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 2025  settembre 07 Domenica calendario

Assedio Macron

C’è chi la chiama operazione kamikaze, chi la definisce una scommessa folle: di sicuro tutti in Francia, da destra a sinistra, la raccontano come la cronaca di una caduta (di governo) annunciata. E domani, lunedì 8 settembre, dopo due settimane di attesa, è il giorno X, quello della verità: quello in cui il primo ministro transalpino François Bayrou, centrista navigato da nove mesi appena alla guida dell’esecutivo, chiederà un voto di fiducia all’Assemblea nazionale sul piano di bilancio 2026. Mica una robetta da poco: una previsione di 43,8 miliardi di euro di risparmi, spese dello Stato congelate e – opposizione insorte come un sol uomo – due giorni festivi soppressi, Pasquetta e l’8 maggio, anniversario della fine della seconda guerra mondiale. Tocca essere realisti, dice il premier, i conti non tornano: «Il Paese è in pericolo, quando la casa brucia bisogna prendere atto della situazione». Che, tradotta in numeri, significa 114 per cento di rapporto debito-Pil e un deficit al 5,8 per cento nel 2024. Come dire: finora abbiamo vissuto allegramente al di sopra delle nostre possibilità, ahimè è venuto il momento di fare economie. Una richiesta talmente impopolare che, come prevedibile, in un Parlamento diviso in tre blocchi in cui il governo naviga a vista con un consenso di minoranza, rischia di far detonare l’ennesima crisi.
E infatti, salvo miracoli dell’ultim’ora, su cui nella laicissima Francia non si fa troppo affidamento, queste due settimane di allarmi lanciati da Bayrou sullo stato delle finanze pubbliche e di richiesta di responsabilità ai partiti non porteranno a molto: hanno già annunciato il voto contrario l’estrema destra di Marine Le Pen, la sinistra, e persino nel gruppo della destra moderata dei Repubblicani, che pure esprime otto ministri, si calcola che un terzo vorrebbe sfilarsi o quantomeno darsi assente al momento del voto. «C’è di peggio nella vita della caduta di un governo», filosofeggiava qualche giorno fa il premier in radio, consapevole ormai che anche questa sua operazione chiarezza, al pari di quella del presidente Emmanuel Macron di un anno fa, quando decise di sciogliere l’Assemblea nazionale e rispedire il Paese al voto, rischia di risolversi al contrario in un passaggio complicato.
Un tourbillon di quattro primi ministri cambiati in tre anni, il mito della stabilità del sistema francese sgretolato, le inquietudini sociali che erano esplose sette anni fa con il movimento dei Gilet gialli pronte a riaffiorare al grido di «Blocchiamo tutto», lo slogan della protesta che si ripromette di paralizzare la Francia mercoledì prossimo. Alla base, un quadro politico frammentato e una crisi di fiducia nei governanti: secondo un sondaggio Ifop per il quotidiano Ouest France, l’82 per cento degli intervistati non ritiene Bayrou in grado di riformare il Paese. E il 77 per cento non approva le scelte del presidente Macron: nemmeno ai tempi delle manifestazioni settimanali dei Gilet jaunes era mai sceso così in basso. Perché, alla fine, in un sistema come quello d’Oltralpe, è sempre il presidente al centro dei giochi: la probabile caduta del governo, domani, gli rimetterà nelle mani il boccino, ancora una volta toccherà a lui cercare di fare ordine e restituire al Paese un governo in grado di prendere decisioni. Solo che lo farà in un clima ancora più incattivito, con un Parlamento che resta suddiviso in tre, frutto del voto dell’estate 2024 e del gioco di desistenze che riuscirono a fermare la cavalcata trionfale di Le Pen, ma non a garantire una maggioranza omogenea. Stavolta, però, a differenza di quando a dicembre scorso cadde il governo Barnier, ha due opzioni. Potrebbe cercare un’altra figura a cui affidare l’arduo compito di destreggiarsi in questi marosi: un altro centrista, magari, che sappia attirare i voti dei Repubblicani e la benevolenza dei socialisti (in febbraio, fu la loro non sfiducia a salvare Bayrou). O un socialista, gira voce, che sappia però garantirsi la non belligeranza della destra moderata. Ma stavolta Macron potrebbe anche scegliere diversamente: passato più di un anno dal voto, la Costituzione gli dà la possibilità di sciogliere di nuovo l’Assemblea nazionale. Ipotesi su cui insiste Le Pen, sicura di essere la prima forza politica del Paese. Una scelta che aprirebbe un’altra fase delicata, ma che potrebbe convogliare sulla battaglia elettorale tutte le tensioni latenti.
Anche se, non da oggi, l’obiettivo grosso in realtà è lui: sono le dimissioni di Macron quelle che vengono richieste a gran voce nelle piazze e anche nel Palazzo, a cominciare dal leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon che è tornato a parlarne anche ieri. Richiesta che, finora, Macron ha rigettato sdegnosamente: vuole rimanere in carica fino al termine naturale, nel 2027, tanto più che l’anno prossimo la Francia sarà la presidente di turno del G7, figuriamoci se vuole arrivarci con le elezioni presidenziali di mezzo. Il clima però rischia di surriscaldarsi, la crisi da politica sta scivolando in una crisi di sistema, si moltiplicano le riflessioni sull’adeguatezza della Quinta repubblica ai tempi che corrono. Ancora una volta, sarà Macron a dover provare a dare risposte. Nella fase più complicata della sua presidenza.