegnato tutto, in primis la posizione di un autore, l’essere orgoglioso del termine “fumettaro”; a non sentirmi sminuito. Secondo lui i fumettari sono degli scrittori che sanno pure disegnare; (sorride) assegnava al fumetto un rango culturale superiore a quello della letteratura in quanto più in contatto con il popolo vero.
Una funzione sociale.
Che una volta avevano gli artisti fino all’invenzione della macchina fotografica, poi sono arrivati il cinema e la televisione. Il fumetto ha mantenuto quel ruolo sociale.
La responsabilità sociale dell’artista.
Imparata da Pratt. Che non era un maestro dedito alle prediche.
Ma…
Una volta volevano assumermi al Corriere dei Ragazzi e lui: “Se accetti ti tolgo il saluto. Devi restare libero di disegnare le tue storie. Questo deve fare un fumettaro”.
La sua legittimazione è arrivata dalla Francia.
In Italia il fumetto non è mai stato veramente considerato, forse ultimamente la percezione è cambiata, tanto che alcuni libri sono arrivati allo Strega; in Italia non ci siamo mai liberati del tutto dell’idea che il fumetto è per bambini.
Topolino.
Si pensa solo a quello; questo approccio ha fatto soffrire dei veri giganti come Dino Battaglia o Franco Caprioli, costretti a pubblicare su riviste per bambini; (pausa) da noi qualcosa è mutato dopo la nascita di Diabolik e di altri fumettini che parlavano agli adulti; fumettini scollacciati o gialli un po’ violenti. Da lì alcuni disegnatori sono riusciti a lavorare e vivere.
In quegli anni aveva difficoltà economiche?
Mai, perché ho iniziato presto con Jolanda, Isabella, Sukia (su “Sukia” ride tanto); erano solo massacranti perché ogni quindici giorni dovevo consegnare 120 pagine.
Come ci riusciva?
Circa dieci pagine al giorno, vuol dire che le prime tavole erano maggiormente curate rispetto alle ultime. Un massacro. Ma sul piano economico mi consentivano di vivere abbastanza bene.
Abbastanza, però.
Perché non ero da solo, c’era un gruppo. Spartivamo per tre o per quattro..
Severo con i collaboratori?
No, eravamo tutti sullo stesso piano. Non mi sarei mai permesso.
Leader.
Responsabile.
Leader non è una parolaccia.
Non ho alcuna dote da leader, non so comandare, non so farmi ubbidire. Per questo sono negato per il cinema: non saprei mai dire a uno come Storaro “non mi piace la luce”; il regista deve avere una personalità più forte della loro.
Sul set ci è stato spesso.
Per questo so di cosa parlo.
Quale regista l’ha impressionata?
Fellini; (ci pensa) però ho assistito a tutte le fasi della realizzazione di un film francese…
Quale?
Le déclic, tratto da un mio fumetto e girato in Louisiana: ho assistito a tutto, pure ai sopralluoghi, ma non avevo alcun diritto, non potevo mettere becco su nulla.
Quel film e il suo fumetto narrano di uno scienziato che impianta su una donna un chip che la rende sessualmente disponibile. Oggi sarebbe politicamente scorretto…
È vero, ma con l’erotismo si viaggia sempre sul filo del rasoio ed è facilissimo cadere nella volgarità e nell’offesa per le donne…
Quindi?
Mi sono sempre fidato della mia spontaneità, anche perché ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia proto-femminista nella quale mia madre guadagnava più di mio padre e con delle sorelle che non mi avrebbero mai permesso di avere atteggiamenti da macho.
Come giudicavano la sua opera?
I miei genitori hanno fatto in tempo a leggere questi fumettini molto scollacciati e quando mi hanno visto in televisione è cambiata la percezione del mio lavoro; (ci pensa, a lungo) in Italia è grazie a intellettuali come Oreste Del Buono, Umberto Eco e Fellini stesso se il fumetto ha iniziato a venir riconosciuto per il suo rango culturale; (pausa) anche se…
Cosa?
