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 2025  settembre 02 Martedì calendario

«García Márquez era un suo fan. Attaccò i cantautori di sinistra. e considerava Ruggeri il suo erede. Scrisse i capolavori per Mia Martini»

Era nato ad Asmara in Eritrea (allora colonia italiana) l’8 agosto 1937, «stesso giorno, mese, anno di Dustin Hoffman; siamo alti quasi uguali, ma ogni nazione ha quello che si merita». Parola di Bruno Lauzi, cantautore, poeta, «idiota sapiente» come si definiva, tra i padri di quella scuola genovese che non riconosceva, poiché «le scuole prevedono maestri e allievi, mentre lì non ce n’erano». Amato dal pubblico, meno intensamente dal mercato, ha vissuto con (auto)ironia anche la malattia e scritto brani indimenticabili – uno per tutti, Ritornerai – con una vena di malinconia. A chi gli chiedeva il perché di tante canzoni tristi, rispondeva «perché quando sono allegro, esco». Agli slogan preferiva le battute questo gigante in miniatura dall’inconfondibile nube di ricci candidi, che il figlio Maurizio, anche lui cantante e musicista, ricorda con rimpianto e allegria.
Quanto era alto?
«Un metro e 56 centimetri».
Se ne fece un complesso?
«No. Per lui l’unità di misura della statura era il cervello».
Comunque non si aiutava. Andava in televisione con cardigan improbabili, che lo allargavano e dimezzavano...
«Glieli regalavano. Se ne fregava».
Vero che non guidava?
«Mai avuto la patente. Quando le ragazze gli chiedevano “come mi vieni a prendere?”, rispondeva “col 41” e indicava le scarpe».

