La Lettura, 7 settembre 2025
Brucia il Madagascar degli «under 19»
C’è sempre un sorriso in fondo alla strada, in Madagascar. Sorridono i bimbi ai bordi delle strade polverose, sorridono le madri con le ceste sulla testa, sorridono i ragazzi chini sulle risaie, in mezzo alla terra rossa. Non hanno niente, ma ti offrono quello che hanno. Su quest’isola nell’Oceano Indiano, la quarta più grande al mondo, la metà della popolazione ha meno di 19 anni. La speranza di vita alla nascita è 64 anni. Hanno vent’anni in meno da vivere di noi, bisognerebbe andar di fretta, e invece ripetono mora mora (si pronuncia «mura mura»): piano piano.
La capitale, Antananarivo, è città di contrasti: si alternano compound fortificati, baracche, campi di riso, laghi e tratti di campagna. Negli ultimi due secoli, un’area paludosa di 20 chilometri di diametro è stata trasformata progressivamente in risaie, punteggiate da quartieri sulle piccole alture. Ma adesso gli specchi d’acqua vengono mangiati da centri commerciali e uffici. Il traffico è folle, l’inquinamento asfissiante. Sfrecciano i taxi collettivi: furgoni malmessi da cui si scende lanciandosi dal portellone posteriore. Non ci sono semafori, si improvvisa. Le case dei pochi ricchi paiono carceri ben sorvegliati, con filo spinato e telecamere: vivono prigionieri dei loro soldi. Ovunque altrove, capanne di legno e lamiera, con tetti di foglie di banano e di pandano, una pianta tropicale che da sola fa un ecosistema. Alcune sono sopraelevate, per resistere alla stagione delle piogge, che arriva ogni anno da dicembre ad aprile ed è sempre più violenta. Solo nei centri grossi c’è l’elettricità, per il resto viene razionata e ci si arrangia con qualche pannello solare collegato alle radioline per strada. Si vive seguendo la parabola del sole, di notte girano solo i cani. Quasi nessuno ha il frigorifero, bisogna andare al mercato la mattina e mangiare cibi freschi. Le bancarelle di frutta e fiori sono piene di colori, soprattutto al martedì, quando è fady (cioè tabù, proibito) lavorare la terra. Per un vezzo coloniale retrò certi negozi si chiamano quincaillerie: vi si trova di tutto, un misto di ferramenta e drogheria. Nei posti più impensabili a mezzogiorno spuntano gli hotely, che non sono hotel, ma street food: per noi una moda chic, per loro necessità.
Uscendo da Antananarivo, la città dei mille guerrieri, le strade nazionali diventano impervie. Costruite dai francesi, da trent’anni non sono curate e la velocità media non supera i 25 chilometri l’ora. Sono disseminate non di buche, ma di voragini, canyon, crateri, piscine di fango, con ampi tratti sterrati e sporadici cantieri. I fondi per la manutenzione viaria qui non provengono dalle tasse, ma da aiuti internazionali: qualcuno se li intasca e le strade vanno in malora.
Lungo l’arteria che collega Antananarivo e il principale porto del Paese, Tamatave (o Toamasina), sulla costa orientale, i camion arrancano sulle curve in salita come lumaconi diesel, lasciandosi dietro nuvole nere, a passo d’uomo, e infatti i ragazzi si attaccano dietro e si fanno portare per un tratto. Le ricchezze minerarie invece viaggiano veloci: le potenze straniere che le sfruttano – Cina, Francia, Canada, Sud Corea – hanno costruito una conduttura a parte, che passa parallela in mezzo alle foreste pluviali come una ferita e sbuca direttamente sulle navi. Le barriere coralline assistono al passaggio dei cargo.
