Robinson, 31 agosto 2025
Intervista a Giorgio Ciucci
Tutto quello che Giorgio Ciucci racconta di sé, nelle due ore che trascorriamo insieme, sembra uscire da una novella di Robert Walser. Vi ritrovo la stessa svagata atmosfera di una persona che alla competizione con la vita ha preferito di starsene per conto proprio. Siede composto sul divano. Il volto ancora piacevole ma stanco. Scopro che recentemente è morta sua moglie. Non sembra voglia parlarne o forse sì. Forse basta trovare il modo. Ma c’è un modo per rievocare una persona che lo ha accompagnato per quasi 40 anni? Ciucci è architetto e storico dell’architettura. Due suoi allievi, Gabriele Mastrigli e Manuel Orazi gli hanno dedicato un piccolo libro intervista (Leggere l’architettura, scrivere la storia, edito da LetteraVentidue). Tempo fa, per edizioni Quodlibet, è uscita una raccolta di suoi scritti che ripercorre l’architettura italiana del Novecento. Una storia che arriva fino a Vittorio Gregotti, ma che ha al suo centro soprattutto l’architettura fascista e suoi protagonisti.
Mi sembra che tu sia tra i pochi che abbiano affrontato il fascismo sotto il profilo delle realizzazioni architettoniche. Perché questo interesse?
«Avevo la sensazione che ci fosse un vuoto su quei vent’anni di regime e che tutto si impastasse in ungiudizio generico, ma soprattutto ideologico. Credo di essere stato il primo antifascista che si è prodotto in un’analisi sull’architettura fascista senza pregiudizi».
Come ha reagito il tuo ambiente?
«Si è passati dalla moderata curiosità all’indifferenza. Ci fu chi pensò bene di togliermi il saluto».
Chi?
«Bruno Zevi che con tono perentorio mi disse “smettila di occuparti di questa merda”. Credo che ce l’avesse soprattutto con Marcello Piacentini. Ma lo capisco. La sua storia di antifascista in esilio, di ebreo che si rifugia in America, giustificava ampiamente la sua reazione. Ma dopotutto a me sembrava opportuno separare il fascismo da certe sue realizzazioni, il cui esito dipendeva molto meno dalla committenza politica e assai di più dalla sensibilità europea dei suoi realizzatori. Come fai a condannare certe opere di Terragni senza neppure tentare di affrontare l’originalità del suo lavoro?».
Su Giuseppe Terragni si sono espressi in molti sia in vita che dopo la sua morte.
«Terragni chi? Verrebbe da chiedersi. C’è chi ha parlato di lirismo architettonico, di realismo magico alla Bontempelli, di razionalismo supremo».
Forse era tutte queste espressioni, come in fondo accade per i grandi.
«Dopo la sua morte c’è stata la rincorsa a definirsi eredi spirituali di Terragni. Lo stesso Peter Eisenman, il quale ha scritto un libro importante contribuendo così alla sua fortuna in America, si considerava una specie di “figlio” del grande architetto comasco».
Nel libro di Eisenman tutto ruota attorno al confronto di due capolavori di Terragni: la Casa del Fascio di Como e la Casa Giuliani Frigerio.
«Eisenman liberò Terragni dalla spessa coltre ideologica del fascismo – e non so se fu un bene – parlando della Casa del Fascio come fosse un testo da interpretare linguisticamente e la cui ambiguità non era dovuta alla politica ma alla struttura stessa dell’opera».
Hai conosciuto Eisenman?
«Ci conoscemmo a Venezia, in uno di quei seminari che si tenevano allo Iuav. Doveva essere il 1978 o l’anno prima. A quel tempo insegnavo negli Stati Uniti. Capivo un certo suo modo di pensare. Il suo scoprire Foucault e poi la linguistica di Chomsky e infine il decostruzionismo di Derrida. Mi chiedo solo se un architetto debba essere così fortemente dipendente da quelle che poi si sarebbero rivelate delle mode».
Accennavi al tuo insegnamento in America.
