La Lettura, 31 agosto 2025
Nel cuore di Calatrava culla dell’archiscultura
Metà luglio. Arrivo da Milano. Destinazione Zurigo. L’appuntamento è per la cena. Accogliente e raffinato, il Kronenhalle è a pochi passi dal lago. Un leggendario ristorante, nel Novecento frequentato da letterati, da musicisti, da registi, da attori e da artisti. Alcuni clienti hanno pagato il conto dando in cambio i loro quadri. Alle pareti, opere originali di Bonnard, di Picasso, di Chagall, di Miró, di Beckett, di Fellini. Puntuale, ecco Santiago Calatrava. Tutti lo salutano. È un habitué. Gli viene riservato sempre lo stesso tavolo. Con una certa familiarità, conversa con i camerieri di argomenti ameni.
Ci conosciamo poco. Nell’autunno del 2020 ci siamo incontrati a Napoli. Nel Real Bosco di Capodimonte, Calatrava era stato invitato a «riscrivere» la fatiscente Cappella San Gennaro, una piccola chiesa di campagna ideata nel 1745 da Ferdinando Sanfelice. Insofferente nei confronti della retorica d’impronta postmodernista, per la «rinascita» della Cappella, l’archistar spagnolo aveva dipinto le pareti e il soffitto con un intenso blu oltremare tempestato di stelle dorate. Poi, aveva riempito le nicchie di vasi di porcellana in forma di uccelli, di fiori, di rami e di foglie; sistemato altri vasi vagamente picassiani sugli altari; collocato i portacandele, gli angeli e le colombe nel battistero; e sospeso dal soffitto un uovo in ceramica. Inoltre, aveva curato i preziosi paramenti di seta sull’altare. Ed era intervenuto sulle vetrate (dipinte a mano). Era nata così un’opera d’arte totale, attraversata da tante corrispondenze classiche. Giotto, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Wagner, Le Corbusier. Decisivi anche i rimandi a Cézanne. Che, per la Chapelle du Saint-Marie du Rosaire in Vence, tra il 1949 e il 1951, realizzò i quadri, i disegni dei pannelli, le vetrate della cappella, l’altare, l’arredo sacro e gli abiti del celebrante.
La nostra conversazione zurighese muove da quell’occasione napoletana. Pur profondamente radicato nel suo tempo, di cui interroga dinamiche e lati oscuri, Calatrava tende a rappresentare se stesso come una monade. Con una certa esitazione, cita i suoi colleghi. Preferisce, invece, ispirarsi ai maestri del Rinascimento e a quelli del Barocco, dei quali studia tecniche, materiali, artifici costruttivi. Nel suo discorso e nel suo lavoro, come dimostra la Cappella San Gennaro, tende a non distinguere arte, architettura, ingegneria. Proprio come Leonardo, come Michelangelo, come Brunelleschi. E, soprattutto, come Bernini. Descrivendo la sua opera, nel 1682, Francesco Baldinucci enunciò il concetto di «bel composto», pensato come uno spazio ibrido e aperto, all’interno del quale convergono pittura, scultura e architettura.
Nato a Valencia nel 1951, nella Spagna franchista, cresciuto in una famiglia che lo spinge a frequenti soggiorni in Francia, laureatosi in Architettura al Politecnico di Valencia, si è poi trasferito a Zurigo, dove si è laureato anche in Ingegneria e ha conseguito il dottorato di ricerca. La sua città d’elezione, una sorta di zona franca, che gli consente di isolarsi, di concentrarsi, di evitare le ritualità mondane proprie delle metropoli occidentali: questa è Zurigo, per lui.
Si resta sedotti ascoltando i racconti di quest’uomo che incarna lo spirito dell’Europa come civiltà delle idee. Poliglotta (oltre allo spagnolo, parla correntemente francese, tedesco e italiano), con teatrale talento affabulatorio e con straordinaria generosità intellettuale, sorretto da una quasi adolescenziale curiosità, a cena, mescola aneddoti sulla storia della Svizzera con leggende ebraiche, narrazioni di vicende professionali con situazioni familiari (la moglie, i figli). Poi, si sofferma su alcune amicizie (Ieoh Ming Pei, Frank Stella), ripercorre i successi, i concorsi vinti, ma anche le tante false partenze e gli scontri con Norman Foster per il «nuovo» Reichstag di Berlino. Inevitabili i riferimenti all’Italia: i dialoghi con Papa Benedetto XVI e con alcuni politici (Napolitano, Prodi, Veltroni); le opere realizzate in maniera non conforme agli impegni (il celebre ponte di Venezia), le architetture incompiute (la Vela di Tor Vergata a Roma).
Non ha il tono appagato di chi è consacrato come un classico della contemporaneità. Calatrava ha ancora ambizioni, fame, desiderio: gli piace provare a lambire il futuro prima che accada. È lo spirito mercuriale che mi conferma l’indomani mattina, quando lo raggiungo nel suo studio: una palazzina bianca, nel quartiere ebraico. Da lì, in macchina, andiamo nel suo archivio. Circa un’ora dal centro di Zurigo. In un contesto rurale, tra vigneti e mucche, un anonimo padiglione industriale. Qui troviamo alcuni assistenti, che sembrano eseguire direttive non-scritte.
