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 2025  settembre 07 Domenica calendario

"Vi racconto la presa dell’Ambasciata Usa". I ricordi di uno studente sulle barricate

C’è una vicenda che più di quarant’anni fa è passata alla storia. Si svolge a Teheran. Ha inizio il 4 novembre 1979 nella capitale della Repubblica Islamica. Un gruppo di giovani studenti iraniani fa irruzione nell’Ambasciata della più grande potenza del pianeta, gli Stati Uniti d’America. In quella piovosa giornata di novembre gli studenti scavalcano i cancelli dell’ambasciata per gridare al mondo la loro rabbia. Gli Stati Uniti hanno accolto lo Scià Reza Pahlavi che necessita di cure per un cancro che lo sta uccidendo. Vogliono che sia estradato in Iran, per giudicarlo. 52 membri della rappresentanza diplomatica sono presi in ostaggio. Si tratta di una manifestazione di protesta che sarebbe dovuta durare solo qualche ora, ma che terminerà dopo 444 giorni. Quei ragazzi erano tra i sei milioni di persone che, nove mesi prima, in festa avevano accolto l’Imam Khomeini al suo ritorno dall’esilio di Parigi. Era il leader della loro rivoluzione che, oltre a sovvertire la monarchia dello Scià di Persia, pose le basi di un ordine sociale e politico fondato sulla Legge di Dio. La presa dell’Ambasciata sarà un colpo terribile per gli Stati Uniti, l’Economist la definirà «il primo scontro tra Iran e Occidente». Ho incontrato alcuni degli studenti di allora e ho visitato l’edificio che ospitava l’ambasciata. Alcune stanze e corridoi, sono rimasti come erano il 4 novembre del ’79. Quasi scolorita, sul muro, è ancora leggibile una scritta in corsivo di colore rosso “Non è più il tempo per l’Imperialismo in Iran”.
Hossein Sheikholeslam è stato parlamentare della Repubblica Islamica nonché consigliere dell’ex ministro degli Esteri Javad Zarif. Partecipò nel 1979 alla presa dell’allora ambasciata degli Stati Uniti d’America. Anni fa conversai con lui, sarebbe poi mancato nel 2020 dopo aver contratto il virus Covid 19.
«Non sono tra gli studenti che parteciparono alla conquista dell’ambasciata, mi unii a loro dal pomeriggio del 4 novembre», dice sorseggiando una bevanda calda in una sala da tè di Teheran. «Avevo una buona conoscenza della lingua inglese e gli studenti mi mandarono a chiamare. Era pomeriggio, entrai in ambasciata mentre tramontava il sole attraverso una porticina sul retro che si trova all’angolo del complesso, su quella strada che all’epoca si chiamava via Roosevelt. I ragazzi mi portarono direttamente al secondo piano della cancelleria». Qual è il suo ricordo più forte? «Senza dubbio la vista di quella camera blindata delimitata da vetri, non avevo mai visto nulla del genere. Era stata costruita per neutralizzare le intercettazioni. C’era un americano seduto lì e uno dei ragazzi cercava di parlargli, ma non riuscivano a capirsi. Avremmo poi saputo che si trattava di Thomas L. Ahern, il capo stazione della CIA. Cominciai a parlargli, non mi rispondeva. Diceva di essere un diplomatico e continuava a dirci: “ragazzi, state sbagliando, state agendo in maniera contraria alle leggi internazionali…”. Ci faceva prediche di questo genere. Non ottenni alcun risultato con lui. Scoprimmo che per 17 anni era stato agente della Cia in Vietnam, che era un professore di filosofia. Si rivelò uno degli ostaggi dalla personalità più forte. Era molto serio, furbo, parlava pochissimo, molto deciso e con un senso di superiorità. Fu il primo americano con cui feci conoscenza».
