La Stampa, 1 settembre 2025
Trump spinge la sinistra a diventare liberista
È proprio vero che le vie della provvidenza sono infinite. Le politiche protezionistiche e dirigiste dell’amministrazione Trump, con dazi doganali, interventi statali come l’acquisizione di partecipazioni in Intel e attacchi all’indipendenza della Federal Reserve, stanno infatti generando un effetto inatteso: una parte della sinistra americana e globale, negli ultimi anni sempre più critica del libero mercato, sta riscoprendo i suoi valori e il principio della meritocrazia. Questo paradosso politico, in cui le mosse dell’odiato Trump pongono sotto una luce diversa i principi del liberalismo, potrebbe preludere a un parziale riallineamento ideologico?
Intendiamoci bene: la distinzione tra destra e sinistra è posticcia e sotto certi versi insensata. Come hanno insegnato pensatori come Friedrick von Hayek la vera demarcazione è tra dirigisti e individualisti, cioè tra chi propugna un ruolo dello Stato preponderante nella vita sociale ed economica di una comunità e chi invece difende le ragioni dell’individuo: i due campi sono chiari fin dai tempi dell’Antica Grecia. La differenza politica si esprime tra socialisti e liberali, con molte gradazioni. Tra i socialisti, ad esempio, ci sono quelli democratici, i comunisti e i nazional-socialisti con la loro enfasi sulla patria se non proprio sulla razza. Anche tra i liberali, naturalmente, ci sono distinzioni tra progressisti e conservatori sebbene i principi dello stato di diritto e della difesa di vita, libertà e proprietà li accomuni tutti. Andando più sul pratico, però, nel mondo occidentale oggi possiamo dire che la sinistra è divisa tra una componente più radicale (Melenchon, Sanders o Fratoianni) e una più moderata (i partiti che appartengono al Pse o la maggioranza dei Democratici Usa) ed è in questa seconda componente che potrebbe risuonare l’"effetto Trump”.
I dazi di Trump, come il 25% su Canada e Messico o il 100% sulla Cina, hanno scatenato critiche trasversali. Negli Stati Uniti, figure di sinistra come la senatrice Elizabeth Warren hanno denunciato l’aumento dei costi per i consumatori, difendendo un commercio globale più aperto. Gavin Newsom, governatore molto liberal della California, ha ironizzato sui dazi, definendoli «un boomerang economico». Questa svolta liberoscambista richiama una lunga tradizione della sinistra: nell’Ottocento, i Whig inglesi, ala progressista del Parlamento, erano ferventi liberisti e liberoscambisti, opponendosi ai Tory protezionisti. Secondo un recente e accurato sondaggio condotto da Ipsos per il Chicago Council on Global Affairs, il 74% dei Democratici vede favorevolmente un approccio liberoscambista al commercio internazionale, contro il 34% dei Repubblicani, un vero ribaltone rispetto al passato. L’87% dei Democratici, addirittura pensa che il commercio internazionale sia «una buona cosa» per il proprio standard di vita e per i consumatori e l’84% che sia un bene per l’economia americana. Adam Smith e David Ricardo sarebbero deliziati. L’acquisizione del 10% di Intel tramite i fondi del Chips Act ha diviso la sinistra americana. Bernie Sanders ha lodato l’intervento statale per proteggere l’industria strategica, ma il senatore Mark Warner ha avvertito che «mina la concorrenza e l’innovazione». Newsom, con sarcasmo, ha twittato: «Trump azionista di Intel? Sembra un remake del film Wall Street, ma senza il fascino» e ha pubblicato una spassosa caricatura di Trump, vestito con la divisa di Stalin con lo sfondo della bandiera rossa con falce e martello, a seguito della notizia che l’amministrazione ha intenzione di acquistare partecipazioni in colossi della difesa come Lockheed Martin, parlando di Donald come il «Glorioso Leader» della Repubblica Socialista degli Stati Uniti. Critiche simili si sono levate dall’ex segretario al Tesoro di Clinton e consigliere economico di Obama Larry Summers. Gli attacchi di Trump alla Federal Reserve, con proposte per ridurne l’autonomia, hanno spinto la sinistra a difendere l’indipendenza della banca centrale. Janet Yellen ha sottolineato che «una Fed autonoma è essenziale per la stabilità economica». Persino Alexandria Ocasio-Cortez ha evidenziato il ruolo della Fed nel contenere l’inflazione, che colpisce i più deboli. Questo consenso richiama il valore della meritocrazia istituzionale, dove competenza e indipendenza prevalgono sulle interferenze politiche. Tuttavia, il ruolo della banca centrale indipendente e baluardo contro l’inflazione è sempre stato patrimonio culturale di liberali e conservatori, non di certa sinistra per la quale è la politica che prende le decisioni.
A prescindere dalle posizioni politiche è interessante notare come il milieu intellettuale progressista stia avendo dei ripensamenti. Noah Smith, noto economista liberal (all’americana, quindi di sinistra) molto seguito sui social (360.000 follower su X) ha recentemente pubblicato vari articoli di “scuse” nei confronti dei liberisti. Due guru del giornalismo Usa, Ezra Klein e Derek Thompson, hanno pubblicato il bestseller Abundance in cui propugnano un’«economia dell’offerta progressista». Ricordiamoci che l’economia dell’offerta, che dà importanza alla concorrenza e alla libertà delle imprese di offrire prodotti, fu il vessillo inalberato da Ronald Reagan.
È presto per dire se siamo in vista di un vero e proprio cambiamento radicale come quello che quasi 30 anni fa Tony Blair fece accettare al Labour Party. Però ai lettori italiani non fa male ricordare che i socialisti Fabiani inglesi del XIX secolo, Sidney e Beatrice Webb, H.G. Wells (si, l’autore della Guerra dei Mondi e della Macchina del Tempo) e George Bernard Shaw erano convinti fautori della meritocrazia come mezzo di liberazione delle masse. Esattamente come far nominare dirigente del maggior partito della sinistra italiana il proprio rampollo, in cambio dell’appoggio a un candidato senza alcuna esperienza amministrativa a presidente di un importante ente locale.