Corriere della Sera, 1 settembre 2025
A Firenze si corra la Coppa Cobram fantozziana
Matteo Sarti ci ha provato: sabato sera ha tentato di darsi malato facendo l’accento svedese al telefono, ma il padre, Roberto, lo ha scoperto subito: «Matteo sei tu? Dai, preparati». E così ieri mattina a Firenze c’era anche il trentenne assicuratore, occhialoni da ciclista novecentesco, pronto alla partenza della Terza Coppa Cobram, organizzata dall’associazione Conte Mascetti.
Basterebbe quest’ultima frase per raccontare la corsa più sgangherata dell’Estate Fiorentina, diretta discendente di uno degli episodi più indimenticabili della saga di Fantozzi, ma non si può dire a questi sessanta iscritti, arrivati da tutta Italia fino a piazzale Michelangelo. «Non scherziamo, Fantozzi è una fede», dice Roberto Sarti, padre di Matteo, che nella vita fa il commercialista ma oggi è quel giorno dell’anno in cui si presenta così: «Piacere, ragionier Sarti». E in effetti si è vestito come si vestì il ragionier Filini quando il terribile Visconte Cobram, Megadirettore Ereditario della Megaditta (Dottor Ing. Gran Mascalzon. di Gran Croc) organizzò la competizione ciclistica riservata agli «inferiori», cioè agli impiegati.
E se ieri a Firenze si sono dati appuntamento cinquantenni da Reggio Emilia, quarantenni da Fabriano, imprenditori da Prato e avvocate da Firenze qualcosa vorrà pur dire: Fantozzi compie mezzo secolo (il primo film è del 1975), ma certe cose non appassiscono. Come per esempio il «Ritmo, ritmo!» che Francesco Billi, di professione postino, ripete nel suo perfetto costume da Filini: pantaloni alla zuava, berretto e occhialoni. Prima di lanciarsi in testa alla truppa, promette: «Ho vinto due Coppe Cobram per il miglior costume, vincerò anche questa» e così si gioca l’asso, una meravigliosa «lingua felpata» che gli esce dalla bocca come avvenne al ragionier Fantozzi mentre scalava la tragica Cima del Diavolo.
Ma la gara è durissima. Duccio Gerli, imprenditore pratese, ha innestato un fiasco di vino sulla bici, omaggio alla mitica flebo che fecero a Filini quando arrivò in sala mensa in barella dopo aver corso in bici fino a Pinerolo per ordine del Visconte Cobram. E quando Alessandro Siviero, designer torinese, compare con la maglietta con la scritta «I Love Pinerolo», verrebbe da chiamarlo Puccettone. Gli si vuole bene, soprattutto quando racconta che la bici se l’è costruita da solo, ispirandosi un po’ a Filini e un po’ a Francesco Baracca, re dell’aviazione. Il punto è che qui quando spunta un tricolore non si pensa tanto ai patrioti quanto all’Italia di «Sveglia e caffè, barba e bidet», quella del posto fisso e dei sogni piccoli. Eppure, qui un grande sogno erotico c’è: la signorina Silvani, in micro-short e bretelle, che elargisce bacetti e boccucce come caramelle.
Tutto è pronto per la partenza, ci sono Riccardo Minetti, l’organizzatore, Letizia Perini, assessore allo sport, e ad aprire la corsa hanno chiamato un campione vero, Andrea Tafi, vincitore del Giro delle Fiandre e della Parigi Roubaix. Billi avanza abbozzando un sollevamento pesi con la bici, omaggio all’ortodossia filiniana, mentre c’è chi reclama la «bomba», miscela di «aspirina, cocaina, franceschina e peperoncino di Cayenna». E ci pensa Massimo Soldi, dipendente Inps, che sospira: «Non ho dovuto chiedere permesso alla Megaditta perché è domenica». Anche Emanuele (curatissimo nei dettagli: calzino beige e toppa verde sulle scarpe) ha la «bomba» bene installata sulla bici, non si sa mai: a metà tragitto, sul Lungarno, potrebbe comparire la tempesta o la nuvoletta di Fantozzi. Tre i giri, discesa, lungofiume e risalita da Villa Cora, ma Giacomo Balducci da Fabriano, professione nutrizionista, e berretto alla Calboni, non ha dubbi: «Qualcuno non ne farà nemmeno uno». E solo a questo punto che si realizza una cosa: qui manca il carro funebre, che nella gara cinematografica accompagnava silente la corsa, accogliendo di volta in volta le vittime della Cima del Diavolo, mentre il macabro pallottoliere del Visconte scorreva inesorabile. Ma si parte. Ovviamente al via tutti a terra in un’ammucchiata sferragliante di catene e ruote, mentre da lontano arriva l’eco della voce cavernosa di Cobram: «Smidollati!».
Qui si ride, è vero, ma la tragedia fantozziana è tutta nelle parole della Pina, che sussurra a Mariangela, vedendo il ragionier Ugo arrancare alla fine: «Vedi, papà è ancora vivo». Perché quello che Paolo Villaggio ha disegnato, in fondo, è un mondo di sopravvissuti: all’oppressione del potere arrogante, alla corsa ciclistica impossibile, a una vita matrimoniale angusta, alla vita bassa, insomma. E la Pina, a piazzale Michelangelo, c’è davvero, anzi corre. La famiglia Fani gareggia al completo: Gabriele (Fantozzi), Susanna (Pina) e i figli Sofia (Mariangela) e Neri (Filini). Gabriele ricorda benissimo il giorno in cui ha visto per la prima volta al cinema «Fantozzi contro tutti»: «Era il 1980 ed era vietato ai minori di quattordici, ma io trovai un cinema che aggirava il divieto. Ricordo che in sala c’era una donna incinta. Si sentì male per le risate, la portarono via in barella». E da allora ha cresciuto i figli a pane e Amici miei e a pasta e Fantozzi. Ovviamente Gabriele parte «alla bersagliera», stando bene attento che il sellino sia agganciato alla bicicletta. Quasi per ultimo parte un ibrido tra Filini e Calboni, tuta aderente azzurra e occhialoni. Si chiama Ascanio Arioti Branciforte e quasi sottovoce confessa le proprie origini nobili e siciliane. Quasi avesse sentito un sottile richiamo, si avvicina a lui la Contessa Mazzanti Vien Dal Mare, cappello e foulard. L’orchestra fiorentina Quarto Podere intona la Ballata di Fantozzi e subito torna in mente il capodanno anticipato, quello di «Ritmo, ritmo» di Filini.
Ma il pezzo forte deve ancora arrivare. Perché quando – più o meno tutti al terzo giro, per fortuna – tornano a piazzale Michelangelo, nel vicino Bar Frida è stata ricreata la Trattoria al Curvone, dove (per fortuna su due ruote e non volando) arrivano i corridori, sulle note di «Ma che ce ‘mporta se ce va storta». Il menù prevede frittatona di cipolle e spaghetti alla Montecristo. Si mangia, si canta e si cattura una voce dal forte accento toscano: «Ma noi non si era così bischeri quando s’aveva vent’anni, stiamo recuperando adesso a cinquanta». Giusto. Anche perché se chiedete chi ha vinto nessuno sa rispondere: tutti hanno vinto, tutti hanno perso. Come noi, cresciuti con gli occhi che brillano quando sentiamo dire «Alla bersagliera!».