Per andare in auto verso sudovest, fino al porto di Toliara, una volta ci volevano 12 ore, adesso tre giorni. Il concetto di progresso è relativo, e vale solo per pochi. Quanto ai treni, esistono solo tre linee, per lo più immaginifiche. Quella verso est è percorsa da lentissimi convogli tre o quattro volte a settimana. Quella verso sud, da Antananarivo ad Ambositra, è in disuso. Sulle massicciate le donne stendono i panni ad asciugare, i bambini corrono, gli zebù pascolano. Ogni tanto si scorgono stazioni spettrali – per esempio ad Andasibe e Antsirabe – in macerie, abbandonate, ricolonizzate da umani e animali. L’unica linea che «funziona» è quella che a sud da Fianarantsoa – seconda città del Paese e avversaria storica della capitale, frutto di un divorzio fra le etnie Merina e Betsileo – porta dopo 163 chilometri a Manakara, sulla costa est, capolinea delle barche che percorrono il canale di Pangalanes, tracciato dai francesi collegando fra loro per 600 chilometri le lagune a ridosso dell’oceano. Su un solo binario, un giorno il treno va in una direzione e il giorno successivo, se tutto va bene, in quella contraria. La percorrenza minima è dieci ore, ma il viaggio può durare anche giorni.
Il deterioramento delle infrastrutture rispecchia le difficoltà profonde del Madagascar, tra i Paesi più poveri al mondo. Quando passano i turisti, i bambini urlano gioiosi: «Salu vasaha!», dove vasaha sta per bianchi, stranieri. Inoltrandosi verso le zone più aride a sudovest, però, non chiedono più soldi né caramelle, ma acqua. Sei milioni di persone almeno vivono al di sotto della soglia di indigenza. Secondo l’Indice di Sviluppo umano – che tiene conto di aspettativa di vita, grado d’istruzione, reddito familiare – il Paese è al 173° posto su 191. La maggior parte della popolazione vive di un’economia di sussistenza e di un’agricoltura locale basata sull’autoproduzione. Pochissimi i trattori: si ara con gli zebù. Questi bovini domestici con la gobba, originari dell’Asia, sono per i malagasy come una banca e un’assicurazione, oltre che forza lavoro. Il benessere di una famiglia si misura in numero di zebù e di figli, mediamente almeno 4 (mezzo secolo fa erano 8). Essere pingui è uno status symbol riservato a pochi facoltosi. Le guide locali fanno notare che nel Parlamento malgascio quasi tutti i politici sono sovrappeso.
Tutti gli altri non fanno in tempo a ingrassare, c’è sempre troppo da camminare. Si vedono donne in marcia con i bambini provenire da luoghi imprecisati, lontanissimi, nella savana, e dirigersi verso altri luoghi imprecisati, che conoscono solo loro. L’arte femminile di portare i cesti sulla testa, con la schiena dritta, è ammirevole, ma poi dopo i 40 anni compaiono dolori muscolari e articolari. La popolazione del Madagascar è suddivisa in 18 etnie. Le comunità rurali hanno un’antica tradizione di autogestione. Il capo villaggio, uomo o donna che sia, dirime le controversie, insieme al guaritore e all’astrologo, che mette becco sul destino dei matrimoni. Del capo politico nominato dal governo si tende a diffidare.
Povertà qui significa sfruttamento insostenibile delle risorse, per sopravvivenza. Se hai fame e sete, la difesa dell’ambiente è l’ultimo dei tuoi problemi. Così, esaurite le risorse, i tuoi figli avranno ancora più fame e più sete. Il 90% del territorio è stato già deforestato. Parchi e riserve spiccano come fazzoletti sparsi dentro i quali resiste tenace una biodiversità straordinaria: 112 specie di lemuri; 70 di camaleonti; 400 di anfibi; 5 famiglie di uccelli endemiche; pipistrelli; dugonghi; 200 orchidee; più di cento felci che sembra di essere ancora nel Giurassico; palme; bambù; 6 delle 8 specie di baobab.
L’odore pungente del carbone impregna ogni cosa. Gli eucalipti invasivi, importati dai francesi dall’Australia, crescono velocemente e bevono tanta acqua: la gente li pianta, li taglia e li trasforma in carbone, per cucinare il cibo e bollire l’acqua. Il gas costa una fortuna e manca la rete di distribuzione. Nell’altopiano centrale imperversano i pini: vengono dalla Cina e servono solo per fare il carbone. In certe aree interne il legno è letteralmente esaurito e allora si producono mattoni a partire dalle argille rosse: si compattano, si mettono ad asciugare, si cuociono in forni che torreggiano nel paesaggio.
