Corriere della Sera, 5 settembre 2025
L’offensiva degli hacker cinesi in Europa e Usa
È la più grande campagna di «cyber spionaggio» cinese scoperta dalle intelligence occidentali: 80 i Paesi colpiti, inclusi Italia, Usa, Regno Unito, Germania, Giappone, Spagna e Finlandia. Tra i cellulari intercettati, anche quelli di Donald Trump e dell’attuale vicepresidente JD Vance (questo, però, durante la campagna elettorale). Tre società cinesi, che operano dal 2019 sotto il controllo dell’esercito e dei servizi segreti, hanno attaccato società di telecomunicazioni, provider di Internet, sfruttando le vulnerabilità dei sistemi e sottraendo dati.
Lo ha rivelato ieri un’inchiesta dal New York Times, che ha pubblicato una nota firmata dalle agenzie americane Fbi e Nsa, dalle italiane Aise e Aisi, e dai servizi di controspionaggio di un’altra decina di Paesi alleati. «L’operazione è così ampia che, immagino, nessun cittadino americano è stato risparmiato», ha dichiarato una dirigente dell’unità cyber dell’Fbi, Cynthia Kaiser. Mentre l’ex vicedirettrice della Cia, Jennifer Ewbank, l’ha definita come «un nuovo capitolo» che dimostra il salto in avanti delle capacità offensive degli hacker di Pechino. Solo negli Stati Uniti, sono state colpite diverse società di telecomunicazioni.
L’operazione, nome in codice «Salt Typhoon», andava avanti da anni. Le prime notizie erano emerse un anno fa, con un’inchiesta del Wall Street Journal, ma stando a quanto emerso ora è molto più ampia di quanto non si fosse inizialmente pensato. Recentemente alcuni esperti avevano avvertito che le capacità di attacchi hacker da Pechino stanno superando quelle dell’America: «La Cina sta vincendo la cyber war», ha scritto lo scorso mese Anne Neuberger, ex consigliere per la Sicurezza tecnologica dell’amministrazione Biden. Pechino, sosteneva su Foreign Affairs, «si sta preparando a dominare la battaglia dello spazio digitale», sfruttando anche l’asimmetria tra il suo sistema autocratico, dove le infrastrutture sono sotto il controllo del governo, e quello americano, democratico e decentralizzato: il «Grande Firewall», che separa il web cinese, consente non solo di limitare la libertà di espressione e d’informazione, ma anche di bloccare software ostile; invece negli Usa l’infrastruttura è segmentata, in mano ai privati, un sistema più libero, ma anche più vulnerabile. Il rischio, secondo Neuberger, non riguarda solo i dati, ma anche potenziali atti di sabotaggio: «Il malware cinese ha penetrato i sistemi energetici, idrici e dei trasporti».