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 2025  agosto 31 Domenica calendario

L’amore per Amalia che «macchiò» Fattori

L’incontro (fatale) nel giugno del 1860, nella Villa Il Gioiello, alle porte di Firenze: è qui che Giovanni Fattori, insegnante di disegno della figlia sedicenne dei padroni di casa (i marchesi Bartolommei), vede per la prima volta Amalia Nollenberger, giovane (19 anni) cameriera tedesca della sua allieva Isabella. E sarà subito amore, un amore impossibile (per la morale dell’epoca, soprattutto per quella dell’aristocrazia fiorentina) che Fattori confesserà nelle lettere all’amico-collezionista Diego Martelli: «Spiato per gli amori con la tedesca – scrive l’8 agosto dello stesso anno —, che oggi aspetto qui allo studio e pranzeremo insieme alla boheme; però anche questa per ora mi pare più una mazzolata che mi è venuta sulla testa che una fortuna amorosa, almeno come la vedo io. Dice che mi vuole bene, sarà vero, non lo metto in dubbio, ma che ne fo io? Come finirà? Basta, vedremo; intanto batti oggi, batti dimani, si ha un bello essere scettici, ma qualcosa si attacca, e sentirsi stringere il collo da due belle braccia, e sentirsi più e più volte baciare da una bocca fresca, buona, e guardare due occhi come vedeste... si ha un bel dire, qualcosa si attacca, e io ho paura».
La relazione tra il cinquantacinquenne maestro di disegno e la cameriera diciannovenne provocherà pochi mesi dopo il licenziamento della ragazza tedesca (che verrà assunta da una nobildonna inglese che la porterà con sé a Napoli), un distacco che Fattori (che si autodefinirà «un uomo quasi vecchio e con pochi quattrini») vivrà in modo drammatico, cercando però di restare comunque vicino ad Amalia, orfana e sola al mondo, consigliandole ad esempio quali sono i monumenti artistici più significativi di Napoli (la pinacoteca) e della zona vesuviana (gli scavi di Ercolano e Pompei) oppure quando le invia in lettura un romanzo che aveva dato scandalo e che evidentemente lo aveva molto colpito, La Dame aux camélias di Alexandre Dumas (accennando anche a degli scritti che però preferisce non mandarle, per non «divenire ai tuoi occhi molto ridicolo»).
Tra le tante storie (inattese) della mostra Giovanni Fattori. Una rivoluzione in pittura, curata da Vincenzo Farinella e allestita (dal 6 settembre all’11 gennaio) a Villa Mimbelli a Livorno c’è anche quella dell’amore (proibito) tra il grande maestro dei Macchiaioli e Amalia, una storia testimoniata «in diretta» da uno degli oltre 200 capolavori (dipinti, disegni, acqueforti) raccolti per celebrare il secondo centenario della nascita di Fattori (Livorno, 6 settembre 1825 – Firenze, 30 agosto 1908): Ciociara, olio su tela (80 centimetri per 58) dipinto tra il 1880 e il 1881.
«La Ciociara – scrive ad Amalia in una lunghissima lettera del novembre 1881 – che mi sta davanti mi ricorda di te e che io ancora non tento di vendere, ma se farò questo tentativo lo sarà per una sola ragione, quando tu dirai: “Voglio tornare” e quei denari, allora, sarebbero per te». Il rapporto tra i due sarebbe comunque entrato in crisi già pochi mesi dopo, nella primavera del 1882, per la presenza di un’altra donna, la «spagnola», Marianna Bigazzi Marinelli, destinata a diventare la seconda moglie dell’artista.
Fattori raffigura Amalia affacciata al balcone (analogamente alla figura femminile presente in un suo dipinto giovanile, l’Addio al mondo del 1857) dopo avere indossato un costume da popolana laziale, si trova vicinissima all’osservatore, mentre la stradina di Firenze, con le figure che passeggiano e il baroccio con il cavallo coperto da una coperta rossa, è vista dall’alto, come da una grande distanza. Si tratta di un effetto di vicino/lontano talmente esasperato da ricordare soluzioni simili presenti in quelle stampe giapponesi che Fattori dovette avere avuto modo di studiare durante il suo soggiorno parigino del 1875: d’altronde, a rimarcare il desiderio fattoriano di rimanere sempre legato ai maestri del Quattrocento italiano, la stradina in scorcio, con i caseggiati popolari colpiti dal sole, sembra un voluto omaggio allo sfondo urbano di una scena della Cappella Brancacci. quella dei Miracoli di San Pietro di Masolino e Masaccio.