«Dopo la laurea nel 1967 a Roma, con Ludovico Quaroni, divenni l’anno dopo assistente volontario a Venezia. Il rettore era Giuseppe Samonà, un genio delle relazioni e della capacità di attrarre le menti più promettenti. Ero amico di Tafuri. Anche lui si era laureato con Quaroni e fu chiamato a Venezia. Mi chiese di aiutarlo e così anch’io mi trasferii. L’America sarebbe giunta anni dopo nel 1976. Vi finii in modo curioso».
Ossia?
«Avevano chiamato Tafuri, ma lui non volle andare.
C’erano Dal Co che fremeva, Manieri e il sottoscritto.
Manieri non si sarebbe spostato neppure con le cannonate. De Carlo ambiva ma Tafuri indicò me. In fondo ero uno dei pochi che aveva confidenza con la lingua inglese. Ho insegnato al Mit e ad Harvard. Feci il primo corso su Wright. Forse volevo dimostrare che noi europei sapevamo molto di architettura americana. Il seminario invece fu su Roma barocca tra il Cinque e il Seicento. Ho lavorato negli Usa per una decina di anni. Poi sono tornato a Roma».
Che è poi la città dove sei nato.
«Provengo da una famiglia borghese. Mia madre in prime nozze sposò Alberto Sartoris, un architetto importante. Aveva collaborato con Terragni e lavorato molto in Svizzera. Si sposarono a Ginevra. Poi sempre a Ginevra lei conobbe mio padre che era corrispondente per il Corriere della Sera e lasciò Sartoris».
Di cosa si occupava tua madre?
«Non aveva un ruolo professionale. Proveniva da una ricca famiglia di Domodossola. Il padre era un industriale. Aveva una fabbrica di vetri a Ginevra che serviva i grandi studi di architettura, tra cui quello di Le Corbusier. Era una donna raffinata. Aveva imposto in famiglia che si parlasse in francese».
In famiglia chi eravate?
«A parte mio padre, spesso fuori per lavoro, c’erano un fratello e una sorella, più grandi. Mia sorella era nata nel 1933, mio fratello nel 1937, entrambi a Ginevra. Mentre io sono nato a Roma nel 1939».
Come finiste a Roma?
«Ragioni di lavoro di mio padre, alle quali si lega una vicenda piuttosto brutta. Nel 1938 Il Corriere lo inviò a Tunisi per una serie di reportage. Malauguratamente fu sorpreso a fare delle foto e venne arrestato come spia.
Prima che lo scagionassero passò quasi due anni in carcere. Ne uscì a pezzi, provato nel fisico e nello spirito. Credo di aver avuto un anno quando mi vide per la prima volta. Non ho nessun ricordo riferito di quell’incontro».
Perché hai scelto di studiare architettura?
«Il motivo principale è che mi piaceva disegnare. L’ho
sempre fatto, fin da piccolo».
La presenza, sia pure indiretta, di Sartoris non c’entra?
«No, non credo. Della storia tra mia madre e Sartoris seppi solo che ogni tanto la mamma ne parlava male. Si diceva che lui l’avesse sposata perché era ricca».
Lo hai conosciuto?
«Lo incontrai a una conferenza a Losanna. Ero curioso di vedere l’uomo che aveva sposato mia madre. Stava con la sua seconda moglie, la quale se ne uscì rivelando quell’antico legame. Fu sgradevole. E vidi Sartoris imbarazzatissimo. Si rigirava tra le mani un foglio disegnato da lui. Improvvisamente, forse per allentare la tensione, me lo regalò».
Sartoris si era occupato di Terragni. Ne hai tenuto conto?
«Dal punto di vista storico certamente. Ma non penso di aver subito qualche suggestione “edipica”. Mi colpì la sua palese irritazione per coloro che avevano interpretato il lavoro di Terragni e più in generale l’architettura del Novecento, come fosse una storia romanzata ad uso delle portinaie. Le sue parole erano volte a cogliere in Terragni il difficile, suggestivo equilibrio tra la forma cartesiana e lo slancio lirico. Un connubio plastico che lo stesso Le Corbusier accolse con convinzione».
Ma alla fine Terragni fu fascista o no?
«Lo fu convintamente, al punto che attribuì alla sua
opera il senso di una militanza politica. Ma il suo lavoro va ben oltre le intenzioni».
E poi c’è la drammatica fine di Terragni.