I pregiati legni del Madagascar – palissandro, ebano, legno di rosa – furono depredati dai francesi per le costruzioni e l’esportazione. Ovunque spazia lo sguardo, c’è un fuoco acceso. Nel sud e nell’ovest dell’isola, si tagliano e bruciano progressivamente frammenti di foresta per piantare riso e patate dolci sul suolo arricchito dalla cenere, ma alla prima stagione delle piogge tutto il terreno superficiale viene dilavato via e portato a mare. L’anno dopo si ricomincia e si dà fuoco a un altro pezzo. Nel ’95 è bruciato dolosamente anche l’ottocentesco palazzo della regina Ranavalona I ad Antananarivo: era tutto di legno, lo hanno ricostruito. Tale è l’erosione che dal satellite si vedono fiumi di fango inquinato sfociare nei mari attorno, come tante lingue di veleno che si insinuano nell’Oceano Indiano.
Oppure si incendia la foresta per creare pascolo per gli zebù. Così restano soltanto enormi distese di erba gialla e nera, sopra la terra rossa del Madagascar, punteggiate di baobab, palme di Bismarck e tapie la cui corteccia resiste al fuoco e sembra la pelle di un coccodrillo. Qualcuno allora spera nel sottosuolo. Negli ultimi decenni nel sudovest è scattata una nuova corsa all’oro, che qui si chiama zaffiro. Sono nati dal nulla nuovi insediamenti, come Ilakaka, un mercato di gemme aperto 24 ore al giorno. I compratori asiatici hanno messo su casa e aspettano l’arrivo dei cercatori, dispersi nei fiumiciattoli vicini a setacciare la sabbia. Lungo la filiera guadagnano quasi tutto gli stranieri. Come per la vaniglia, il cacao, il rum e il turismo. Quando corre voce di un nuovo ritrovamento di zaffiri, file di gente si incamminano speranzose verso un punto lontano nel nulla. Poco lontano, nel maestoso parco di Isalo, tra canyon spettacolari di arenaria, le tribù dei Bara, animisti, di origini africane, depongono nella roccia i defunti: prima in un sepolcro provvisorio più in basso; dopo qualche anno, al termine di una cerimonia molto alcolica di esumazione e pulitura delle ossa, posizionano i feretri più piccoli in anfratti altissimi sulle pareti, ricoprendoli di sassi. Un bellissimo modo di essere sepolti, a metà fra la terra e il cielo.
In Madagascar si mangia riso tre volte al giorno, in una dipendenza ormai quasi biologica dall’asiatica Oryza sativa. Ogni pasto è una cupola di riso con accompagnamento di verdure, legumi, carne di zebù, pollo e maiale. Importato e lavorato faticosamente a mano, il riso ci ricorda che il Madagascar fu colonizzato per la prima volta fra 1.500 e 2.000 anni fa da popolazioni provenienti dalla regione indomalese. La sua storia è una stranezza dell’evoluzione umana: l’isola dista poche centinaia di chilometri dalle antichissime culle africane della specie umana, eppure è stata abitata solo recentemente da una migrazione in senso inverso, da oriente a occidente, lungo le coste dell’Oceano Indiano.
Gli asiatici estinsero i lemuri giganti e l’uccello elefante, favoleggiato già da Marco Polo, di cui si trovano ancora le uova. Lingua austronesiana (simile a quelle del Borneo) e tratti somatici dei malagasy raccontano chiaramente di un viaggio da oriente. Arrivarono poi popolazioni africane swahili, oggi presenti soprattutto lungo le coste e nel sud. I commercianti arabi portarono nuove colture di spezie, l’astrologia, il calendario e la carta. Oggi il 4% della popolazione è islamica, concentrata soprattutto nella regione di Diego Suarez (o Antsiranana) al nord. Ma tutti in Madagascar si salutano dicendo salama. Venne poi il tempo dei pirati – che sull’isola di Sainte-Marie fondarono nel Seicento la loro democrazia utopica, Libertalia – e quindi delle incursioni portoghesi e inglesi e della colonizzazione francese a fine Ottocento, imposta con una feroce repressione.