Durante il Covid ho realizzato dei disegnini a sostegno di tutte le categorie costrette a lavorare nonostante le restrizioni; la prima intervista è stata del Washington Post, due pagine, poi altri giornali italiani se ne sono accorti.
Com’era Fellini da disegnatore?
Ottimo, di tipo espressionista. Erroneamente si crede realizzasse delle caricature, in realtà erano dei ritratti interiori. Alla Grosz.
Fellini era interessato al suo bagaglio erotico?
Sì, ma lui lavorava sulla memoria, sull’amarcord, quindi immaginava delle donne gigantesche, come le vedeva con gli occhi da bambino.
Fellini e il “cherubino”.
Utilizzava spesso delle similitudini sorprendenti.
È cattolico?
Solo di educazione. Sono ateo.
Ateo o agnostico?
Più agnostico, ma nessuno riuscirà a convincermi che esiste l’inferno.
Nel documentario ci sono molte testimonianze celebri. Chi l’ha stupita?
Paolo Conte. Non credevo avrebbe accettato: è burbero e riottoso a certe situazioni.
C’è Elodie.
Non solo rientra fisicamente nei miei canoni, ma ha anche l’atteggiamento di donna liberata, orgogliosa del proprio corpo e fa del proprio corpo parte integrante della sua espressione; con lei il corpo è pari alla voce, come è accaduto con Tina Turner.
Ogni tanto associano alla sua matita il termine “hard”. È giusto?
Se significa spingersi agli estremi confini, in un certo senso sì.
Quali sono gli estremi confini?
Resto nel mio territorio, dell’erotismo estremo, non della pornografia.
La differenza?
È labile.
Ha disegnato amplessi?
Mai dalle mie sceneggiature, li considero poco erotici. A me interessa la trasgressione al pubblico senso del pudore, quello mi diverte; la “camera da letto” è poco intrigante.
La trasgressione al comune senso del pudore oggi fa meno effetto.
Oramai il senso del peccato è più evanescente, flebile. Non ci sono i freni inibitori di un tempo.
Un tempo poteva stupire facilmente.
Per questo non mi interessa più tanto disegnare l’erotismo.
Come mai non ha collaborato con Tinto Brass?
Abbiamo una lettura diversa: lui parte da presupposti poco realistici; se racconti di una ragazza che va in bicicletta, senza mutande, e pedala allegramente è poco credibile…
Monella.
Così rende poco credibile quello che seguirà.
Paradossalmente è più fumettistico Brass.
Segue le proprie fantasie erotiche, mentre io preferisco partire da presupposti reali per permettere al lettore di riconoscersi e immedesimarsi.
Quante denunce ha ricevuto?
Nessuna, giusto qualche problema per una vignetta realizzata per il Fatto con testo di Stefano Disegni (nella pagina accanto). Sono stato convocato dalla Digos e c’è stata un’interrogazione parlamentare.
Che ne pensa dei suoi primi lavori?
Non li rinnego però mi fanno vergognare: vedo tutti gli errori, le ingenuità, i pasticci. Arrossisco.
In questi anni ha ricevuto più lettere di uomini o di donne?
Di donne e pure negli incontri con i lettori sono sempre le lettrici ad avvicinarsi, magari mi dicono “mio padre o mio marito non sono potuti venire…”
E le hanno mai confessato i loro segreti erotici?
Il diario di Sandra F. nasce dal vero diario di una ragazza che mi ha consegnato durante una presentazione.
Autografi anomali?
Ho firmato spalle e toraci; una volta una ragazza mi ha chiesto di farle un ritratto e una volta di profilo mi sono reso conto che sotto il poncio non aveva nulla.
S’imbarazza?
Prima di tutto mi diverto; l’imbarazzo nasce quando mi credono un esperto in sessuologia o un consulente psicologico di erotismo.
Mentre?
Disegno solo delle fantasie.
È timido?
Di partenza; ho imparato a sconfiggerla dopo aver assistito alle interviste rilasciate da Fellini: parlava con i giornalisti esattamente come parlava con me; non impostava neanche la voce, discorreva tranquillo. E ho capito.
Lei chi è?
Se non c’è riuscito Kafka a dirlo, come posso io?