Tuttolibri, 30 agosto 2025
"Il mio corpo a corpo con la lingua turca. Amo i suoi arabismi e le contaminazioni"
Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 2006.
Sarà la suggestione dell’incontro, saranno i prodigi delle sempre più sofisticate telecomunicazioni, fatto sta che, malgrado la distanza fra due sponde opposte dell’Oceano, al telefono la voce di Orhan Pamuk suona cristallina (Istanbul, l’ultimo suo romanzo, è uscito da Einaudi). Dilavata dalla sua gentilezza e dal perfetto inglese imbastito di melodia orientale: viene, quasi, la tentazione di ascoltarla come fosse davvero una musica, abbandonando taccuino e matita al loro diligente destino. E invece no, questa è un’intervista allo scrittore che ha vinto l’ultimo premio Nobel.
A proposito, per quanto banale, la domanda s’impone. Come si sente, ora che è un “premio Nobel”?
«È bello! Mi sento così bene. Un po’ come un bambino appena nato, cui tutti fanno grandi sorrisi; vorrei averlo avuto tanto tempo fa, anzi da sempre. In fondo tutti dovrebbero avere un Nobel, per sentirsi così contenti. È davvero piacevole (delightful, spiega)».
Questo entusiasmo diretto, condito persino di candore, ispira un’altra domanda non meno banale. Qualche tempo fa, chiamato in causa fra i possibili candidati al premio, lei dichiarò di essere improbabilmente giovane per il Nobel. Adesso che ne pensa?
«Francamente, non ricordo di aver pronunciato una frase del genere. In fondo Mann, Hemingway, Faulkner l’hanno avuto più o meno alla mia stessa età. E comunque, dicevo, sono in ottima compagnia. È normale, arrivarci in questa stagione della vita. Non mi sento uno scrittore fuori tempo, anzi».
Certo che no. Ma non è poi così normale essere uno scrittore della sua levatura… Ad ogni modo, lei è spesso etichettato come uno scrittore dell’identità. Del confronto, storico e culturale, fra Est e Ovest.
«Guardi, l’identità è un concetto molto alla moda (fashionable), in questi tempi. È un tema che piace ma a me sfugge, se non altro in termini generici. La mia scrittura si concentra sulla natura dell’identità individuale, strettamente personale. Il resto m’interessa decisamente meno, e nemmeno entra nei miei libri. Quando scrivo, cerco di analizzare il mondo con uno sguardo che sia il più ravvicinato possibile, di afferrare la realtà particolare. Non uso concetti, non mi attengo a dettati accademici. L’identità come termine generale, pur essendo una ricorrenza molto trendy, non mi serve per capire, per cogliere il frammento di realtà – unico e irripetibile – cui attingo per la mia scrittura. In altre parole, difendo strenuamente l’autonomia dell’individualità, delle inesauribili combinazioni di cui è capace la realtà. Non sono capace di scrivere sui concetti generali: non è questo il modo in cui guardo a me stesso, alla strada, alla vita».
Accantonata come non influente la questione dell’identità, allora quali sono le sue radici – umane, affettive? Dove esattamente trova sostentamento la sua scrittura?
«Appartengo alla classe media turca, vengo da un ambiente secolare, nutrito di laicismo. O meglio, vengo da una certa élite sociale forte della propria autonomia intellettuale. La mia famiglia è in parte urbana, originaria di Istanbul, in parte arrivata in città dalla provincia, e precisamente dall’Anatolia: tale combinazione geografica e sociale è piuttosto tipica nella Turchia moderna. Così come ne è caratteristica la convivenza nel mio ambiente familiare di stimoli europei e asiatici, orientali. Ma non voglio porre la questione in termini generali, semplicemente attenermi allo specifico ambiente in cui sono nato e cresciuto».
Entriamo allora più nel vivo della sua scrittura. Che cosa significa, ad esempio, scrivere in una lingua come il turco, che non è al centro del mondo, che non è cioè una protagonista della globalizzazione? Una lingua “individualista” che è in fondo lo specchio di quanto diceva poco fa intorno al concetto per lei troppo generico di identità?
«Ah, il mio rapporto con la lingua è una storia profonda. Una storia d’amore. E tormentata, anche. Painful. Per me e anche per i miei traduttori, lo ammetto, torturati dalle mie frasi lunghe, dalle mie complesse costruzioni sintattiche. Il turco letterario ha subito cambiamenti profondi, fra la fine del XIX e il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Il realismo narrativo ha imposto modelli espressivi che chiamerei di “telegrafia” – sto pensando anche, ad esempio, all’inglese di Hemingway; e forse in italiano Elio Vittorini è il maggior responsabile di questo processo di “contrazione”, di semplificazione del linguaggio. L’obiettivo era quello di raggiungere un’espressività che fosse il più “piana” e immediata possibile, per lasciarsi alle spalle ogni ricercatezza letteraria. La mia scrittura reagisce invece a tutto questo. Rivendica la complessità della lingua, e con ciò penso a Proust, Borges, James. Lo so, è una scelta borghese. All’inizio ero criticato dalla sinistra intellettuale per questo mio presunto “decadentismo” linguistico che rende fluviale, inestricabile la pagina. È per questo che dico che “combatto” con la mia lingua: è una lotta onesta, aperta. Mi prendo anche molti rischi e ottengo non meno tensione, optando per questo rapporto conflittuale con la mia materia prima. Tornando ad essa e alla sua storia, mi dichiaro anche contro con quel processo di distillazione del turco che è stato avviato dai suoi puristi qualche tempo fa, nel tentativo di rimuovere gli arabismi e altri influssi stranieri. Mi piace vedere contaminata dall’esperienza la mia lingua, riconoscervi in essa lo specchio della fatica, della lotta corpo a corpo con la realtà. Fatto sta che, dopo tutte queste parole, quando si scrive si è soli con la lingua. Essa è tutto ciò di cui si dispone: per questo il rapporto è così profondo, complesso, tormentato».
Veniamo allora a un tempo diverso. Quello non della scrittura, bensì della lettura. Quali sono i libri che considera compagni di vita, quali quelli che tiene in questo periodo sul suo comodino?
«La domanda è facile! Non ho alcuna difficoltà a stilare un elenco di libri e autori che sono compagni di vita. Tolstoj. Proust. Thomas Mann. Faulkner. Nabokov. Borges. Calvino. So molto a memoria (by heart, dice: la locuzione inglese ha un’intensità niente affatto metaforica, a giudicare dal tono della voce), delle loro opere: questo è un modo per averli sempre al mio fianco. Anna Karenina per me è il romanzo più grande. Quando sono in vacanza li porto, e questa volta materialmente, con me: scelgo sempre alcuni di questi classici, da rileggere nei momenti in cui non lavoro. Sono una divagazione, ma soprattutto un continuo ritorno. E poi, quando non so che cosa scrivere, apro uno di essi e immancabilmente ritrovo quello che cerco. Con loro e grazie a loro riprendo la penna e il capo del filo in mano».