Un tipo controcorrente, autentico anticonformista come ha detto Ivano Fossati.
«Un uomo schietto, da fetta di salame, un bicchiere di vino, un paio di amici, il fuoco del camino o una terrazza sul mare».
Suo migliore amico era Luigi Tenco, che reazione ebbe al suicidio?
«Credo si aspettasse che qualcosa potesse succedere. Tenco era un depresso, andava in giro con la pistola e diceva “prima o poi la uso...”».
In che modo sono nati i grandi successi?
«Passeggiando. Immaginava il brano, canticchiava il motivo, tornava a casa, prendeva la chitarra e lo scriveva. Accadeva soprattutto in campagna, a Rocchetta Tanaro nell’astigiano, nei tre chilometri e mezzo di strada tra la nostra cascina e il paese, dove andava tutte le mattine a comperare il pane e il giornale».
Rito d’inizio giornata?
«Tè con una goccia di miele di castagno, radio sintonizzata su un programma di brio, Enrico Vaime o Renzo Arbore, e un solitario, in genere il Napoleone».
I suoi gusti musicali?
«Impazziva per il jazz, i musical anni ’40, il Brasile, gli chansonnier francesi, di cui ha tradotto best seller come Quanto t’amo di Johnny Hallyday e Lo straniero di Georges Moustaki. Dei suoi coetanei stimava Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Pierangelo Bertoli e considerava Enrico Ruggeri suo erede naturale. Francesco De Gregori lo ha capito tardi, dopo La donna cannone, all’epoca di Rimmel non gli piaceva».
Ha scritto per tutte le più grandi voci femminili italiane, da Mina alla Vanoni. Chi gli ha dato le soddisfazioni maggiori?
«Senza dubbio Mia Martini, che fece trionfare due capolavori come Piccolo uomo e Almeno tu nell’universo».
Lui, a sua volta, ha fatto conoscere canzoni di altri.
«Onda su onda e Genova per noi portano la firma di Paolo Conte, mentre a Mogol e Battisti si devono pezzi come E penso a te, Amore caro amore bello, Un uomo che ti ama, che papà ha interpretato con la sua voce romantica e vibrata, alla Aznavour».
Una voce particolarissima...
«Aveva un timbro che nessuno è mai riuscito a imitare, né Alighiero Noschese né Gigi Sabani. La sola imitazione resta quella di Massimo Boldi, che fece Bruno Lauzi semplicemente camminando in ginocchio con una parrucca bianca e ricciuta sulla testa».
Lauzi, intellettuale dissidente, rimase sempre al di fuori del giro dei cantautori «impegnati». Perché?
«Era libero e liberale, privo di tessere di partito, ostile ai compromessi e allergico al conformismo degli anticonformisti; un anarchico alla Camus. In Io canterò politico si definì “l’unico ad andare contromano” e si schierò contro i cantautori di sinistra, “finti colleghi che fan rivoluzioni/ seduti sopra pacchi di autentici milioni”. Ne salvò solo uno, “il candido e poetico Guccini”».
Il no a Fellini
«Rinunciò a una parte in 8½ per andare in tournée con Mina in Argentina: se ne pentì»
Si sentì mai un incompreso?
«Talvolta sì. Aveva un grande successo popolare, riempiva le piazze, la gente lo riconosceva per strada, vantava estimatori come Gabriel García Márquez, ma per misteriosi meccanismi del mercato non vendeva dischi».
Artista eclettico, spaziò dall’amore all’impegno, dallo humour in dialetto (O frigideiro) ai pezzi per bambini (Johnny Bassotto e La tartaruga). Quale la canzone più amata?
«Il poeta, incisa anche da Gino Paoli che nell’autobiografia, Tanto domani mi sveglio, papà accusa di averne straziato la sottigliezza psicologica».
Cosa combinò di tanto grave?
«Sostituì i modi verbali, un indicativo al posto di un congiuntivo!».
A Sanremo?
«Ci andò una volta sola, nel 1965. Era l’epoca del beat e si presentò con un valzer musette, lo misero alla porta dopo cinque minuti».
Che padre è stato?
«Un padre giusto e presente, anche se aveva bisogno del suo mondo».
Un difetto?
«L’egocentrismo; parlava sempre lui e a tavola teneva banco».
Fu anche produttore di vino.
«Per quasi trent’anni in Piemonte fece La Celesta, una Barbera con etichetta di Armando Testa, apprezzata pure da Luigi Veronelli. Un progetto condiviso con mia madre Giovanna; si conobbero quando lei era valletta del varietà Settevoci condotto da Pippo Baudo, si sposarono nel 1968 e rimasero insieme tutta la vita».
I piaceri del tempo libero?
«Andare nei boschi in cerca di funghi e leggere, soprattutto gialli e polizieschi: Rex Stout, Simenon, Pennac, Wodehouse; comprava Le inchieste del commissario Sanantonio, che uscivano ogni settimana per Mondadori con copertine dal tratto un po’ osé».
Luoghi del cuore?
«Rocchetta Tanaro nel Monferrato e Sestri Levante in quella sua Liguria “così faticosa”, dove aveva L’ufficio in riva al mare, titolo di una gran bella canzone, da cui vedeva il golfo del Tigullio “con la pelle di luce”».
Negli ultimi anni fu affetto dal morbo di Parkinson. Come visse la malattia?
«Con dolore e ironia. Sdrammatizzava. Alludendo al tremore, diceva: “In foto vengo mosso” oppure “Non suono più la chitarra, ma sono diventato bravissimo con le maracas”. Si impegnò come testimonial per sensibilizzare sulla patologia. Andò al Maurizio Costanzo Show per presentare le camicie con lo stretch sotto i bottoni, vendute da Ovs dove campeggiava il suo ritratto in cartone. Fatale, però, non fu il Parkinson, bensì un cancro al fegato».
Paura della morte?
«Alla fine sì; paura e rabbia nel chiederci di lasciarlo andare».
Aveva rimpianti?
«Due. La rinuncia a una parte in 8½ di Federico Fellini per la tournée con Mina in Argentina e, a Parigi, avere scelto il recital di Yves Montand invece che quello di Maurice Chevalier, che morì poco dopo».
Maurizio, lei ha già donato memorabilia di suo padre al museo dei cantautori in via di costituzione a Genova...
«Ho dato la chitarra, cravatte, lettere e il suo bastone nero con l’impugnatura in ottone a testa di cane; svitata nasconde un portasigari, dove lui teneva il peperoncino calabrese in polvere che metteva dappertutto, così non aveva bisogno di chiederlo. Ho già in mente la didascalia: Il segreto di Bruno».