Corriere della Sera, 1 settembre 2025
Cecilia Sala su Israele e la sua prigionia in Iran
Cecilia Sala, perché il suo nuovo libro si intitola I figli dell’odio?.
«Sono affezionata, nel mio lavoro, agli scontri generazionali nei luoghi in cui vado. A Hebron ho visto le ragazze delle scuole medie con uno striscione che diceva: se tua moglie e i figli che ti ha dato non sono ebrei, cacciali di casa. L’idea che ragazze di tredici anni possano avere questa preoccupazione mi ha molto colpito».
Sono le ragazze di Kiryat Arba, la città di Ben-Gvir, la capitale dei coloni più duri.
«Uno degli ostaggi a Gaza è di Kiryat Arba; e quella di Kiryat Arba è l’unica comunità a chiedere che non venga liberato. Per ragioni evidenti, che nessuno più di me può capire, tutti stanno facendo di tutto per riportare a casa i loro cari, ma a Kiryat Arba no: il “loro” ostaggio deve morire per la causa. Pensano che riconquistare Gaza sia più importante che salvarlo».
Lei racconta quasi una mutazione di una parte del popolo israeliano.
«I giovani non conoscono i palestinesi, anche se vivono appiccicati a loro. Sono decisamente più a destra non solo dei fondatori laburisti, ma dei loro padri, che credevano ai due Stati. In Iran i giovani sono più liberali dei padri. In Israele molti giovani sono più incattiviti dei genitori quando avevano la loro età. Negano quello che sta accadendo a Gaza. È vero che anche i palestinesi negano quello che ha fatto Hamas. Ti dicono: “Non è possibile che abbiano ucciso donne e bambini, perché il Corano lo vieta”».
Lei ha intervistato un ragazzo palestinese cui un cecchino ha amputato la mano destra con una fucilata.
«È una punizione molto diffusa, di una crudeltà quasi perversa, anche se efficiente dal loro punto di vista: un maschio senza la mano destra non potrà mai fare il miliziano. Ma l’odio che monta è qualcosa di indelebile. Ogni minuscola azione, anche solo accenderti una sigaretta, ti ricorda quello che hai subito».
Anche i palestinesi sono molto cambiati.
«Ho conversato a lungo con Firas, un ex combattente condannato a quindici anni di carcere. Non ne ha fatto neanche uno: lo liberarono dopo gli accordi di Oslo. Firas ha cresciuto il figlio Samih a Jenin, la capitale della resistenza palestinese, spiegandogli che sconfiggere Israele è impossibile, che l’unica via è la politica, che senza la diplomazia lui non sarebbe neppure nato perché il padre sarebbe stato chiuso in galera. Samih è morto a 19 anni, in un’imboscata tesa a una pattuglia israeliana. La lezione del padre non gli era servita a nulla».
Lei scrive che a Gaza non vogliono più Hamas, ma in Cisgiordania Hamas è molto più popolare di Fatah.
«Lo dicono i sondaggi palestinesi: nessuno vuole essere governato da chi è al governo. A Gaza sono consapevoli che Hamas ha tirato loro addosso i devastanti bombardamenti israeliani. Ma in Cisgiordania il governo di Fatah è considerato complice dell’occupazione. Il poliziotto buono di Israele».
Lei descrive una società israeliana quasi sull’orlo di una guerra civile.
«Non penso la vedremo, perché la parte di Israele che crede nello Stato di diritto farà di tutto per evitarla. Ma l’altra parte, quella estremista e messianica, per evitarla non fa nulla: l’ultima volta che sono stata in Cisgiordania, a fine luglio, i soldati israeliani portavano il passamontagna con 40 gradi non per il timore di rappresaglie palestinesi, ma per paura di rappresaglie da parte dei “loro” estremisti».
E in Iran cosa accadrà? Il regime può cadere?
«In questo momento non posso tornare in Iran. Sono sicura che prima di andare in pensione ci tornerò. E nel frattempo la Repubblica islamica sarà caduta».
Come fa a dirlo?
«Non sarà facile, e non sarà domani; ma il regime cadrà. Perché la grande maggioranza degli iraniani è giovane. E la grande maggioranza dei giovani è contro il regime. Certo, non hanno armi. L’Iran non è la Siria o la Libia, non è diviso tra tribù e fazioni armate. Le armi le hanno i pasdaran. Anche se Israele ammazza i capi militari, non c’è un’opposizione organizzata per annientare 200 mila pasdaran. Che però sanno di essere deboli. Sanno che prima o poi perderanno il potere. Sanno di aver perso la nuova generazione. Anche se prima di accettarlo si batteranno».
