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 2025  agosto 30 Sabato calendario

Intervista ad Andrea Vitali

Andrea Vitali, come sta? 
«Così». 
Perché? 
«Sono andato in pensione». 
Da medico, spero, non da scrittore. 
«Da medico, certo. Termina un cammino iniziato ormai più di trent’anni fa».
 E che sensazione si prova? 
«Una piccola fine». 
Sembra incredibile: Andrea Vitali ha in realtà smesso di fare il medico dal 2014, per dedicarsi solo alla (prolifica e piena di successo) carriera di scrittore. Eppure oggi, dopo quasi settanta romanzi e oltre 4 milioni di copie vendute, dire formalmente addio a una parte della sua vita lo turba. Ma per capire questo autore coltissimo e di poche parole, amante dei classici e dell’umanità di paese, bisogna venire qui, nella sua Bellano, in un mattino dell’estate lecchese. Vitali è Bellano, è profondamente innervato nei suoi vicoli e nei suoi bar, conosce (e saluta) uno per uno tutti i tremila abitanti («Come medico condotto, li ho visti nascere e invecchiare»), di tutti conosce timori e tremori. Questo leggero turbamento di fronte ai primi assegni dell’Inps, allora, non può che spiegarsi in un modo. 
Forse fare il medico ha nutrito la sua scrittura più di quanto lei si sia mai reso conto? 
«Ma l’ho sempre saputo, sin da quando mi sono specializzato in psichiatria. Era la psichiatria degli Anni Ottanta, rivoluzionaria e piena di idee. Studiavo a Milano e ogni giorno prendevo treni e passanti urbani, senza contare i chilometri a piedi. Però la mente umana mi affascinava. Ho ancora in casa un Maigret che ho letto e sottolineato assieme a un uomo affetto da disturbo psicotico. Glielo leggevo ad alta voce, ma oggi penso che per lui quelle fossero parole vuote». 
Lei aveva solo diciassette anni quando sua madre morì. 
«Ricordo la morte di mia madre come un sogno difficile, ero troppo giovane per provare un dolore maturo, da adulto. Nemmeno mi dissero che cosa aveva, scoprii dopo che si trattava di un tumore. Ma rammento le ultime parole che mi disse, prendendomi la mano: “Andrea, tu s’ stupd”, “sei stupido”. Ho capito molto tempo dopo che cosa intendesse: era un monito a non perdermi in sogni letterari senza sostanza, a rimanere concreto, anche nella scrittura». 
Come reagì suo padre? 
«Come un impiegato comunale che si ritrova solo e con sei figli da crescere». 
Divenne autoritario? 
«Intransigente, anche se oggi penso che fosse un modo per dissimulare la profonda depressione che qualche volta lo inchiodava al letto fino a tardi. Sono cresciuto con le mie zie, tre zitelle che ho amato molto e che ho fatto rivivere in alcuni miei libri, come Le tre minestre». 
Non c’era tempo per la scrittura. 
«No, c’era bisogno di concretezza, come aveva intuito mia madre morendo. Ogni volta che davo un esame, mio padre incalzava: “Bene, quando sarà il prossimo?” C’era fretta di crescere, papà ci voleva adulti. Ma io amavo leggere, scrivere, mi cimentavo in segreto nella poesia. Pensi allora come mi sentii quando, partito militare, mi ritrovai nella Folgore, brigata d’assalto».
Oddio, come Vannacci... 
«Qualche assalto sul Carso l’ho fatto anche io, sebbene i superiori capirono la situazione e mi assegnarono subito dei compiti da medico». 
Però suo padre ha fatto in tempo a conoscere il suo successo letterario: muore nel 1997, l’anno dopo la sua vittoria al Premio Chiara. 
«Il dolore per la morte di mio padre fu nitido, lancinante. Lo accompagnai io in ospedale, aveva male al petto. Ero convinto che ce l’avrebbe fatta. Ma poi il suo cuore si ruppe e io mi ritrovai più che mai “figlio”, perché nell’ansia di crescere forse non ero cresciuto davvero». 
Forse è per questo che il suo fidanzamento con Manuela, la donna che sarebbe diventata poi sua moglie, all’inizio è stato difficile? 
«Sì, lei mi piaceva ma io facevo il cretino in giro. Forse perché volevo riprendermi quel pezzo di spensieratezza che il senso di responsabilità germogliato dopo la morte di mia madre aveva soffocato. Lei però, un giorno, mi mise di fronte alla realtà, dicendomi chiaramente che mi dovevo decidere. Allora sa che cosa feci?» 

