La Stampa, 2 settembre 2025
Paradosso nidi
«Abbiamo riaperto una ex scuola materna chiusa da metà anni Ottanta per dotarci di un asilo nido: lo abbiamo inaugurato sabato 30 agosto, in vista della riapertura dell’anno scolastico e abbiamo già tredici iscritti». C’è entusiasmo nella voce di Sebastiano Baroni, sindaco di Crotta d’Adda, 615 anime a una manciata di chilometri da Cremona. «Abbiamo fatto calcoli su calcoli e il peso economico c’è ma abbiamo deciso di offrire un servizio alle mamme, qui sono tutte lavoratrici» racconta il primo cittadino a La Stampa. «Ci auguriamo che questo attragga altri giovani a vivere qui». Un’Italia a macchia di leopardo, dove si fatica ancora a trovare un posto in un asilo nido, altri investono nei servizi all’infanzia ma alcuni sono costretti a rivedere i piani per mancanza di bebè.
Negli ultimi tre anni, l’offerta per la prima infanzia – fra nidi 0-2 anni, sezioni primavera, spazi giochi, centri per bambini e servizi in contesto domiciliare – è leggermente aumentata: le strutture disponibili lungo la penisola sono salite a più di 14mila e i posti totali superano i 366 mila. L’Istat certifica che, per paradosso, il calo demografico aiuta a colmare il divario: meno bebè si traducono in maggiore copertura. Dunque, è ormai vicino il traguardo di garantire almeno 33 posti ogni 100 bambini già tagliato da diversi paesi Ue (con l’oasi felice degli olandesi che superano il 70%), ma resta distante il nuovo obiettivo europeo (45% di posti entro il 2030).
L’Italia, però, appare ancora divisa in due: la copertura al Sud è ben al di sotto della media nazionale con la Campania che offre appena il 13,2% di copertura.
Nonostante tutto, gli asili non riescono a soddisfare la domanda che continua a crescere. Quasi sei strutture su dieci hanno bambini in lista d’attesa. Qui, è il settore pubblico ad arrancare di più: in media, circa sette nidi su dieci non riescono ad accogliere tutti i bebè che fanno richiesta, percentuale che sale al 73,3% nel Nord. Il privato, invece, registra criticità in circa metà delle sue strutture (anche convenzionate). Ci sono, poi, alcune città più sotto pressione di altre. «Nel Paese c’è ormai una forte dicotomia perché alcune zone si stanno spopolando mentre le persone cercano di trasferirsi dove c’è più disponibilità di servizi», spiega Gianpiero Dalla Zuanna, docente di Demografia presso il dipartimento di Scienze statistiche dell’università di Padova. «Parlo soprattutto dei centri delle cinture urbane attorno alle grandi città, cresciute in fretta negli ultimi venti anni».
Il nodo dei costi
L’aumento dei posti nei nidi ha coinciso con graduale spostamento verso il settore privato. Il motivo è semplice: i costi onerosi. In particolare, nei primi dodici mesi di vita del neonato quando c’è bisogno di più cura e assistenza. In media, nei nidi e sezioni comunali a gestione diretta, i Comuni spendono 9.643 euro l’anno a bebè. Ma questa cifra sale a più di 10mila euro nelle città fra 60 e 100mila abitanti, con punte che superano i 13mila nel Nord-Ovest. In media, le famiglie non coprono più del 19% (in questo caso, la meno “generosa” è la Lombardia dove le coppie si accollano il 25% della spesa). Il resto è a carico dei bilanci comunali.
Viceversa, la spesa media scende a 5.385 euro a bambino per i servizi comunali affidati in gestione a privati. E si riduce ancora nel caso di nidi privati in convenzione con riserva di posti comunali (3.831 euro a bimbo) o di voucher riconosciuti direttamente alle famiglie come contributo per la frequenza di nidi privati o presso altri Comuni limitrofi (2.200 euro).
«Per i Comuni si tratta di un impegno a lungo termine enorme, tanto più con tagli alle entrate o previsioni demografiche incerte», sottolinea ancora il professor Dalla Zuanna. «L’ente copre due terzi e le famiglie un terzo. Ma per alcuni nuclei a basso reddito la spesa può essere minima mentre per altre sale. Va chiarito che l’ingresso negli asili pubblici non avviene quasi mai per Isee ma per altri criteri come genitori lavoratori e altro. Alla fine, se la retta si alza troppo, una coppia sceglie il nido privato, magari più comodo e vicino a casa».
Il Pnrr, con la sua “dote” di 3,24 miliardi di euro, avrebbe dovuto consentire il salto di qualità con 264.480 nuovi posti in asili nido e scuole per l’infanzia entro dicembre 2025. Ma, dopo la revisione del piano da parte dell’attuale governo, sono scesi a 150.480 e la scadenza è stata spostata a giugno 2026. L’Ufficio parlamentare di bilancio, a gennaio di quest’anno, ha calcolato che risultavano effettivamente spesi solo la metà dei fondi previsti per il 2024 (ovvero 816,7 milioni su 1,7 miliardi). Secondo l’analisi dell’UpB, permangono incertezze sul conseguimento dell’obiettivo: in nessuno dei quattro scenari elaborati sarebbe pienamente raggiunto. Il ritardo rischia di avere ricadute anche sull’occupazione: si stima infatti che potranno servire fino a quasi 25mila unità di personale a tempo pieno in più.
Quest’anno, per la prima volta, nella Laguna sono state azzerate le liste d’attesa e l’offerta supera la domanda delle famiglie: resteranno vuoti 47 posti rispetto alle 1.152 domande all’asilo nido e altri 144 disponibili alla materna. Il motivo? Negli ultimi quattro anni, la regione ha contato 20mila bimbi in meno nella fascia 0-5 anni e, per l’anno scolastico che si apre ci sarà un ulteriore calo di circa 2.500 iscritti. Al punto che la Federazione italiana scuole materne del Veneto ha lanciato l’allarme: nell’ultimo anno, il calo demografico ha costretto a chiudere quattordici scuole paritarie per l’infanzia.