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 2025  agosto 31 Domenica calendario

Preghiere per grazia non ricevuta

Pier Vittorio Tondelli oggi avrebbe settant’anni. Ma è rimasto fermo nei suoi trentasei. Un’età bastarda, a cavallo tra la giovinezza e la maturità, in cui si comincia a far pace col passato, o almeno si tenta. Era il 1991 quando la sua voce si spense, consumata dall’Aids, in un’Italia ancora impreparata a raccontare certe morti. Ma le sue parole – ferite, ribelli, tremanti – continuano a graffiare la pelle del nostro tempo. E proprio la pelle, non come superficie ma come carne viva, è la chiave per entrare nella sua opera. «Quel libro – scriveva di Leo in Camere separate – lo sente come il suo corpo spogliato». E Leo è Pier Vittorio. Il ragazzo di Correggio che ascoltava Patti Smith e Leonard Cohen, che si commuoveva per la morte di Pasolini ascoltando Pablo di De Gregori, era lo stesso che scriveva recensioni per le rivistine cattoliche come Momento Acli, firmandole con l’urgenza di chi cerca un senso. L’inizio è tutto lì: un’adolescenza inquieta, segnata da una «coscienza di essere artista», da un amore «frocio» vissuto come chiamata e ferita insieme. E da un dialogo mistico con Dio – un Dio personale, gelosamente custodito – che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Altri libertini. Il titolo del suo esordio basta da solo a evocare la febbre, lo scandalo, la censura. Era il 1980, e la magistratura ne ordinava il sequestro, bollandolo come «opera luridamente blasfema». Dietro l’indignazione giudiziaria c’erano il sesso, la marginalità, la bestemmia, certo. Ma soprattutto c’era un’urgenza: parlare da dentro un corpo che desiderava, che soffriva, che cercava. Si avverte l’esigenza di una dimensione ulteriore verso la quale si viaggia in una sorta di assoluto avventuroso: «Col naso in aria fiutate il vento, strapazzate le nubi all’orizzonte, forza, è ora di partire, forza tutti insieme incontro all’avvventuraaaaa!». Dentro la sua Bologna punk e postmoderna, dentro le notti sfinite di stazioni e bar, sotto i neon ammuffiti dei “Posto Ristoro”, si muovevano ragazzi che giocavano a carte e bestemmiavano il freddo, ma che in fondo cercavano un Eden, un altrove generoso. Era il loro corpo l’antenna dell’inquietudine. E l’amicizia, il branco, la sessualità – così libera, così abnorme – diventavano segnali di un bisogno di senso che non sapeva dirsi. E così nei racconti di naja di Pao Pao domina il «vagare per sentieri che non conosciamo» alla ricerca disperata di qualcosa: «Ma le occasioni della vita non stupiscono mai abbastanza nella loro insensata frammentarietà che poi un bel giorno miracolosamente si salda in una sottile e delicata vibrazione che riaccorda e riannoda e uniforma il tono di diversi percorsi e allora, nonostante i dolori e le precarietà dei nostri anni giovanili, la vita sembra rivelarsi come una misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire; e allora in quell’attimo abbagliante tutto pare ricomporsi nella gioia di sentirsi finalmente presenti agli occhi della propria storia».
Se Arbasino in Fratelli d’Italia descrive «la gran commedia dei nostri Anni Sessanta», correndo tra le capitali del Rinascimento, del boom e dei festival, Tondelli si fatestimone e diarista attento degli anni Ottanta. Ed è cronista lucido di un decennio che sbandava tra l’estetica del look e l’assenza di riferimenti. Un weekend postmoderno, raccolta di reportage, interviste e appunti, è il diario di un viaggio nella provincia italiana, tra fumettari, videoartisti, garage band e pubblicitari. Il suo è un “cineocchio”, lo sguardo di chi ha vissuto dall’interno un’epoca che confondeva la profondità con l’eclettismo, che rischiava di perdere il contatto con la pelle delle cose, e che credeva in un «futuro centrifugato nelle perdite di senso». Il postmoderno, per lui, non era una corrente mauna vertigine: un miscuglio di stili, una giostra di segnali senza radici. Ma a un certo punto quella giostra lo nausea. Il carnevale diventa malinconico, «quasi da stadio- terminale».
Allora «che pena e che noia sentire ancora parlare di punk e postpunk, di look gallinaceo e look savanico, di new dandy, new romantic, metallari e skinhead, look sadomaso, new wave e preppy d’accatto». Il look più significativo? Quello invisibile. La camicia bianca dei giovani “normali”, la pagina bianca più ricca di senso delle mille icone saturate, «maggiore di qualsiasi saturazione del campo visivo attraverso gadgets, spille, madonne, levrieri e mandarini». Così, mentre il decennio sembrava danzare senza posa, Tondelli iniziava a desiderare il silenzio, specialmente dopo la morte di Andrea Pazienza nel 1988.
