La Stampa, 5 settembre 2025
In una popolazione italiana in declino demografico l’unica fascia a crescere è quella anziana. All’interno della popolazione anziana la componente che lievita maggiormente è quella degli over 85 e ancor più dei centenari
In una popolazione italiana in declino demografico l’unica fascia a crescere è quella anziana. All’interno della popolazione anziana la componente che lievita maggiormente è quella degli over 85 e ancor più dei centenari. I dati Istat ritraggono in modo molto chiaro la metamorfosi demografica in atto.
I residenti in Italia sono in continua riduzione dal 2014: erano 60 milioni e 346 mila e sono ora meno di 58 milioni. Il numero di chi ha 65 anni e più è, al contrario, salito, nello stesso periodo, da poco meno di 13 milioni a oltre 14 milioni e mezzo. Si tratta di un incremento relativo del 12% circa, che sale però al 31% nella fascia di chi ha superato gli 85 anni e al 36% tra chi ha alle spalle un secolo di vita. Un andamento opposto alle nascite che, nel periodo dal 2014 al 2024, sono diminuite del 26%.
Questo significa che negli ultimi dieci anni abbiamo guadagnato un ultracentenario ogni tre e abbiamo perso una nascita su quattro. In valore assoluto coloro che hanno 100 anni e più sono oggi 23.548, erano nel 2014 17.252 e appena 7.200 nel 2004. Una crescita impetuosa, nonostante la frenata nell’ultimo decennio dovuta all’entrata tra i centenari delle generazioni nate negli anni della Prima Guerra Mondiale, meno abbondanti di quelle immediatamente precedenti e successive.
L’impatto dell’invecchiamento sulla struttura demografica italiana si sta rivelando sensibilmente maggiore del previsto per due motivi. Da un lato la longevità è andata ad estendersi oltre le aspettative e con prospettive future inedite, d’altro lato è diventata più debole la consistenza della popolazione più giovane, rendendo più accentuati gli squilibri generazionali.
Va precisato che l’aumento della popolazione anziana ha alla base un fatto positivo, ovvero la riduzione della mortalità infantile e nelle fasi successive della vita. Nelle società del passato, fino a poche generazioni fa, la probabilità di un nuovo nato di arrivare a 65 anni era pari a un terzo, mentre oggi è superiore al 90 percento. Questo significa che i guadagni di anni di vita sono tutti spostati oltre tale età. Ma quale vita? Per chi arriva a 65 anni l’aspettativa in buona salute (senza limitazione delle attività quotidiane) è pari circa a 11 anni. Se non si aumenta tale indicatore a crescere sarà soprattutto quella in cattiva salute. Ma servono adeguate risorse per farlo.
La possibilità di costruire le basi di una “società della longevità” sostenibile e inclusiva è strettamente legata al rapporto tra generazioni. Se la popolazione giovane-adulta si riduce troppo, va a indebolirsi la componente da cui dipende la crescita economica e il funzionamento del sistema di welfare. In tutto il mondo occidentale il numero medio di figli per donna si è posizionato sotto la soglia di due, quella che garantisce l’equilibrio nel rapporto tra generazioni. Nel nostro paese il tasso di fecondità da oltre 40 anni si trova sotto 1,5, ovvero su livelli gravemente insufficienti per il ricambio generazionale. Le dinamiche più recenti sono state ulteriormente peggiorative, con nascite in continua caduta, come abbiamo documentato sopra.
In questo quadro, sostenibilità del processo di invecchiamento della popolazione e inclusività della longevità sono messi gravemente a repentaglio. Il rischio è di andare incontro ad uno scenario in cui le pensioni saranno mediamente basse e il sistema di welfare pubblico insufficiente, con la conseguenza che solo una parte minoritaria della popolazione potrà permettersi di vivere bene e sempre più a lungo. Anche lo sviluppo di nuove tecnologie sempre più avanzate – in grado di prevenire malattie e rallentare la senescenza – se non adeguatamente regolato, rischia di favorire pochi con molte risorse anziché generare beneficio per tutti. Crisi demografica e crisi della democrazia sono meno indipendenti di quanto si creda.