Nelle ultime pagine del libro, lei racconta per la prima volta la sua detenzione nel terribile carcere di Evin. Pare un racconto kafkiano.
«Sto registrando un podcast per Chora seduta sul letto. Un pasdaran con cui avevo appuntamento mi ha appena detto che non può incontrarmi, perché in città c’è troppo smog. Intuisco che qualcosa non torna. Bussano alla porta. Rispondo che non ho bisogno di nulla. Bussano ancora. Apro. Capisco subito quello che stanno per farmi. Mi prendono i soldi, il passaporto, il telefonino. Mi incappucciano. Mi portano via. E mi rendo conto della cosa più terrificante».
Quale?
«Non avere nessun potere sul mio destino. La consapevolezza che non conti più nulla, non puoi fare nulla per te stessa, sei nelle mani di persone di cui non ti puoi fidare, e l’unica speranza è che nel tuo Paese si diano da fare per te».
Sul telefonino lei aveva molti contatti, anche quelli con i dissidenti.
«Ma erano contatti protetti, che non sono riusciti a scoprire. In ogni caso, sapevo che l’unico modo per salvarmi era negare tutto. E non confessare nulla. Anche se non sapevo quanto sarei stata prigioniera – settimane? Mesi? Anni? —, e quanto avrei potuto resistere».
Com’è l’ingresso a Evin?
«Ti spogliano. Devi fare il solito squat nuda. Sul pavimento sotto il metal detector sono dipinte le bandiere americana e israeliana, che devi calpestare. Gli uomini vengono picchiati. Tutti, sistematicamente. Le celle per gli interrogatori sono chiuse e insonorizzate, ma a volte vengono aperte, e senti le grida dei torturati. Anche le donne a volte vengono bastonate. A me non è accaduto. Ma sul muro della mia cella c’era una grande macchia di sangue. Versata dalla donna che era lì dentro prima. Non so se fosse stata picchiata, o si sia ferita da sola».
Da sola?
«Quando erano aperte sia la feritoia della mia cella, sia la feritoia della cella di fronte, potevo non vedere ma sentire la mia compagna di prigionia. E la sentivo prendere la rincorsa, per quanto si possa fare in un loculo di due metri, e gettarsi con tutte le sue forze con la testa contro la porta blindata. Sperando di fracassarsi il cranio e morire».
Cosa c’era nella cella?
«Nulla. Assolutamente nulla. Non un letto, non un materasso, non un cuscino. Solo un secchio di acciaio per i bisogni, in alternativa al cesso alla turca dove talora mi portava la guardia. Nient’altro, tranne la macchia di sangue. E nulla mi hanno lasciato. Né gli occhiali, né le lenti a contatto. Senza lenti io vedo davvero male. Ma non avevo libri da leggere. Ho chiesto un Corano in inglese, in una prigione islamica avranno pure un Corano, ma non me l’hanno dato».
Com’è la vita in prigionia?
«È la parte più difficile da spiegare. Il tempo è iperdilatato: ti sembra sia passata un’ora, ma sono passati solo dieci minuti. Giorno e notte non esistono. La luce è sempre accesa, quindi non riesci a dormire. È tutto studiato per spezzarti e ottenere da te quello che vogliono. Una condizione predisposta per farti impazzire, per farti venire i pensieri peggiori, per indurti a dubitare di tutto e tutti. Non hai niente con cui distrarti. Puoi solo addentrarti nelle tue paure. Una tortura bianca».
Lei conosceva Evin dai racconti che le avevano fatto.
«Sì. Sapevo la storia della fotoreporter iraniana ammazzata di botte. Tante donne vengono uccise in Iran. All’epoca l’attuale presidente, Masoud Pezeshkian, un riformista, era ministro della Sanità. La magistratura islamica disse che la prigioniera aveva avuto un infarto. Pezeshkian rispose: “Non ci credo, vado io a farle l’autopsia”. Il presidente è un cardiochirurgo. Concluse: “Non è un infarto, le hanno spaccato la testa”. Insomma, è uno che vede i crimini del sistema, talora ha la forza di denunciarli, ma alla fine al sistema rimane dentro».
Da lei, Cecilia, cosa volevano?
«Che confessassi di essere una spia. Se dev’essere scambiata con qualcuno, una spia vale più di una giornalista. Ma io conoscevo la storia dell’iraniano di cittadinanza svedese che, indotto dopo due anni a confessare il falso, da otto anni è rinchiuso a Evin nel braccio della morte, ridotto a un fantasma. Certo, io ho dovuto resistere soltanto ventuno giorni. Se i tuoi sono bravi a liberarti, ce la fai. Per questo io sono stata fortunata. Ma se ti spezzano, e tu confessi, allora è finita».
