Corriere della Sera, 4 settembre 2025
Intervista a Fabio Quagliarella
Da bambino s’immaginava sugli scogli a pescare, il calcio gli ha cambiato la direzione della vita. «Non tutta, però. Lo scriva, non tutta. Resto quello che ero a 10 anni». Fabio Quagliarella si racconta a 42 anni: ex bomber (ha smesso a 40), oggi opinionista per Sky, uomo risolto, solido. In vacanza in Sardegna con Debora Salvalaggio – così ha passato l’estate – ascolta il rumore del mare ma anche la voce in sottofondo della sua compagna: “Dillo pure che sei un uomo triste!”».
Perché triste?
«Tristezza significa non bere, non fumare, mangiar sano? Allora lo sono, è vero! Non ho messo un etto da quando ho smesso. Non ho vizi, sono riservato e parlo poco. Sì, sono anche un po’ diffidente. Lo sono diventato. E, allora, Debora mi dice che vivo poco le emozioni. Non mi piace essere al centro dell’attenzione, ogni volta che sono costretto a pubblicare una foto sui social poi mi dico: ma perché? Alla gente cosa importa cosa faccio o dico. Ho sempre parlato con i gol, il resto è stato meno importante. Debora scherza, ma sono anni che mi sopporta e devo dire anche supporta. Grazie a lei ho recuperato un po’ di leggerezza. Lo dico così è felice».
La sposerà?
«Forse sì ma non è un tema nella nostra relazione. Stiamo bene».
Un figlio?
«Assolutamente, è la conseguenza naturale di un amore solido. Il figlio verrà, anche se non riuscirò mai ad essere quello che mio padre Vittorio è stato con me».
Cosa?
«Un punto di riferimento assoluto, non è un modo di dire. Mi manca moltissimo adesso che non c’è più, è morto quasi un anno fa. Rapporto viscerale, di confronto continuo, consigli. Lui senza essere severo ha sempre avuto le chiavi della mia persona. L’unico di cui mi sia fidato veramente».
Un ricordo da bambino con lui.
«Sullo scoglio a pescare, ogni tanto facevo qualche tuffo».
A 13 anni si è staccato, però. Ha lasciato la sua famiglia a Castellammare di Stabia per andare al Torino. Il grande sogno di diventare calciatore è stato più forte.
«Mica facile. Ogni sera chiamavo papà per dire che volevo tornare. Non ce la facevo, piangevo. E lui senza scomporsi mi assecondava: vabbé vai a dormire, pensaci. Se domani decidi considera che sono già lì a prenderti. Di domani in domani poi non sono più tornato. Ed è stato l’inizio della mia carriera. Grazie a lui».
Il primo stipendio?
«Ci penso spesso: avverto il piacere e anche il disagio di allora».
Ci dica.
«Un milione e seicentomila di vecchie lire, il primo contratto da professionista col Toro. Che senso di colpa. Mio papà faceva l’imbianchino e quei soldi tutti insieme non li vedeva in un anno intero. Ma erano i nostri, questo contava. Mi ha aiutato nella gestione dei miei guadagni, anche quelli più importanti. Oggi ragiono con due teste, la sua e la mia».
Una follia l’avrà fatta...
«Ho investito in immobili per sistemare la mia famiglia, gente semplice. Persone con lavori normali, mio fratello e mia sorella erano infermieri. Qualche viaggio, certo. Guadagnare bene mi ha dato serenità mentale, non potere di spesa. I soldi non vanno buttati via».
Eppure per otto anni qualcuno la serenità gliel’ha tolta. È stato vittima di uno stalker e fin quando non è stato arrestato lei non ha parlato con nessuno.
«Traumatizzante, doloroso. Forte. Ci sono pacchi di lettere a casa dei miei genitori a ricordarmi cosa ho passato, l’incubo che vivevo. Era un amico che frequentava casa, a ripensarci ogni volta sto male. Uno che di mestiere faceva il poliziotto postale, capisce?».
Plichi di minacce e ricatti, perché non li butta?