Il romanzo Rimini è la parabola perfetta di questa crisi. Dietro l’ambientazione da “divertimentificio” e il richiamo sfacciato alla riviera adriatica, si cela una notte perenne. Nessuno si diverte davvero. La spiaggia, con la sua luce irreale e il suo caos, diventa metafora dell’intera condizione umana: palude bollente di anime che fanno le vacanze solo per schiattare: «Ragazzi in canottiera, ragazze cinguettanti, playboy, ragazzini che si rincorrono, coppie innamorate, gente comune con il cono squagliato che sbrodola le braccia, ma anche… pance gonfie e bianche e cicatrici di ernie e appendiciti, rotoli di grasso, ascelle fradice di sudore, unghie incarnite, crani calvi…». La vacanza in Riviera altro non è che «la legittima erede del carnevale del Medioevo, in cui il ribaltamento è d’obbligo, dove tutto esplode all’impazzata – sesso, amore, corpo, passione – dopo mesi di prigione nel lavoro, nella casa, nella città».
Dietro la risacca della musica dance e dei cocktail sulla sabbia, si agitano sogni che si infrangono e corpi che cercano ancora un appiglio. Rimini è, in fondo, una “commedia umana”. Non si giunge ai ventiquattro personaggi con i quali Altman nel suo film Nashville intreccia un caleidoscopico incastro, ma certo queste immagini (così come Sogni di Bunker Hilldi John Fante) hanno costituito per Tondelli un referente esplicito. Bruno, il protagonista, confida a un prete, padre Anselme: «Ho sempre cercato “tutto” nella vita: la verità e l’assoluto. Ho sempre detestato la gente soddisfatta». Le parole suonano come un manifesto. Sotto la patina di crema solare degli anni Ottanta si apre una crepa, anzi un abisso. Si tratta della scoperta di quel “luogo” di cui si parla nell’opera teatrale Dinner Party: «Dentro le persone esistono luoghi che nessuno può immaginarsi di raggiungere. Non sai se siano di disperazione o di vita. Forse sono la stessa cosa sovrapposte».
Da Rimini si torna a Correggio. Ma non per nostalgia. Il viaggio di Tondelli è un’andata in profondità, non un semplice ritorno geografico. Correggio, la sua provincia, non è solo una cornice. È l’odore della terra nera, delle foglie marce, della nebbia che avvolge. È lo sfondo del presepe notturno che Leo, protagonista di Camere separate,attraversa sotto i portici, nei silenzi che squarciano il cuore. È il volto intimo di una devozione che non ha bisogno di nomi, ma che si esprime nello sguardo, nella contemplazione, nella liturgia delle cose semplici.
È il romanzo più ustionante per lo scrittore che, in una lettera al suo editore francese, scrive: «Sto lavorando a Camere separate strappandolo letteralmente dalla mia pelle. Ci sono pagine che ho orrore di scrivere e che batto sui tasti del mio computer urlando come sotto tortura». Molto dell’animo di Tondelli, nei suoi desideri e nelle sue paure, confluisce in questo romanzo. Al suo centro è il rapporto tra due uomini che si amano, Leo e Thomas, vissuto nella “separazione”, che è il vero tema del libro: Thomas è morto e Leo vive in una mai esaurita e definitiva elaborazione di questo lutto, nella continua memoria del passato, tesa alla ricerca del tempo perduto, ma anche di una possibile resurrezione. Ma proprio lì, nella discesa agli inferi del corpo e dell’anima, si cela Dio. Il corpo non è mai soddisfatto, mai appagato. È il luogo dell’inquietudine, della finitezza, del desiderio. Ed è nella carne che si annida la possibilità di una grazia: avverte «la presenza del sacro come qualcosa di tangibile nella realtà, qualcosa su cui il suo sguardo si posa con devozione».
La Bibbia, i mistici medievali, l’Imitazione di Cristo, Teresa di Lisieux, Teilhard de Chardin e Adriana Zarri: tutti nomi presenti nelle sue letture, a volte nella sua scrittura. Lavorando nella sua libreria personale, oltre vent’anni fa ho notato alcune note scritte a matita e con grafia incerta. In un appunto preso nella Traduzione della prima lettera ai Corinti di Giovanni Testori si legge: «Io ho sempre pensato che la scrittura avrebbe potuto, magari in anni e col lavoro, “salvare” la mia storia in un canto epico. La letteratura non salva, mai. L’unica cosa che salva è l’Amore, la fede e la ricaduta della Grazia». La puntura di un metaphysical bug l’aveva già confessata, del resto, in Camere separate.
Tondelli ha saputo raccontare la vita nel suo farsi e disfarsi, in una lingua che, a tratti, sembrava esplodere. Oscena, sì, nel senso etimologico del termine: fuori dalla scena, dal decoro della pura apparenza. Ci ha insegnato che non esiste letteratura senza corpo. E che l’occhio dello scrittore non è mai neutro. Ci ricorda che scrivere non è un mestiere da maestri, ma da dilettanti, da cercatori, da pellegrini, forse da monaci, come ebbe a dire una volta. E a settant’anni dalla sua nascita, Tondelli è ancora lì, a indicarci quella direzione. Con la pelle scoperta. Con l’occhio che vede oltre.