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 2025  settembre 01 Lunedì calendario

Ultrà condannato per violenze, il datore di lavoro può licenziarlo

Il licenziamento è giustificato quando il lavoratore ha commesso reati che «recano disvalore morale alla sua persona», anche se si tratta di reati commessi al di fuori del lavoro. Lo stabilisce la Cassazione riguardo al caso di un ultras di Catania condannato a 8 mesi per «oltraggio alle forze di polizia di stato e istigazione a commettere delitti di resistenza e delitti contro la persona», nonché «per avere offeso con più azioni anche in tempi diversi l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale». L’uomo, che lavorava in un’azienda come operaio, era stato licenziato dopo che la sua condanna era diventata definitiva per «un’azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che ha leso la sua figura morale», e aveva fatto causa al datore di lavoro, perdendo. Aveva quindi impugnato il licenziamento davanti alla Corte di appello di Catania, che però aveva dato ragione al giudice di primo grado.
Di qui il suo ricorso in Cassazione, anche questo rigettato. I reati per i quali l’uomo era stato condannato sono stati giudicati «gravi oggettivamente e soggettivamente» sia per le «fattispecie incriminatrici violate» sia per «il concreto disvalore penale che deriva dalla natura delle persone offese (pubblica amministrazione, corpo di polizia, pubblico ufficiale) e dei beni giuridici tutelati (dignità e prestigio del corpo di polizia e del singolo pubblico ufficiale)». Ma la gravità deriva anche «dalla reiterazione delle condotte nel tempo, quasi due anni» e «per il contesto in cui i fatti si sono svolti, quello delle tifoserie calcistiche, che anche il giudice penale definisce particolarmente aggressivo». Si tratta di reati, sottolineano i giudici «che sono stati commessi con l’utilizzo di frasi gravemente ingiuriose e in alcuni casi con frasi che istigavano alla violenza ("sbirri a morte”, “meglio mille sbirri uccisi che un ultras diffidato")». Per tutti questi motivi il licenziamento è «pienamente giustificato, anche se si tratta di reati commessi al di fuori dell’attività lavorativa, poiché è innegabile la compromissione dell’elemento fiduciario che connota fortemente il rapporto di lavoro, essendo fondatamente venuta meno nel datore di lavoro la fiducia che egli deve poter riporre nel suo dipendente», che in questo caso invece «si è reso responsabile di gravi fatti di negazione di valori etici e morali e lesivi di interessi meritevoli di tutela penale, come tali idonei a pregiudicare la statura morale del lavoratore».
Inutile il tentativo dell’imputato di avere una sanzione meno grave da parte del datore di lavoro, proprio per la gravità dei fatti da lui commessi. «La sanzione conservativa dell’ammonizione – spiegano gli Ermellini – punisce, secondo la disposizione della contrattazione collettiva evocata da parte ricorrente, le mancanze che rechino solo pregiudizio alla morale e non certo agli interessi tutelati dal codice penale». Invece i reati da lui commessi «non sono conformi ai valori dell’ordinamento e sono di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro».
A nulla era servito, nel processo di secondo grado, uno dei motivi di appello, che puntava sulla «tardività della contestazione disciplinare» da parte del datore di lavoro. E a nulla è servito anche nel ricorso presentato dall’uomo in Cassazione e rigettato dagli Ermellini. I fatti di cui l’ultras era accusato risalivano infatti al febbraio del 2010, ma il licenziamento era arrivato solo a novembre 2016, nonostante il datore di lavoro ne fosse a conoscenza dall’inizio. Ma, sostengono i giudici, proprio per la tutela del lavoratore, il titolare aveva «sospeso ogni valutazione disciplinare, rinviandola all’esito del procedimento penale e invitando formalmente il lavoratore a tenerlo aggiornato dello stato del procedimento». Non solo, «sebbene la sentenza della Corte di Appello penale sia intervenuta» a dicembre 2012, il datore di lavoro non ne è venuto a conoscenza «prima del mese di ottobre 2016». E, aggiunge la Cassazione, «il lasso temporale tra i fatti e la loro contestazione deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi».
Federica Pozzi