il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2025
Il solito primato: gli stipendi dei prof. sono tra i più bassi dei Paesi dell’Ocse
Mentre gli studenti tornano tra i banchi, gli insegnanti tornano in cattedra con i soliti stipendi nettamente inferiori rispetto ai loro colleghi dei maggiori Paesi europei, e comunque più bassi della media Ocse. Ad aggravare questa pessima collocazione c’è il fatto che il contratto collettivo del comparto scuola è scaduto a fine 2021, con le trattative per il rinnovo del triennio 2022/2024 che proseguono a fatica. In un periodo in cui l’inflazione ha compiuto una galoppata, i salari dei docenti sono invece rimasti fermi, o quasi: hanno recuperato solo una piccola parte grazie a un meccanismo di aumento previsto dalla legge.
Tuttavia, l’offerta del governo – attraverso l’Aran, che gestisce il negoziato con i sindacati – resta di un incremento complessivo di appena il 6% nelle buste paga. Poco più di un terzo dell’inflazione del triennio, che si aggira attorno al 17%. L’altro ieri il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha annunciato 240 milioni di euro per gli stipendi del personale della scuola. In ogni caso, sarà difficile raggiungere l’intesa per la firma perché – come per gli altri comparti – Cgil e Uil si oppongono a ritocchi così bassi rispetto all’aumento del costo della vita.
A prescindere dalla cronaca di questi giorni, il problema dello stipendio dei nostri docenti è storico. Parliamo di una media di circa 1.700 euro netti al mese. Il confronto Ocse dice che non siamo gli ultimi, ma siamo pur sempre sotto la media e comunque ben distanti dalla Germania e dagli altri grandi Paesi con i quali ha senso confrontarci. Mentre i tedeschi hanno un salario di ingresso pari a quasi 86 mila dollari, in Italia siamo a poco più di 40 mila dollari. Bisogna leggere questi numeri con cautela: non va tradotto l’equivalente in euro per capire quanto effettivamente guadagnano i nostri insegnanti a inizio carriera; si tratta di dati convertiti in dollari a parità di potere d’acquisto, per evitare appunto che il diverso costo della vita influenzi il confronto tra i vari Stati. Concentrandosi più sulle proporzioni che sui numeri, quindi, è evidente che lo stallo contrattuale che si sta vivendo in Italia va solo a inasprire una situazione che in realtà si è sedimentata nel tempo. Se da un lato il “posto fisso” garantisce una certa serenità – cosa che non vale per l’esercito di supplenti che ogni anno va in cattedra – gli stipendi relativamente bassi hanno con il tempo reso difficile la vita agli insegnanti che vivono nelle grandi città del Nord, dove soprattutto il costo degli affitti è molto alto.
I docenti in Italia si difendono, da tempo, da una serie di luoghi comuni che bersagliano la professione. A chi dice che lavorano solo per 18 ore alla settimana, ricordano che quelle sono le lezioni frontali, alle quali si aggiungono i collegi, il ricevimento, gli scrutini, la correzione dei compiti, la preparazione delle lezioni stesse. C’è poi chi parla di “tre mesi di ferie”: gli insegnanti però fanno notare che gli esami finiscono a luglio, che in Italia abbiamo un calendario molto fitto concentrato in quei nove mesi e che, tra l’altro, questo riduce la loro libertà di scelta poiché li costringe a riposare forzatamente in piena estate, mentre gli altri lavoratori hanno maggiore flessibilità.