L’esposizione, concepita da Vincenzo Farinella come una narrazione della profondità e della vitalità di un protagonista della pittura italiana del XIX secolo, si propone anche attraverso il racconto di questo «amore proibito» di restituire la dimensione autentica di una poetica che ha saputo coniugare la misura della realtà con una spontaneità che fu rivoluzionaria. Il contesto celebrativo di Livorno rende omaggio non solo a un artista, ma a una corrente intera, quella dei Macchiaioli. Costantemente messi a confronto con i più celebrati impressionisti francesi, i Macchiaioli vincono da una parte il «confronto temporale» visto che già dagli anni Cinquanta dell’Ottocento avevano iniziato a sperimentare la cosiddetta «pittura di macchia» mentre i colleghi-rivali francesi esporranno insieme per la prima volta «solo» nel 1874 nello studio di Nadar; dall’altra, risultano invece da sempre penalizzati dalla critica e dal mercato rispetto agli Impressionisti.
Fattori in una lettera del 1904 si definisce «nemico di qualunque imitazione siano pure dei grandi artisti antichi e moderni» e ancora «nemico dell’arte spudorata per commercio, sia religiosa materiale o vana». L’arte per lui si deve prima di tutto amare: «Gli antichi, i 400tisti, i 300tisti e i Raffaello, Leonardo, Tiziano, Botticelli, Ghirlandaio ed altri che non ricordo – scultori Michelangelo, Donatello etc. saranno sempre da guardare e da studiare, ma non mai da imitare, da rispettare e adorare anche. Lo studio dell’arte attuale sta nella manifestazione della natura e nella illustrazione sociale del nostro secolo sia per costume, attitudini, sofferenze ed altre cose anche politiche. La missione nostra è di mandare ai posteri la nostra storia moderna e coloro i quali trattano l’antica la lascino agli antichi».
Costruita intorno alla «grammatica della macchia», l’opera di Fattori non appare come artificio decorativo ma come un gioco di colori e tonalità capace di dialogare con la realtà; è una risposta all’esigenza di fissare l’attimo senza cadere nel sentimentalismo, alla ricerca di una via di mezzo tra la natura e un’attenzione etica al lavoro, alla fatica, al cammino della vita quotidiana. Fattori riesce così a sfuggire sia alla retorica di una pittura di soggetto sia alle mode passeggere: «La sua pittura è una chiamata all’attenzione al mondo reale, all’umano, al tremore delle cose». La mostra di Livorno intende restituire questa tensione. Si muove tra spazi aperti, campi, cavalli, contadine, e una narrazione umanizzata delle figure: uomini e donne, soldati, contadini, che raccontano il Risorgimento (di cui i Macchiaioli furono grandi sostenitori) e la vita quotidiana, in un intreccio di luce e di ombra che (sotto la «macchia» di colori e in opere spesso di dimensioni ridottissime) celebra la verità come valore estetico e morale, la dignità dell’artista, la fiducia nella pittura come strumento di libertà.
Questo raccontano opere come Lungomare di Antignano (1894) con la sua spazialità controllata e la luce che accende la scena; come, La torre rossa (1866 circa), dalla scala minuta ma densa di significato; come Carica di cavalleria a Montebello (1862), capace di raccontare senza banalità la Grande Storia; come La Signora Teresa Fabbrini a Castiglioncello (1867-1870); come Bovi al carro (1870 circa), testimonianza di una relazione profonda con la terra e con i suoi animali. Dipinti, disegni e acqueforti, di cui molte poco o mai viste (come la stessa Ciociara) che invitano a scoprire la rivoluzione pittorica di Giovanni Fattori, l’artista della natura, della macchia, della vita sociale e militare colta nei suoi aspetti più umani. Un percorso espositivo diviso che vuole di fatto dimostrare la visione unica di un artista che ha saputo raccogliere gli insegnamenti della pittura italiana e i fondamenti del disegno senza mai imitare alcuno stile, cercando sempre una via personale e autentica, lontana dai clamori e dalla retorica perché «l’arte libera soddisfa e consola e distrae», ma che non è mai superficiale.
Tra le novità della mostra livornese c’è infatti anche quella di proporre un Giovanni Fattori finalmente diverso, cancellando uno dei pregiudizi più duri a morire, che sempre vengono ripetuti quando si parla del linguaggio fattoriano: e cioè, spiega il curatore, «la sua sorgiva ed ingenua spontaneità, da artista praticamente incolto, grandissimo a dispetto di questa sua mancanza di cultura, non solo letteraria ma anche storico-artistica». Un pregiudizio resistente e diffusissimo, anche perché ribadito con apparente compiacimento dallo stesso artista, negli scritti autobiografici stesi negli ultimi anni di vita («Ero perfettamente ignorante e mi sono, grazie a Dio, conservato», «La storia dell’arte non l’ho mai saputa») che lo presentavano come un artista «senza retroterra culturale» distante anni luce da «teorici» come Adriano Cecioni e Telemaco Signorini. Ciò che più colpisce leggendo le sue lettere romane è la volontà di Giovanni Fattori di vedere e sperimentare, in quotidiane, continue e spossanti peregrinazioni tra i monumenti, i musei, le chiese della città e della campagna romana, tutto ciò che di artistico, antico e moderno, la recentissima capitale del Regno d’Italia potesse offrire.