il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2025
Le mie estati col “tollino”, quando l’Italia era decente
Sul Corriere (“Le nostre gare ciclistiche con i tappi di bottiglia”, 2.9.2025) Giancarlo Mariani riporta all’onor del mondo un oggetto, uno strumento, che oserei dire mistico di cui oggi s’è perso quasi il ricordo: il tollino. Che cos’è, o piuttosto cos’era, il tollino? Il tappo di bottiglia che chiudeva le bottigliette e le bibite non alcoliche, l’aranciata, la gazosa, la cedrata, il crodino. Ma per noi, ragazzini del dopoguerra, il tollino, una volta staccato dalla bottiglietta, aveva ben altre funzioni. Ci serviva per simulare soprattutto il ciclismo e il calcio, i grandi sport nazionalpopolari. Naturalmente si giocava sui marciapiedi segnando col gesso i percorsi. Per segnalare una pianura si facevano due linee parallele, dritte, la montagna era invece segnalata con molte curve. Erano dei segni grafici ovviamente. Più realistico era il gioco che si faceva con le biglie di vetro, dai colori meravigliosi, marini (quando divennero di plastica non ci interessarono più) sulla sabbia perché bagnandola e impastandola si ottenevano dei castelli come quelli che fanno, o facevano, i bambini. Ai bagni Umberto di Savona, i fratelli Badino organizzavano dei Tour in piena regola: l’iscrizione costava 5 lire, c’erano i premi per i GPM: 30 lire alla prima biglia, 15 alla seconda, 5 alla terza. Giocavano tutti tranne i bambini molto piccoli perché opponendo il pollice all’indice non avevano la forza di far rotolare la biglia. Ma questo era un gioco che si poteva solo fare al mare, d’estate. Ogni biglia, cioè ogni ciclista, aveva un nome: chi prendeva Coppi, chi Bartali, chi Magni. Io avevo invece scelto un oscurissimo ciclista sudafricano, Zaaf, chissà perché. Nel Sudafrica dell’apartheid non c’era né tempo né voglia di simulare alcunché. La realtà era già dura per se stessa.
Estate e mare hanno sempre significato per me il più proibito dei nomi, che non si dovrebbe nemmeno avere l’improntitudine di pronunciare: felicità.
Purtroppo io abitavo a Milano. I nostri giochi erano tutti all’aperto e dovevamo inventarceli a parte quelli antichissimi come la lippa che risale al Quattrocento a.C.. La cosa preferita era giocare alla guerra da cui eravamo appena usciti. Si giocava con le cerbottane, ritenute un po’ vili perché colpivano da lontano, un po’ come quando fu inventato il fucile e i cavalieri si rifiutarono di adottarlo per lo stesso motivo (Il mestiere delle armi, Olmi, 2001). Noi, quindi facevamo semplicemente a botte, senza le pietre perché troppo pericolose né tantomeno le arance dato che, in anni di magra, non era il caso di sprecare il cibo. C’erano però delle regole precise: se il ‘nemico’ cadeva a terra non lo si poteva più toccare. Anche qui c’erano delle distinzioni tra ceti popolari e ceti abbienti. Finché ho abitato in via Washington, quartiere allora alla periferia di Milano, non ho mai assistito a episodi di bullismo, al contrario era un dovere proteggere il più debole. Quando venni ad abitare in centro la situazione si era capovolta.
La nostra ‘educazione sentimentale’ è avvenuta quindi sulla strada. In via Washington, strada molto larga, noi giocavamo a calcio con palloni veri, quelli che avevano una cucitura in mezzo e se li prendevi di testa facevano un male cane. Il problema era sempre lo stesso: il tiro era stato troppo alto o era il portiere a essere troppo piccolo? C’era poi un gergo a noi misterioso: “Hai fatto ens”. Solo molto più tardi scoprimmo che voleva dire mano, cioè hands, perché il calcio professionista era partito dalla Gran Bretagna. C’era poi “sei un venezia” cioè uno che voleva fare tutto da sé e non passava mai la palla. Un Berlusconi insomma.
