la Repubblica, 6 settembre 2025
Intervista ad Armistead Maupin
Ci voleva un professionista dello humor come Armistead Maupin per trasformare la terza giornata del Festivaletteratura in un teatro dove per fortuna si può anche ridere di temi seri come i diritti civili. Maupin prima di salire sul palco (ieri è stato protagonista di un incontro a Palazzo San Sebastiano) sembra scalpitare per raccontare le cose alla sua maniera. L’intervista nata sull’onda del buonumore è un inno alla vita controcorrente. Maupin è un mito dello storytelling californiano grazie ai dieci libri de I racconti di San Francisco, che la casa editrice Playground sta ripubblicando con nuove traduzioni. Il primo volume, con il titolo omonimo, è uscito di recente. Maupin ha avuto un successo tale che dalle sue storie, ambientate nella mitica Barbary Lane, indirizzo fittizio al civico 28 di Frisco, sono nate due serie tv, l’ultima su Netflix.
È un’impresa titanica la sua. Ha seguito un particolare metodo di lavoro?
«Scrivevo 800 parole al giorno, dovevo tenere un ritmo serrato per fare uscire un pezzo a settimana. Più andavano bene, più aumentava la mia carica. Quei primi passi risalgono al 1976, oggi non sono più così disciplinato, con l’avanzare dell’età mi sono stancato. Ho 81 anni, a questo punto tutto quello che voglio fare è girare per festival».
Quale era l’idea iniziale: raccontare un ambiente, un’epoca?
«Sinceramente la prima cosa importante per me era fare coming out, presentarmi come uomo omosessuale. E volevo anche mostrare quanto fossero inclusive, tolleranti e fantastiche le persone che vivevano a San Francisco. Oggi, purtroppo, San Francisco non è più la stessa, è diventata una città per ricchi. Ecco perché ho scelto di vivere a Londra, dove Trump per fortuna non c’è».
Risulta dalle cronache, però, che lei ha un fratello trumpiano.
«È davvero disturbante perché Trump per me rappresenta il fascismo, qualcosa che in Italia avete conosciuto bene».
Invece con suo padre ha poi riallacciato i rapporti?
«L’ho raccontato più volte, era un vero omofobo, ma nel corso del tempo è cambiato, si è ravveduto.
Alla fine ha perfino accettato lui».
Maupin indica suo marito Christopher Turner, seduto al tavolo vicino.
Ha benedetto quindi la vostra unione?
«Gli ha detto pure “prenditi cura di lui”, alludendo a me. Anche se, vista la grande differenza d’età, semmai sarebbe stato più logico dire il contrario».
Lei sembra sempre divertirsi molto. Nei suoi libri ha raccontato l’Aids, gli amici morti, la paura, ma nonostante tutto non c’è mai angoscia.
«Sono fatto così, il mio lavoro è cercare la gioia anche in mezzo a cose terribili. E gli anni ’80 e ’90 sono stati terribili, ho visto morire amici, ma la morte non ha seppellito il nostro umorismo».
Che cos’è per lei l’umorismo?
«Qualcosa di naturale, spontaneo. Io vivo in uno stato di costante ironia. Quando penso che le cose non vanno come dovrebbero andare, tendo a scherzarci su. L’umorismo è una necessità, la chiave per sopravvivere».
E se incrocia qualcuno non proprio ironico?
«Ci parlo lo stretto necessario e tendo ad abbandonare la stanza».
Il suo mondo narrativo, a cominciare dal primo volume con protagonista Anna Madrigal, è popolato di transgender.
«Anna ha qualcosa della mia nonna materna, una donna estrosa, dolce, gentile, spirituale. Considero le persone transgender superiori. A essere sincero anche io come omosessuale mi considero superiore! (ride). Noi queer sappiamo cose che gli altri non possono sapere».
Le piace il termine queer?
«All’inizio aveva un significato peggiorativo (“strano”, “insolito”, ndr). È stato Isherwood a utilizzarlo per primo in un altro modo, in un’accezione positiva.
Con Isherwood abbiamo in comune anche un fidanzato molto più giovane e artista. Lui stava con Don Bachardy, la loro casa era qualcosa di meraviglioso, piena di opere d’arte, quadri di Hockney, che era un loro amico molto stretto. Una volta abbiamo anche cenato insieme».
Si avvicina a questo punto, chiamato in causa, di nuovo Christopher Turner per mostrare sul telefonino la foto di Bachardy.
E aggiunge: «Ti ricordi? Avevano anche un bellissimo autoritratto di Tennessee Williams, lo avrei voluto comprare...».
Tra i suoi incontri leggendari, c’è quello con Rock Hudson.
Eravate fidanzati in segreto?
(Qui si diverte proprio, gli occhi si fanno vispi).«Ma no, non direi proprio fidanzati, amici di letto, ecco. Sarà successo un paio di volte. Ma mi faccia raccontare un episodio che mi sta a cuore».
Prego.
«Una cosa strana successa quando era appena uscito il primo dei Racconti di San Francisco. Rock Hudson era in una stanza piena di uomini gay, piuttosto ubriaco. A un certo punto, si è alzato in piedi e ha iniziato a leggere quel primo episodio davanti a tutti. C’ero anche io. Mi ha fatto piacere, ma forse avrei preferito maggiore sobrietà (sorrisetto). Credo volesse sedurmi, ci eravamo conosciuti due sere prima. Era un attore, sapeva esattamente quali armi usare».
E con Christopher, invece, come è stato il primo incontro?
«La nostra storia è iniziata 21 anni fa proprio a San Francisco. Ci siamo notati mentre camminavamo per strada. Abbiamo incrociato gli sguardi e ho pensato: ma guarda quell’uomo, sembra un modello.
Poi ci siamo parlati e scambiati i numeri di telefono. Ma non mi sentivo bene in quei giorni, per cui non l’ho chiamato subito».
Amore a prima vista?
«Non oserei chiamarlo così. Più passione a prima vista direi. Christopher dove sei, vieni qui, racconta anche tu la tua versione del nostro primo incontro, vediamo se coincide con la mia».
Christopher arriva e non si fa pregare: «Ricordo che era un giorno infrasettimanale. Eravamo per strada, abbiamo incrociato gli sguardi. Ti sei avvicinato e mi hai chiesto se per caso ero su qualche sito per uomini gay attempati. Avevi la sensazione di avermi già visto. La verità? Io allora ero il proprietario di un sito del genere. Mi hai fatto però aspettare una settimana prima di chiamarmi. E poi hai cancellato e rimandato il primo appuntamento».
Era una tattica?
(Pausa di Maupin). «Ma da allora non ci siamo più lasciati».