Corriere della Sera, 2 settembre 2025
«Organizzo digiuni collettivi, non ho la tv e giro a piedi nudi. La fama? Mi fermano ancora. Hopkins fu straordinario»
«Questa sera io non ho fame». Sono passati quasi 30 anni da quando Raz Degan pronunciava questa frase sotto la doccia, facendo cadere nel vuoto i messaggi in segreteria delle sue ammiratrici. L’ex modello e attore continua, ciclicamente, a non avere fame, ma per scelta, non per uno spot pubblicitario. I suoi digiuni hanno toccato il record (da non emulare) di 18 giorni, quando chiuse il documentario The Last Shaman prodotto da Leonardo DiCaprio: «Arrivavo da 5 anni di lavoro totalizzante, è stato il mio modo per purificarmi e ritrovare le energie». Adesso, però, non gli basta digiunare da solo. Ad agosto su Instagram ha lanciato la sfida: 48 ore di digiuno con Raz. «Si sono iscritti quasi in tremila, oltre 200 hanno partecipato agli incontri live quotidiani».
Non ha temuto che qualcuno potesse improvvisare e sentirsi male?
«Per scongiurare questo rischio ci hanno supportato diversi specialisti: il medico Salvatore Simeone, autore del Digiuno felice, lo psicologo Elton Kazanxhi, il cardiologo Paolo Diego L’Angiocola, e il ricercatore indipendente Fabio Marchesi. I live erano uno spazio per fare domande a me e al mio team e condividere le esperienze. Il digiuno è diventato così una esperienza online di crescita e benessere».
Lei però è abituato a digiunare. Chi non lo ha mai fatto avrebbe potuto sentirsi debole in momenti cruciali, al lavoro o mentre guidava.
«Intanto le 48 ore erano precedute da un giorno di preparazione, così come, dopo, avevo previsto il “rientro consapevole”. Si poteva, anzi, si doveva bere moltissima acqua, tisane o brodi. Avevamo comunque dissuaso chi prendeva farmaci particolari, senza l’ok del suo medico, e avvertito che per fare questa esperienza bisognava essere nelle condizioni più favorevoli, magari ancora in vacanza».
Ha avuto buoni riscontri?
«Sì, e a settembre ne organizzerò un altro: la forza del gruppo è potentissima. L’idea mi è venuta dopo aver postato un video a giugno, dopo un digiuno di 10 giorni».
Quello in cui parlava come Dan Peterson?
«Sì, era un modo scherzoso per raccontare un’esperienza profonda e trasformativa. Il giorno dopo mi sono ritrovato in tv, messo a confronto con quattro medici contrari. Eppure all’estero il digiuno è sempre più sostenuto. Esiste oggi un’ampia letteratura scientifica sui suoi benefici, e sempre più nutrizionisti lo considerano uno strumento di prevenzione e riequilibrio. In tantissimi mi hanno scritto: si erano incuriositi e volevano provarlo».
Qualcuno potrebbe definirla un invasato.
«Forse da fuori può sembrare così, ma il digiuno consapevole è un’opportunità per creare silenzio dentro la tempesta continua di immagini e informazioni che ci travolge. È come riavviare il proprio sistema operativo: un reset che ci permette di uscire dal pilota automatico e tornare a guidare in manuale. Non è una gara di resistenza, ma un esercizio per togliere il superfluo e ritrovare respiro e lucidità. Così persino una mela, mangiata senza distrazioni, diventa un’esperienza di presenza e di libertà».
Il 25 agosto: ha compiuto 57 anni. Le manca l’epoca dell’assalto dei fan?
«Sono ancora abbastanza riconosciuto quando entro in un supermercato... Semmai ho nostalgia di quando vivevamo senza telefonini o Internet, c’era tempo per esplorare, per viaggiare verso l’ignoto, per sognare».
Ha sempre fatto scelte da antidivo, compreso comprare un trullo nella Valle d’Itria nel 2001 per poi trasferirsi lì.
«Qui mi sento molto libero, cammino scalzo: è il mio modo per restare con i piedi per terra. Non ho mai smesso di essere me stesso: a gennaio mi è capitato di volare in India per il Kumbh Mela, riprendendo le morti della calca, e poi dopo poche ore salire su un aereo per andare su un red carpet».
Condivide viaggi e vita con Cindy Stuart, la sua compagna. Desidera sposarla?
«Sono solo fatti miei... Anzi, nostri».
Che rapporto ha con Marlon, il figlio di lei?
«È stata la madre a dargli le chiavi per viaggiare nel mondo. Io ho cercato e cerco di dargli un esempio. Mi sento più una guida, per lui, gli metto a disposizione la mia esperienza. Ha 21 anni, ormai è diventato un uomo».
Se ripensa agli attori con i quali ha lavorato, chi l’ha emozionata di più?
«Anthony Hopkins e Jessica Lange, in Titus: straordinari. Lui arrivava dalla scuola inglese: scherzava con tutti, all’epoca fumava, e poi si trasformava nel secondo in cui doveva andare in scena. Lei, invece, era tutta Metodo Stanislavskij: doveva vivere la parte, soffrire, come se una figlia le fosse morta sul serio».
Dei registi?
«Sempre per antitesi, due esempi di talento mostruoso: Oliver Stone ed Ermanno Olmi. Uno costruiva le scene come un generale, Ermanno creava la magia rubando le immagini».
Si riguarda?
«No, non ho nemmeno la tv a casa».
A gennaio l’abbiamo vista nella serie «Un passo dal cielo». Le manca un ruolo da protagonista?
«Tornare davanti alla macchina da presa è stato bellissimo: ho riscoperto l’amore per un mestiere che porto dentro da sempre. Se arriverà il progetto giusto, sono pronto a una nuova avventura. Intanto mi vedrete in un cameo nella serie Ligas su Sky».
E l’autobiografia?
«Bisogna che mi sbrighi a finirla, altrimenti non posso partire per il prossimo viaggio, lungo la Ruta 40, dalla Bolivia alla Terra del Fuoco».
Non posso non chiederle della guerra a Gaza: non pensa che adesso ci sia una sproporzione immensa tra l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Netanyahu?
«Questa guerra deve finire. Non esiste alcuna vittoria quando perdi un figlio, o quando non sai se potrai mai riabbracciarlo. Il dolore delle madri non ha bandiere: che sia sotto le macerie o dentro un bunker. È tutto disumano».