Come sono gli interrogatori?
«Sono molto bravi, dal loro punto di vista. Finti premi, finte speranze, affinché poi la batosta faccia più male. Ti illudono, e ti terrorizzano».
Quale lingua parlano?
«Inglese. Talora italiano. Uno parlava italiano molto bene, certo era stato nel nostro Paese».
Il momento peggiore?
«Quando mi hanno fatto uscire dalla cella, bendata e incappucciata come sempre, aggrappata al bastone della guardia per non cadere, e mi hanno tolto la benda e il cappuccio per farmi vedere una gru: “È quello che facciamo alle spie”. È una cosa che sappiamo tutti, ma le assicuro che vedere la gru delle impiccagioni lì, nel cortile del carcere, è stata durissima. Ho avuto una crisi di panico, e per una volta, anche se mi ero ripromessa di non farlo mai, ho accettato di essere sedata».
Ha potuto parlare con l’Italia?
«Una telefonata con mia madre. È stata brava. Sapendo che non potevo parlare, mi ha fatto tre domande chiuse, cui rispondere con un sì o con un no: hai un letto? No. Hai un materasso? No. Hai un cuscino? No. Erano le preoccupazioni di una mamma. Sono diventate tre notizie, un modo per raccontare la mia condizione, per sensibilizzare l’opinione pubblica. Quando i carcerieri l’hanno saputo, si sono arrabbiati, mi hanno punita. Ma ormai era successo».
Non ha mai trovato un momento di umanità?
«Un giorno una guardia, una donna, mi ha detto: “Sei una brava prigioniera”. Mi sono chiesta: come sono le cattive prigioniere? Quelle che urlano, piangono, si fanno del male? Per quanto tempo posso riuscire a essere una brava prigioniera, senza perdere la testa pur non dormendo, con la luce sempre addosso, sempre più terrorizzata? Così mi sfidavo nei miei pensieri: “Cecilia, per quanto tempo sarai una brava prigioniera?”».
Ma era una pantomima, o no? Sapevano di avere in mano una giornalista da scambiare con un prigioniero iraniano, o qualcuno credeva davvero che lei potesse essere una spia da impiccare alla gru?
«Tutti i regimi deboli sono paranoici. Io sono stata presa come ostaggio. Ma questo posso dirlo ora. Allora non sapevo se mi avevano arrestato per qualcosa che avevo scritto – “pubblicità contro la Repubblica islamica”, per questo arrestano i giornalisti iraniani —, o se davvero potessero pensare che fossi una spia. Una volta che ti hanno in pugno, vagliano tutte le ipotesi, e cercano di ottenere tutto quello che possono».
C’è una pagina molto dolce nel suo libro. La storia di un gatto.
«È stato l’unico contatto con un essere vivente. Nessuno mi ha mai stretto la mano. Ma un giorno, camminando bendata e incappucciata in cortile, ho sentito contro le caviglie questo gattino, che miagolava, faceva le fusa, si strusciava. La vibrazione di quel corpicino non minaccioso fu una sensazione molto piacevole. Un microscopico gesto d’affetto. Lo intravidi, mi pare fosse fulvo, quasi rosso. Così, all’uscita dall’interrogatorio più duro, durato dieci ore, dopo l’attacco di panico e ancora intontita dalla sedazione, chiesi se potevo avere in cella il gatto. Mi risero in faccia. Adesso però a casa ho un gatto rosso».
Com’è stato uscire?
«Ti dimentichi come sono fatte le cose. Un effetto strano: il cortile, le luci naturali, le automobili, l’aeroporto...».
Il libro è dedicato a quelli che l’hanno riportata a casa. Quindi anche a Giorgia Meloni?
«Il libro è dedicato ai palestinesi, agli israeliani, agli iraniani che mi hanno accompagnata per i luoghi che loro chiamano casa, dandomi fiducia. E poi è dedicato a coloro che hanno riportato me a casa, salvandomi la vita, con un’operazione formidabile, difficile, urgente. Si sapeva di una guerra imminente tra Israele e Iran. I detenuti che, come me, erano a Evin nelle celle di massima sicurezza, sono spariti. Alcuni sono morti. Sono morti anche interlocutori con cui si stavano discutendo scambi di prigionieri. Sono molto grata a tutti quelli che mi hanno riportata a casa: i servitori dello Stato che sono venuti prendermi a Teheran, e Meloni».
Tornerà in Iran?
«La mia previsione è che tornerò. Non ora».
Che fine ha fatto la prigioniera che sbatteva la testa contro il muro?
«Non lo so. Né lo saprò mai, perché non ho mai conosciuto il suo nome».