Hossein Sheikholeslam parla dell’atmosfera che si respirava in Ambasciata: «C’era tensione nei primi giorni. Noi eravamo preoccupati perché l’Imam Khomeini ancora non si era pronunciato sull’azione. Non sapevamo cosa sarebbe potuto accadere, eravamo giovani e senza esperienza. Quando l’Imam diede il suo assenso cominciammo ad avere la consapevolezza che quell’atto era serio e sarebbe durato a lungo. La tensione si attenuò ancor di più dal momento in cui gli ostaggi si resero conto del fatto che eravamo semplici studenti e che il nostro gesto era stato pensato per il bene del Paese. Inizialmente si erano convinti che fossimo membri di una formazione dell’Intelligence iraniana o collegati a una potenza straniera, pensavano all’Unione Sovietica». Durante la prima notte Sheikholeslam riesce a trovare un posto dove dormire. «Ci svegliammo la mattina dopo con le preghiere dell’alba. Cercammo qualcosa per fare colazione, ma era tutto un gran caos. L’ambasciatore americano aveva un cuoco pachistano molto bravo e lo convincemmo a cucinare per gli ostaggi e per tutti noi. Da quel momento cominciarono gli interrogatori».
Un giornalista americano, Mark Boden, scriverà anni dopo il libro Teheran 1979, descrivendo Sheikholeslam come il più cattivo tra gli studenti. «Non ho letto il testo, ma ho visto il film realizzato sulla base di quel libro, in cui un personaggio mi impersona. Devo dire che il film è una bugia dall’inizio alla fine. Non sono mai stato violento nei confronti degli ostaggi, non per qualche motivo particolare, ma semplicemente perché era un ordine dell’Imam. Khomeini aveva ordinato di comportarsi bene con gli ostaggi».
Gli chiedo se abbia voglia di ricordare gli interrogatori degli ostaggi americani. «Alcuni degli ostaggi erano molto duri, non volevano parlare, non rispondevano alle nostre domande, mentre con altri ancora riuscivamo ad avere degli scambi anche profondi. Ricordo dei democratici che ci mettevano in guardia: “con questa azione state favorendo i repubblicani a scapito del presidente democratico Jimmy Carter”. Uno dei nostri obiettivi era spingere gli Stati Uniti all’estradizione dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. “Non accadrà mai”, era la risposta comune. Taluni tra gli ostaggi riconoscevano che il colpo di Stato ai tempi del dott. Mohammad Mossadeq del 1953 era stato un colpo basso e noi gli dicevamo “lo avete organizzato spendendo milioni di dollari proprio da quest’ambasciata, chi ci assicura che non lo facciate di nuovo?”. Loro rispondevano: “non si può ripetere questa cosa, anche se volessimo sono cambiati i tempi”. Riguardo allo Scià: “Si è trattato di una questione umanitaria, è ammalato e voleva curarsi da noi”. Dopo aver rinvenuto i documenti segreti all’interno del caveau dell’ambasciata, leggemmo un messaggio dei diplomatici indirizzato al loro governo di Washington che esprimeva giudizi negativi sulla scelta di concedere asilo allo Scià. Il governo centrale non aveva dato retta ai consigli dei diplomatici che si trovavano a Teheran. Loro sì che avevano compreso molto meglio la situazione».
Dopo tanti anni, tornando alle scelte di quei giorni, chiedo a Hossein Sheikholeslam se non ritenga si sia trattato di una scelta azzardata e pericolosa. «Bisogna comprendere le ragioni degli studenti», dice sorridendo. «L’asilo allo Scià era ritenuta una grande offesa al popolo iraniano. E poi come dicevo, si aveva paura di una replica degli eventi del 1953. C’è un vecchio proverbio persiano che dice: se una persona è sana di mente non viene morsa da una fessura per due volte. Cioè se uno mette la mano in una fessura del muro e quella è la tana di un serpente e ti morde, non metterai mai più la mano in quella fessura. La giustizia era dietro quella azione. Gli studenti furono spinti dalla volontà di pretendere la restituzione dello Scià per fargli un processo giusto. Lo consideravamo un criminale, responsabile dell’assassinio di tantissime persone, di torture e di anni di dittatura». Quanto ai documenti dell’ambasciata, erano stati tagliuzzati in mille pezzi ma poi furono ricostruirli minuziosamente. «Fui tra quelli che lavorò maggiormente su quei documenti con le mie traduzioni. Emergeva la continua intromissione statunitense nelle politiche degli altri Paesi. Ci accorgemmo di come gli Stati Uniti non si fidassero di nessuno, nemmeno dello Scià. Controllavano il volume delle esportazioni del petrolio iraniano e utilizzavano la corruzione per ottenere informazioni sensibili. Leggete questi documenti e imparerete molto».