Io e il mio amico Andrea Gargiulo ci eravamo inventati un gioco che precede il Subbuteo e le odierne Playstation. Ma c’è una sostanziale differenza: con la Playstation tu puoi dare al giocatore, poniamo Messi, le caratteristiche che ha nella realtà, noi invece le caratteristiche dovevamo crearcele da soli a colpi di martello sul tollino. Gli attaccanti dovevano essere il più possibile bassi e aderenti al tavolo perché così la palla, cioè il bottone, superava la barriera in genere formata da 5 tollini. I difensori erano rafforzati da un doppio sughero per renderli più alti. Però una volta stanco di questo schema monotono inventai una tattica che sarebbe piaciuta a un allenatore moderno. Spargevo i tollini su tutto il campo un po’ come i giocatori della doppia grande Olanda di Neeskens e Cruijff, dove il portiere, Jongbloed, un pazzo, stava perennemente nel cerchio del centrocampo. Così sguarnivo la difesa ed era più facile per l’avversario tirare quasi a porta vuota, però era più difficile arrivare a tirare con tutti quei tollini in mezzo. È un po’ la tattica del Barcellona di oggi, fondata sul fuorigioco. Ma allora, nel calcio vero, il fuorigioco non c’era. C’era il ‘libero’, ruolo che ho ricoperto per vari anni in squadre minori. Una vera pacchia. Le ali, allora esistevano, erano dei dribblomani e ti davano quattro o cinque tempi d’intervento. Quanto al centravanti avevo uno stopper robusto che lo faceva arrivare sempre in affanno e bastava spostargli il pallone di un niente perché perdesse la concentrazione.
A metà degli anni 50 arrivò da noi un gioco interessantissimo: il calciobalilla. Io, con l’ometto di centro, avevo un gancio velocissimo e imparabile (“Ho un sinistro da un quintale e il destro, vi dirò solo un altro ce l’ha eguale ma l’ho messo a KO”, Fred Buscaglione, Che notte, 1959). A conferma che non racconto balle ho un testimone, il professor Assereto, in arte Giagi. Insieme, lui giocava in difesa, abbiamo vinto un campionato di calciobalilla nella Riviera di Ponente. Oggi il calciobalilla esiste ancora, ma come elemento decorativo da mettere fuori dai bar, un prodotto vintage.
Intanto erano scomparsi i tollini, quelli veri intendo. La latta era stata alleggerita e non c’era più il sughero. Così il tollino colpendo il bottone rimbalzava indietro. Quando con mio figlio Matteo tentammo di fare nuove squadre rispetto a quelle di Andrea e mie, per esempio la Viscontini, in cui lui giocava, fu un disastro. Ciò naturalmente in nome dell’economia. Oggi vige la legge dell’“obsolescenza programmata del prodotto”. Cioè, se un prodotto funziona troppo bene bisogna toglierlo di mezzo e sostituirlo con un altro. È la storia della Cinquecento, macchina resistente e divertente, la ‘doppietta’.
Quando venni ad abitare in centro andavo a giocare dai salesiani di via Copernico. Naturalmente non c’erano le bandierine dei calci d’angolo, non c’erano i segnalinee, l’arbitro era vestito alla bell’e meglio, il campo era in terra battuta. Ma a me sembrava di essere un giocatore vero, in un campo vero. Non molti anni dopo, mio figlio giocava non solo su un campo vero, ma c’era l’allenatore, il preparatore atletico, il medico. Come oggi.
La borghesia mandava i propri rampolli alle private sperando così che incontrassero i figli dei ricconi o di qualche personaggio importante (è la storia di Berlusconi e Confalonieri). La borghesia colta invece, i Rizzoli, i Mondadori, i Pesenti, li mandavano alle pubbliche, dove non si facevano sconti di favore.
È ai salesiani che ho visto giocare per la prima volta Berlusconi: era alto come un soldo di cacio e non passava mai la palla, un “venezia”.
Mi ha raccontato Pier Quinto Cariaggi che “leccava il culo al prete e non passava i compiti”. C’era già tutto Berlusconi. Ma qui siamo già in un’altra era geologica, dove regole, diritti, principi, persino la decenza, non hanno più diritto di cittadinanza. L’Italia di oggi.