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 2025  settembre 04 Giovedì calendario

Ci serve un canone per sapere chi siamo

Niente è difficile come costruire un canone culturale. E niente è più necessario. Devono averlo pensato gli esponenti del governo svedese che hanno incaricato un comitato di esperti di mettere nero su bianco l’identikit dell’identità nazionale, il canone della svedesità. Ne è venuto fuori un elenco di scrittori, scienziati, artisti, ma anche di abitudini, tradizioni, invenzioni, luoghi, concetti, leggi. Dal Sistema della natura di Linneo, il padre delle scienze naturali, alSettimo sigillo, film capolavoro del regista Ingmar Bergman, dal drammaturgo August Strindberg all’invenzione del congedo di paternità, dalla musica del trovatore Evert Taube al diritto di vagabondaggio nelle proprietà altrui, fino all’istituzione del premio Nobel e all’Ikea, il colosso del design democratico. E c’è perfino Pippi Calzelunghe, la ragazzina dai capelli rossi, nata dalla penna della scrittrice Astrid Lindgren, che ha incantato i bambini di tutto il mondo e adesso è immortalata nel museo Junibacken di Stoccolma, dove si visita perfino la sua casa.
Ma non sono mancate esclusioni clamorose, come quella del celebregruppo musicale degli Abba. Verrebbe da esclamare “Mamma mia” se non fosse che l’elenco si ferma al 1975, quando la band era appena nata.
Criterio, peraltro, non esente da critiche. Che accusano il progetto di nazionalismo, oltre che di chiusura alle nuove produzioni culturali spesso opera degli immigrati. Ma su questo aspetto il governo scandinavo è in buona compagnia, visto che anche l’Unesco, la mente culturale delle Nazioni Unite, considera i cinquant’anni il tempo giusto di decantazione perché un patrimonio, materiale o immateriale, possa essere considerato caratterizzante di un Paese e della sua identità.
La verità è che l’identità stessa è in continua trasformazione. È come un’isola in mezzo a un fiume, fatta e rifatta dalle correnti che le cambiano forma, dimensioni e connotati. Ma tuttavia esiste ed è riconoscibile. E paradossalmente sono proprio le spinte della globalizzazione, che tende a cancellare le differenze, a far sorgere quasi spontanea l’esigenza del canone, della mappa culturale che fissi i confini dell’isola che non c’è. Proviamo solo a pensare se dovessimo fissarlo noi un canone italiano di oggi. Non potremmo non metterci i giganti della letteratura come Dante, Petrarca, Leopardi, Grazia Deledda. O come Giotto, Raffaello, Caravaggio, Artemisia Gentileschi. Musicisti come Scarlatti, Rossini, Verdi, Puccini. Scienziati come Galilei, Alessandro Volta, Marconi, Fermi, Rita Levi Montalcini. E ora anche Federico Faggin, l’inventore del microchip, che però rischierebbe di essere penalizzato dalla giovane età, sua e dell’informatica. Se poi ci mettiamo le star della moda e quelle della cucina italiana, che ormai è una sorta di passione globale, la lista rischia di tracimare. D’altronde anche gli svedesi con la cucina non sono andati per il sottile, visto che tra i piatti identitari hanno incluso il Flyng jacob, una casseruola di pollo e pancetta con banane, arachidi, pimento e curry, ingredienti la cui svedesità è difficilmente sostenibile. È la prova che il canone è il contrario di un monolite identitario, di una costruzione sempre uguale a sé stessa, perché è il frutto di scambi, prestiti, migrazioni che ci hannofatto diventare quel che siamo, anche se ce ne siamo dimenticati.
In effetti il canone esiste e non esiste. È tutta questione di tempi, di criteri, di misure. Come dice la parola stessa che deriva dal greco kanon, e anticamente indicava una canna che serviva per prendere le misure alle cose. O alle opere, agli autori, alle istituzioni che caratterizzano l’essere e l’avere di un Paese. Come ha fatto per la letteratura il grande critico statunitense Harold Bloom, cui dobbiamo l’espressione “canone occidentale”, che ha cercato di stilare una lista di autori, capeggiata da Dante e Shakespeare, che identificano l’eredità culturale dell’Occidente al primo sguardo. Proprio quel che facevano gli stranieri come Stendhal e Goethe quando riepilogavano quel che fa uguali gli italiani, laddove gli italiani stessi vedevano solo quel che li fa diversi, rendendoli spesso stranieri a sé stessi. Di fatto, i valori che ispirano ogni canone sono variabili e mutano con i tempi, le sensibilità, l’appartenenza, l’età.
Un nome come quello di Enrico Caruso che fino a 30 anni fa era il simbolo planetario del Belpaese e del Belcanto, oggi è sconosciuto ai più. Lo stesso dicasi per film che furono di culto come Ladri di biciclette di De Sica (mentre resiste, anche perché il suo titolo è diventato un simbolo di italianità,La dolce vitadi Federico Fellini).
In ogni caso, il canone italiano di oggi difficilmente potrebbe limitarsi ai nomi illustri, ai padri nobili delle lettere, delle arti e delle scienze. Come pensare a un canone musicale senza Fabrizio De André, Lucio Dalla, Franco Battiato, Pino Daniele, Mina. O a un identikit dell’ingegno italico da cui siano esclusi i protagonisti del made in Italy, Luisa Spagnoli e Miuccia Prada. Per non dire di Ferrari e Ferrero, il creatore delle dream car di Maranello e l’inventore della Nutella. O ancora Pininfarina, lo stilista dell’auto, e Corradino D’Ascanio il creatore della Vespa. Ma anche i produttori spesso anonimi di quei cibi, come il parmigiano, la mozzarella, la pasta e la pizza in cui tutto il mondo riconosce il sapore dell’Italia. Il fatto che il canone non sia mai lo stesso e che oggi sia investito dalle onde della globalizzazione e dei flussi migratori lo rende ancor più necessario. Perché per aprirci agli altri non possiamo dimenticare chi siamo e chi siamo stati. Come diceva Ernesto De Martino, padre dell’antropologia italiana, solo chi ha un villaggio della memoria cui tornare con la mente e il cuore, può essere un cittadino del mondo. Chi non ce l’ha è semplicemente un apolide.