In Madagascar, indipendente dal 1960 dopo 13 anni di lotte, la presenza oggi più invadente, e ricattatoria (risorse minerarie, agricole e ittiche a prezzi stracciati, in cambio di infrastrutture e importazioni, cioè quella forma di aiuto ai Paesi poveri che crea dipendenza), è quella cinese. Controllano il mercato della canna da zucchero (importata anch’essa) e della mica, usata come isolante termico ed elettrico: secondo l’Unicef più di 10 mila bambini lavorano alla sua estrazione nel sud poverissimo del Paese. Li vedi seduti a spaccare pietre ai bordi delle strade. Può quindi capitare che, nel nordovest, dalla città di Ambilobe parta una strada asfaltata nuova di zecca, una rarità in Madagascar, che scavalca le montagne, passa attraverso una riserva dove vivono gli ultimi esemplari del rarissimo sifaka di Tattersall e arriva sulla costa orientale a Vohemar e Sambava. Come si spiega questa dissonanza? Facile. I cinesi stanno monopolizzato le miniere d’oro e hanno bisogno di vie di scorrimento rapido verso il mare. Vivono in compound separati, non si sa cosa succeda là dentro. La strada poi ha il merito d’attraversare Betzihaka, villaggio natale dell’attuale primo ministro, e allora non serve aggiungere altro. Nel resto del Paese, piste di sabbia.
Nel nord è esplosa la moda di masticare foglie di khat, una droga insidiosa, importata dagli yemeniti mandati dai francesi per tenere svegli gli operai nei loro turni massacranti. Alla mattina si vedono ragazzi scendere dai villaggi della Montagna d’Ambra con sacchi di khat sulle spalle. Devono fare presto perché più arriva fresco al mercato della città e più si guadagna. Alcuni corrono con le radio a tracolla sparate al massimo, al ritmo ossessivo delle percussioni africane. Le stesse che si sentono per tutta la notte nei villaggi, quando è il momento della festa per la circoncisione dei bambini.
Si vive con un occhio avanti nel futuro e uno indietro nel passato, come il camaleonte. La gioventù è un motivo di speranza, insieme ai progetti di cooperazione che rinunciano al paternalismo occidentale. Dove arrivano gli eco-turisti, per esempio, le popolazioni locali stanno smettendo di tagliare la foresta. I parchi meno accessibili infatti non sono i più riparati: al contrario, sono meno sorvegliati e più esposti al bracconaggio, alle miniere illegali e al taglia-brucia. Con gli introiti di un turismo lento e rispettoso si possono finanziare scuole e attività economiche sostenibili per i villaggi, educazione ambientale, ricerca scientifica per la conservazione della biodiversità, progetti di riforestazione. Un caso esemplare è l’area protetta della foresta di Maromizaha, nel Madagascar centro-orientale, realizzata grazie alla caparbietà di Cristina Giacoma dell’Università di Torino.
Il Sud del mondo è qui, non nei trilaterali Cina-India-Russia. Nell’emisfero australe non ci sono potenze nucleari. Hanno altri problemi da risolvere prima di programmare l’apocalisse. I pescatori dell’etnia Vezo prendono ancora il largo nel canale del Mozambico con le loro piroghe a vela e bilanciere. Si accampano in mare di notte, come nomadi dell’oceano. Ad Ambilobe, flagellata ogni anno da cicloni sempre più violenti che spazzano via ponti di cemento armato come fossero fuscelli, hanno l’elettricità, la televisione e i cellulari, ma non l’acqua corrente. Vanno a prenderla al fiume.
Molte organizzazioni umanitarie in Madagascar facevano affidamento principalmente sui fondi dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid), che è stata cancellata dall’amministrazione Trump nel marzo scorso. Un entusiasta Elon Musk festeggiò la decisione saltellando sul palco. Con quei soldi venivano pagate vaccinazioni di massa, progetti di protezione delle donne, campagne contro la malnutrizione infantile, l’Hiv, la tubercolosi, la malaria, e anche la conservazione degli ecosistemi rimasti. Un milione e mezzo di malagasy sono stati assistiti da Usaid, nel sud del Paese, durante la siccità del 2019-2021, che insieme alla pandemia ha inferto un doppio colpo micidiale. Secondo uno studio pubblicato su «Lancet» a luglio, il taglio dell’agenzia causerà nel mondo 14 milioni di morti evitabili da qui al 2030, di cui 4,5 milioni di bambini sotto i 5 anni. Cifre spaventose e certificate, di cui poco si parla. Eppure, spesso la connessione wifi nei villaggi più remoti del Madagascar porta la firma del miliardario venditore di pianeti B: Starlink. Evidentemente, l’uomo più ricco del mondo ritiene che sul pianeta A i ragazzi dell’Africa possano anche morire di fame, purché con il telefonino in mano.