Il Messaggero, 1 settembre 2025
Intervista a Jim Jarmush
Una rockstar. Occhiali scuri, completo nero, i capelli bianchissimi, 72 anni che non gli daresti mai. Per la prima volta in concorso a Venezia con Father Mother Sister Brother, film in tre capitoli sulla complessità delle dinamiche familiari, Jim Jarmush è una leggenda vivente. Regista irregolare e premiatissimo, musicista e compositore, amico di alcune delle più grandi stelle della musica (Lou Reed, Iggy Pop, Joe Strummer, Tom Waits), per lui gli attori fanno la fila: in Father Mother Sister Brother recitano Adam Driver, Cate Blanchett, Tom Waits, Charlotte Rampling, Vicky Crips, Mayim Bialik.Ha lavorato con Tom Waits in Daunbailò, del 1986 (con Roberto Benigni). Come vi siete ritrovati?«Siamo vecchi amici e ci è capitato di tutto nella vita: avevo voglia di scrivere per lui. L’unico problema era che mentre Mayim e Driver sono attori molto disciplinati, Tom non lo è. Dopo il primo giorno di riprese, mi prende da parte e mi fa: “Jim, ora che hai assunto questi due killer professionisti, io cosa faccio?"».Quando dice che vi è capitato di tutto cosa intende?«Ne racconto una. Tom aveva questa macchina, nel nord della California, grossa quanto un piccolo camion. A un certo punto sua moglie si mette in testa che dobbiamo andare a prendere una gigantesca ruota di carro da un tizio. In qualche modo ci carichiamo questi 450 chili di ruota in auto, ma mentre guidiamo le gomme posteriori, per via del peso, prendono fuoco. Ci fermiamo davanti a un tizio che sta innaffiando il prato, Tom gli strappa dalle mani il tubo e spegne le gomme. Che esplodono».Benigni lo sente ancora?«Ci parlo al telefono una volta al mese, di solito la domenica. E il mese scorso, quando ho suonato a Bologna, è venuto a trovarmi con la moglie. Lo chiamo Bob, come in Daunbailò, o Robertino».Perché un film sulla famiglia?«Volevo osservare i meccanismi che regolano i rapporti tra i parenti. Non c’è una famiglia che non sia fuori di testa. Il prossimo film, invece, sarà una tenera storia d’amore fra due donne».Per la prima volta in gara a Venezia: era già stato alla Mostra?«Una volta. Mi fermò la polizia».Perché?«Bill Murray, che era con me sulla barca, si levò per gioco la maglietta roteandola sulla testa e gridando. Ce la siamo cavati con una multa: sui canali è vietato navigare a torso nudo. Adoro Bill, con me è stato molto generoso».In che modo?«I miei film non incassano mai molto, ma quello che feci con lui, Broken Flowers, andò benissimo. Avevo una percentuale sugli incassi, e lui si attaccò al telefono perché mi venisse pagata al più presto. Grazie a lui ho potuto prendermi cura di mia madre nei suoi ultimi giorni di vita».Father Mother Sister Brother è in gara: come vive la competizione?«È una follia. Come se ti portassero in un museo e ti dicessero: adesso scegli un quadro e premialo».Il suo film è prodotto da Mubi, azienda legata ad alcune start up israeliane del ramo dell’intelligence. La mette a disagio?«Ho firmato l’accordo con Mubi prima della guerra a Gaza. Sono sconcertato».La situazione internazionale la preoccupa?«Preoccupato? Vengo dal mondo di Trump, certo che lo sono. Non mi fido di chi ha il potere. Quanto a Gaza, è un genocidio che sta accadendo sotto ai nostri occhi. Sono molto preoccupato: l’empatia e la tenerezza sono valori che si stano via via dissolvendo. E io ho giurato di proteggerli».A chi l’ha giurato?«A Joe Strummer (il frontman dei Clash, morto nel 2002, ndr). L’ultima volta che lo vidi eravamo a New York. Mi chiamò per pranzare insieme perché era in partenza. Anche se avevo l’influenza, e pioveva, lo raggiunsi nel ristorante giapponese in fondo alla strada. Passammo un po’ di tempo insieme con degli amici comuni, poi lui insistette per riaccompagnarmi a casa con il suo ombrello. Davanti alla porta, guardandomi dritto negli occhi, disse: “Jim, non dimenticarti mai che il nostro lavoro consiste nel proteggere a ogni costo l’empatia. E goderci alla grande la vita”. Morì sei settimane dopo. Questo è il suo insegnamento. E da allora è diventato il mio».L’intervista qui accanto è frutto di 40 minuti di conversazione reale con Jim Jarmush. Un record, considerati i tempi da speed date concessi dagli entourage delle star ai festival: in media 15 minuti, ma anche 5 se si tratta di un video. E spesso l’intervistato non è nemmeno solo, ma accompagnato da uno o più comprimari da far parlare, pure loro, nei 15 minuti concessi: chi paga per la promozione del film risparmia tempo e denaro, chi fa informazione si ritrova per le mani interviste profonde come un TikTok di Kim Kardashian. Con Jarmush non è andata così: una volta tanto, se non vi sarà piaciuta, l’unico da biasimare sarà solo il giornalista.