Subito visitiamo i sotterranei, che ricordano il ventre di una nave: bombole, fili, tubi, ingranaggi. Poi, inizia la visita. Regna un ordine rigoroso. L’hangar è suddiviso in aree tematiche: disegni, quadri, sculture, oggetti, plastici, piante, materiali ingegneristici. Nel percorso, mi imbatto in ampie casse di legno sulle quali sono stampati QR Code che permettono solo ai dipendenti di controllarne i contenuti. Una stanza è occupata da quadri sistemati su grate mobili, distanti da ogni tentazione avanguardistica, caratterizzati da uno stile piuttosto accademico: volti, corpi e paesaggi eseguiti senza trasgredire i vincoli della mimesi. Un’altra sala è costellata di sculture fondate su uno stratagemma ricorrente: Calatrava isola specifici elementi architettonici (un arco, una scala), imprimendo a essi un implicito dinamismo, suggerendo così il transito dal realismo all’astrazione. Vi si impone una felice combinazione tra solennità e leggerezza: pur imponenti, le forme sembrano «agite» da un moto segreto, debitore della lezione di Brancusi.
È il medesimo gioco che ritrovo quando entro nella galleria dedicata ai plastici. Poi mi mostra una ricca sequenza di ponti, la sua cifra distintiva: un po’ come le nature morte, per Morandi. Gli chiedo le regole alle quali si attiene. La risposta è quasi disarmante: «Sai, è facile progettare ponti. Ci sono quattro tipologie. Di volta in volta, bisogna solo sceglierne una». Tutto diventa più complesso quando ci si misura con gli edifici. Calatrava parla delle soddisfazioni e delle peripezie legate alla Cuidad de las Artes di Valencia. Ma, soprattutto, indugia sulla più grande delusione. Mi mostra il plastico del «suo» Reichstag, sorprendentemente simile a quello poi realizzato da Foster. Infine, mi conduce nel suo scrigno, dove sono catalogati migliaia di disegni. È come frugare in faldoni stratificati di ricordi visivi. Talvolta, rapidi appunti. Altre volte, esercizi liberi. Altre volte ancora fogli che contengono intuizioni destinate a essere sviluppate, in seguito, in architetture.
Proprio questa scoperta mi fa cogliere la logica sottesa alla filosofia di Calatrava, che si basa su alcuni passaggi. Per un verso, egli tende a concepire la sua ricerca come un’esperienza porosa, nella quale, pur conservando un’inviolabile autonomia, pratiche e linguaggi diversi si continuano, si collegano: disegno, pittura, scultura, architettura e ingegneria si rafforzano a vicenda. Ecco il «bel composto» caro a Bernini. Accade così che una «visione» affidata a uno schizzo, nel tempo, possa essere reinventata in un quadro, in una scultura, in un ponte o in un edificio. Si pensi all’Oculus, nel World Trade Center, a New York (2016): contraddistinto da due ali d’acciaio che ricordano una colomba – figura della pace e della rinascita dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 – Oculus ospita una stazione Path (il sistema ferroviario che mette in comunicazione lo Stato di New York con quello del New Jersey), diverse linee della metropolitana, negozi, un’area per un centro commerciale. Un’iconografia già «pre-vista» in appunti della fine degli anni Novanta, che evocano il motivo dell’occhio.
Per un altro verso, Calatrava attinge sempre a segrete allusioni: dietro ogni scorribanda si nascondono episodi «veri», impressioni di mondo, che vengono filtrate e risituate su un registro poetico. Il fine ultimo: nell’epoca del funzionalismo, riscoprire l’ornamento, inteso non come trucco ma come problema di significato. Luce ausiliaria. Artificio per trasformare l’«atto mentale» in esperienza. Per rendere sensibile la sfera dell’interiorità. Per attuare un deciso rinnovamento mitopoietico. E per far prevalere l’immaginario sulla razionalità. Ornamento non è delitto, sembra dire Calatrava capovolgendo la tesi loosiana.
Da questa concezione nascono archisculpture distanti dall’impersonale neutralità del razionalismo, dotate di un alto valore iconico, con una profonda carica figurativa, basate sulla «plasticità» del cemento armato. Imponenti e accattivanti, questi trophy building esibiscono una forte mutevolezza formale e plastica. Grazie ad ardite soluzioni ingegneristiche contribuiscono a trasformare i contesti urbani in potenti scenografie. «Il mio è un ornamento francescano, un po’ da Cantico delle creature: serve a enfatizzare ciò che esiste», dice questo inventore neobarocco, prima di tornare nel suo studio. Vi si respira un’atmosfera quasi religiosa. Qui lavorano circa cinquanta collaboratori di diversi Paesi. «Mi piace governare ogni momento del processo, dall’ideazione alle verifiche strutturali: perciò non mi ritrovo nella scelta di tanti miei colleghi di aprire filiali in tutto il mondo», dice Calatrava. Il quale mi introduce nella caotica bottega dove vengono modellate le maquette. Forse, è un modo per riportare indietro le lancette della storia suggerito da questo erede di Ulisse colto sulla strada del ritorno verso una sorta di Itaca dell’anima.
«Nella nostra epoca, avvertiamo una certa nostalgia per un tempo dominato dalla lentezza», continua Calatrava. Che confessa il bisogno di riaffermare, nell’era del digitale, la centralità del fare con le mani: «La potenza del gesto manuale può condurre verso l’altrove».
Solo così è possibile spingersi verso i cieli della spiritualità. Quei cieli che aveva evocato Schiller nell’Inno alla gioia, alludendo al rapporto dell’uomo con la natura e con il cosmo. Tra i versi maggiormente amati da Calatrava: «Intuisci il tuo creatore, mondo?/ Cercalo sopra il cielo stellato!/ Sopra le stelle deve abitare!».