«Si tratta del capitolo conclusivo. Penoso e tragico al tempo stesso. Terragni tornò a pezzi dalla guerra di Russia. Gli orrori cui aveva assistito furono la causa principale del suo crollo psichico. Non si riprese più. Non sembrava più lui. Chi lo ascoltò sentì dirgli che le sue mani erano sporche di sangue».
Bruno Zevi infine lo ha riscattato.
«È probabile che egli non credesse più nel fascismo, vista la disfatta. Ma come si fa ad averne la certezza? Fu ricoverato in un ospedale psichiatrico e lì diede vita al suo ultimo progetto, una cattedrale. Zevi parlò di “manierismo razionalista”. Organizzò perfino, in pieno Sessantotto, un convegno sull’"eredità di Terragni” che trovò in Giulio Carlo Argan un fiero oppositore».
Insomma continuava a far discutere.
«È stata una figura politicamente controversa. Ma di indiscutibile talento».
Tu ti riconosci qualche talento?
«Forse quello di non essere mai stato affetto da nevrosi di architettura. Adalberto Libera uscì mentalmente provato dalla vicenda dell’Esposizione Universale 1942.
Tafuri finì in cura da uno psichiatra. Non scrivi La sfera e il labirinto se non hai qualche problema. Richard Meier era un nevrotico pazzo. Anche Eisenman non scherzava. Aldo Rossi mi raccontò, durante una notte aNew York, che non riusciva a stare fermo in un posto più di un giorno. Altri si lasciarono divorare dal narcisismo. Nessuno di costoro – come cantava Petrolini di Gastone, ha mai avuto orrore di se stesso».
Accennavi al Sessantotto.
«L’anno prima presi la tessera del Pci. Fu una scelta di campo ma non una militanza. A quell’epoca tra i partiti istituzionali c’erano la Dc e il Pci. La Dc era il potere; il Pci solo un’idea di potere. Forse fu questo a sedurmi».
Parlando dei due mariti di tua madre mi colpiva la precisazione che fossero più giovani.
«È strano che l’abbia ricordato. Ma in fondo anch’io ho sposato una donna più grande di me. Esattamente di dieci anni e ora che non c’è più ho come l’impressione che un pezzo di cielo sia andato in frantumi».
Ti va di parlarne brevemente?
«Lo sto facendo anche se non mi va. Si chiamava Maria; è stata la donna che ha accompagnato mia madre negli ultimi anni della sua vita, si è presa cura di lei. Una donna semplice. E quando la mamma è morta lei ha deciso di tornarsene da sua sorella. Le chiesi di restare.
“A fare cosa, vado via” rispose. Ripartii per New York.
Avvertivo la sua mancanza. Perciò le inviai un telegramma. Una sola frase: “Mi vuoi sposare?”».
E lei?
«Rispose: “Sì, ma in chiesa”. Dal momento che eravamo entrambi cattolici non fu un problema. La nostra fu un’unione felice. Ricordo che quando disse “vado via” sentii franarmi il mondo attorno. Non saprei come chiamare quel legame. Sapevo solo che non potevo perderla. Era una donna eccezionale».
Ha sostituito la figura di tua madre?
«Assolutamente no».
Ne sei sicuro?
«Totalmente. Sono state due figure completamente diverse. Non cercavo un surrogato materno ma una persona con la quale mi piaceva vivere. È stato un incastro perfetto».
L’hai definita donna eccezionale. Ossia?
«Non lo so. Si può definire l’amore? È qualcosa di indicibile. Se lo dico lo sminuisco. Poi eravamo due persone completamente diverse, di gusti diversi».
Sembri un personaggio uscito dalla penna di Walser. Pienamente realizzato nel tuo vuoto.
«Mi piace, ma non so cosa vuoi dire».
Come se tutto quello che ti è accaduto fosse accaduto in un presente senza memoria.
«Non ho rimpianti né rimproveri da farmi».
Si tratta solo di capire se la tua, dopotutto, è una fortezza di marzapane o di solidi mattoni, visto il mestiere che hai fatto.
«Chi lo sa. Mi viene in mente che Walter Benjamin amava le figure di marzapane. Mentre io ho amato i mattoni».