«Papà aveva messo le lettere una sull’altra, sono alte più di un metro. Le rileggeva ogni volta per capire chi potesse essere l’autore. Ce lo avevamo in casa, fu lui a intuirlo. Quella vicenda ci ha cambiato la vita. Ero al campo ma non c’ero, avevo paura che mentre ero via potesse accadere qualcosa alla mia famiglia. Li chiamavo spessissimo, ad ogni pausa dell’allenamento. Stavano bene, ma temevo non fosse vero. Difficile concentrarsi così. Ero a cena ma in realtà no. Nella mia vita un buco nero di otto anni. Sì prima o poi le brucerò quelle lettere».
L’accusa che non gli perdona.
«Tutte infamanti, quella di pedofilia è schifosa. L’arresto di quest’uomo che si fingeva amico e ci diceva che ci stava aiutando a capire chi fosse lo stalker è stata una liberazione. Dopo è stato pure peggio: quando per tanti anni sei ricattato, la paura ti resta dentro. Sei un pedofilo ma non solo, sei anche invischiato con camorra, droga e calcio scommesse. Le minacce di morte a mio padre: “Gli spariamo in testa” e “Adesso mettiamo una bomba nel suo palazzo”. Una volta fece trovare sotto casa una bara con sopra la mia foto. Mi stava distruggendo la carriera, rovinò il mio trasferimento al Napoli».
Mandò lettere anche al club di De Laurentiis.
«Il Napoli dopo una stagione mi comunicò che sarei andato via. Non potevo dire nulla, c’erano indagini in corso. Ma neanche loro fecero riferimento a quelle lettere. So soltanto che quando arrivai al Napoli dissi al mio procuratore che sarei rimasto a vita e invece...».
Andò alla Juventus e fu accusato dai tifosi partenopei di essere un traditore...
«Sono un professionista e sono andato. A Torino fui accolto bene, con Conte ci siamo divertiti. A Napoli dopo anni tutti hanno capito, e ricevo ancora oggi testimonianze di affetto».
Da infame a martire del pallone. È credente?
«Il 23 giugno scorso mio fratello è diventato diacono, faccia lei».
Se non avesse fatto il calciatore?
«Avrei fatto l’imbianchino, come papà».
Quando ha capito di avercela fatta nel calcio?
«In realtà, non c’è un momento. Forse quando ho debuttato in serie A col Toro, ma non mi sono mai sentito arrivato. Anche negli ultimi giorni alla Samp mi allenavo con la stessa intensità di uno di 20 anni. Il calcio è cambiato: i ragazzi di oggi fanno mezza stagione buona e subito pensano di essere da Nazionale».
Il talento non basta.
«Ma dov’è il talento? Se ci fosse, la nostra Nazionale non si troverebbe in una situazione così complicata. Manca perché non lo si coltiva, si sentono tutti top player. Se penso alle prime volte in Azzurro mi vengono i brividi. So che Gattuso restituirà attaccamento e lavoro».
Lei, napoletano, ha chiuso con la maglia della Sampdoria nel Maradona che festeggiava lo scudetto...
«Un film, un romanzo bellissimo. Se avessi immaginato la mia ultima gara non sarei arrivato a renderla così emozionante. Non lo dimenticherò mai più».
La Samp, il suo porto sicuro, che poi l’ha salutata…
«Mi dissero che non c’era più bisogno di me. Peccato, forse nello spogliatoio qualcosa potevo dire o fare per i giovani. Poi abbiamo visto come sono andate le loro cose...».
Con Ferrero, invece?
«Simpatico, effervescente. Ho avuto un bel rapporto con lui. Bravo a fare plusvalenze. Quando doveva vendere Muriel mi disse: fagli fare tanti gol, devo cederlo. Io: pres, stia sereno con me va in doppia cifra. Andò così».
E adesso?
«Mi piacerebbe tornare nel calcio, magari da direttore sportivo… Mi manca l’adrenalina delle partite».
Il rumore del mare, l’allegria di Debora, il pensiero a papà Vittorio. E una carriera da bomber in cornice (182 gol in serie A), Quagliarella lascia in dote un’estetica tutta sua: rovesciate, raffinatezze, volée impensabili e non eseguibili. Figlie del piacere del bello. In fondo è andata bene così.