La Stampa, 2 settembre 2025
Intervista ad Aldo Nove
Da quasi trent’anni l’immagine di Aldo Nove è incollata a un libro: il suo esordio. Woobinda e le altre storie senza lieto fine uscirono nell’aprile del 1996. Fu un exploit memorabile: interviste, lodi sperticate, furiose critiche. Nove – all’anagrafe Antonio Centanin – diventò il più noto dei «cannibali» della narrativa, quello che raccontava il sesso estremo e i crani che schizzavano nel sangue. Aveva 28 anni e da quando ne aveva dieci sapeva cosa voleva fare: non lo scrittore abrasivo, ma il poeta. Una scelta – scrive nel suo ultimo libro, Inabissarsi, uscito per il Saggiatore – che non «convinceva nessuno. Tutti mi sfottevano, oppure scrollavano la testa e sospiravano con compassione».
Cosa le dicevano?
«Che sarei morto di fame, che era meglio se andavo in fabbrica. O che i poeti erano tutti fuori di testa».
E lei?
«Non li ascoltavo. La poesia era il modo di sottrarmi a ciò che vedevo: gli adulti che litigavano per sciocchezze, o che guardavano i morti al telegiornale».
Era un bambino introverso?
«Quasi misantropo. Quando provavano a lasciarmi all’asilo, scappavo a casa o mi nascondevo nell’edicola dei miei a Viggiù, nel Varesotto, dove sono nato».
Amava stare lì?
«Sì. Anche se, a pensarci oggi, era più che altro un consesso di migranti arrivati con la speranza di guadagnare un po’ come operai transfrontalieri».
Fu così anche per i suoi genitori?
«Per mia madre sì. Da ragazza, scappò dall’entroterra sardo dopo essersi fidanzata – bellissima e poverissima – con uno degli uomini più ricchi del paese: una cosa allora inaccettabile. Andò a Roma, poi arrivò a Viggiù, ospite di una casa di accoglienza per giovani lavoratrici. Un gruppo di maschietti con le Lambrette cominciò a farle la corte. La spuntò mio padre. Dopo nove mesi, nacqui io».
Aveva dodici anni quando sua madre si ammalò di cancro.
«Le diedero sei mesi di vita, visse sei anni di dolori atroci; papà morì prima di lei, di crepacuore. Mio fratello, più piccolo di otto anni, andò da alcuni zii; io dagli altri, anche se in realtà restai a vivere da solo. Uscivo di casa, mi nascondevo nudo nei boschi, leggevo La pioggia nel pineto di D’Annunzio, copiata a mano su un foglietto. Poi la lasciavo lì, bagnata di acqua e sangue».
Ha scritto che la poesia non salva la vita, ma che la mette in gioco completamente.
«La poesia vera – qualunque cosa questo voglia dire – è uno scavo profondo all’interno di sé. E lì ci sono tanti fantasmi: ciò può rigenerarti o farti restare imprigionato come il minotauro nel labirinto».
E nel suo caso?
«Mah, che devo dirle: sono qua».
Nella Vita oscena, il suo libro più autobiografico, raccontò che dopo aver perso i suoi genitori iniziò a bere e ad assumere stupefacenti.
«A un certo punto, ero talmente sfatto che feci saltare la casa in aria, saturandola di gas».
Si salvò.
«Insieme a una copia del “Mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer. Entrambi, a dire il vero, piuttosto bruciacchiati. Quell’appartamento andò a fuoco due volte: prima nella vita, poi nel film di Renato De Maria tratto proprio da “La vita oscena”. Vedere trasformato quel rogo in arte è stato catartico».
Poco dopo si trasferì a Milano: studiava o lavorava?
«Studiavo Filosofia. Aiutato dal poeta Franco Buffoni, che mi aveva trovato un alloggio in una casa per giovani indigenti».
Come si manteneva?
«Facevo il badante. Allora, come oggi, a fare quei lavori erano perlopiù le donne; in certi casi, però, con anziani un po’ troppo vispi, era meglio che se ne occupasse un uomo. Intanto scrivevo».
Poesie o prose?
«Storie di normale demenza che vedevo attorno a me, scritte con un linguaggio più prossimo al parlato. Un giorno andai a sentire Nanni Balestrini e gli consegnai un improbabile malloppo di fogli».
E lui?
«Lì per lì niente. L’anno dopo mi chiamò: gli erano piaciuti. Mi invitò a cena, ingiungendomi: “Non andare a capo, vendi di più”. E così, complice una bottiglia di vino, nacque Woobinda».
Fu un successo.
«Mi ritrovai sulle prime pagine dei giornali, in tv. Ricordo ancora le ospitate al Costanzo Show, scortato dai cordoni della polizia. Io però sul palco, a differenza degli altri ospiti, non litigavo. Durante la seconda puntata mi sentii toccare sulla spalla. Era Costanzo che diceva: “Nove, ahó, ripigliate!"».
Intanto continuò a occuparsi di poesia: lavorando, tra gli altri, con l’editore Nicola Crocetti.
«Un titano. La poesia è un processo trasformativo mercuriale, si muove in continuazione, e Nicola ne è il più grande maestro. La sua redazione fu un laboratorio alchemico: più di 4mila poeti pubblicati e l’ideazione di una rivista che per decenni è stata la più diffusa, l’unica a essere venduta nelle edicole invece che nelle librerie».
Nel suo ultimo libro, Inabissarsi, cita molti altri maestri: oltre a Balestrini, Milo De Angelis e Alda Merini.
«Alda la conobbi in occasione di un premio in Liguria: aveva vinto il principale, io la menzione per l’esordio. Fu un viaggio psichedelico: appena scoprì che i due che ci accompagnavano erano di Comunione e Liberazione, cominciò a provocarli, inventando storie blasfeme. Pensava di indignarli, invece li conquistò».
In quegli anni frequentò diversi artisti: Emilio Isgrò, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino.
«Fu grazie a Mimmo che – tempo dopo – ottenni il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli. “Provaci, hai tutti i requisiti”, mi disse. All’inizio risposi di no. Ma avevo un cancro, il diabete, due stent al cuore e un rene in meno. Analizzarono tutta la mia storia clinica, giudiziaria, finanziaria. Fino a quando mi chiamò Renato Brunetta, non proprio il mio ideale politico, per dirmi che me l’avevano assegnato. Fu di una gentilezza e di un’umanità insospettabili».
Da tempo vive lontano da Milano. Com’è cambiata?
«Quando arrivai, agli inizi degli anni Novanta, c’era ancora qualcosa della città da bere: ridanciana, divertita, ma non per questo ignorante. Oggi è una caricatura di Los Angeles».
Ha scelto di stare in Calabria.
«Una terra ancora arretrata, ed è una fortuna, visto cosa rappresenta oggi il progresso. René Guénon, nel Regno della quantità, scrive che siamo nell’ultima fase del “Kali Yuga”, l’era della massima decadenza. Più rimbecilliti e disumani di così è impossibile. Mi deprime perfino parlarne».
Resta la poesia.
«Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti della finanza globale».
Scomparirà mai?
«No: se muore la poesia, vuol dire che è morto l’uomo. La scommessa è capire cosa sia oggi».
E cosa è?
«Trasformazione, ferita e verità». —