Che cosa? 
«Feci lo scrittore. Cominciai a scriverle lettere lunghissime, che lei conserva ancora. Lettere in cui raccontavo i miei timori, le confidavo quello che mi spaventava e quello che invece sognavo. Vede, non sapevo farlo in altro modo: per essere me stesso dovevo scrivere. Fu allora che capii in modo lampante quello che volevo fare». 
E così, a meno di quarant’anni, lei cominciò la vita parallela di medico e autore. 
«Sì, l’esordio fu a 34 anni con Il procuratore». 
Poi verranno «Un amore di zitella», «Una finestra vistalago», «La signorina Tecla Manzi» e tanti altri romanzi entrati nel lessico famigliare degli italiani. Come si fa a raccontare le vicende umane di un borgo senza cadere nel pittoresco o, peggio, nella macchietta? 
«Mi rileggo a voce alta. È l’unico modo. Oppure rileggo tutto a mia moglie. Quando mi chiedono se Manuela legge i miei libri, rispondo sempre che li legge prima che escano». 

E suo figlio Domenico legge i romanzi di Andrea Vitali? 
«No, penso che non li abbia mai letti». 

Ma lui studia filosofia neoplatonica. 
«Ne sono orgoglioso. Dom sta svolgendo un dottorato e quindi ha uno stipendio, ma sono fiero di avergli potuto pagare un affitto a Milano. Sa, di questi tempi c’è da rallegrarsene...». 
Vitali, sia sincero: lei oggi è ricco? 
«Ricco no, ma benestante sì. Gliela racconto tutta: quando ricevetti un anticipo molto consistente per Una finestra vistalago parlai con mia moglie e decisi di smettere di fare il medico, lasciando spazio solo alla scrittura. Ho continuato a pagare le tasse della professione, anche se – chissà perché – ero convinto che la pensione non me l’avrebbero data mai. Ma, vede, io non ho barche, né ville, né abiti firmati. Io e Manuela ci concediamo qualche fine settimana fuori, una cena ogni tanto. Tutto qui, non mi serve altro, non ne sento il bisogno». 

Lei è lontano dal cosiddetto «giro degli scrittori», perché? 
«Perché si vive benissimo quando ci si mette al riparo da invidie, competizioni, frecciate». 
Ma si perde qualcosa? 
«Forse un po’ di visibilità, ma che cosa è la visibilità davanti alla serenità? Nulla». 
Camilleri, però, lo ha incontrato. 
«Sì e quando mi trovai di fronte a lui non riuscii a pronunciare una frase coerente». 
Ed è amico di Sveva Casati Modignani. 
«Qualcuno lo frequento, dai». 
Quando ha chiesto a Manuela di sposarla? 
«Sto per dire una cosa presuntuosa». 
Concesso. 
«Prima di chiederlo a lei, lo annunciai a papà a e alle zie. Andai da loro e dissi: “mi sposo”». 
Senza essere sicuro che Manuela avrebbe accettato? 
«L’ho premesso: sarò presuntuoso». 
Il più grande «no» che lei abbia mai detto? 
«A un editore concorrente del mio, il quale mi propose di parlare male di Garzanti. Che resta la mia casa editrice».
 
Ci sono scrittori, oggi, che sui social completano la propria identità, magari con commenti, interventi, testimonianze. 
«Guardi, non so nemmeno che cosa siano i social, non saprei da dove cominciare. Ma non è snobismo, è che non mi interessano». 
Che cosa la fa felice oggi? 
«Leggere i classici. Euripide, Omero: ci sono dei passaggi così semplici eppure profondi, eleganti e senza tempo. Sto bene con Alcesti, una tragedia che ha risvolti comici, come quando compare Eracle che si ubriaca a un funerale». 
Nei suoi romanzi si ritrovano i personaggi tipici del paese, dall’appuntato alla perpetua. Come, nel corso degli anni, gli abitanti di Bellano hanno ispirato le sue storie? 
«Intanto nessuno si è mai lamentato per incursioni nella privacy, e questo per me è tanto. E poi, certo, quasi ogni giorno ci sono persone che mi portano documenti d’epoca, atti di processo, lettere e fotografie. Magari sono al bar e c’è chi passa e ammonisce: “Andrea, mi raccomando scrivi un bel libro, eh”. Tutto questo mi fa felice perché so di appartenere a questo mondo. Ognuno di noi trova pace quando capisce di non essere una monade, bensì un semplice ingranaggio di un sistema più grande». 
Posso chiederle se la depressione di suo padre ogni tanto è venuta a visitarla? 
«Sì, è successo e ancora oggi mi sento sensibile a certe “ondate”, chiamiamole così. Qualche anno fa, però, decisi di chiedere aiuto a un amico psichiatra. Avendo studiato la mente umana, so bene che l’errore più grave è quello di negare la depressione, riducendola a un malumore passeggero. Mi svegliavo alle cinque del mattino, scendevo in cucina a fumare oppure andavo a passeggiare in riva al lago. Sentivo che non ero a posto. Feci sei mesi di terapia – anche farmacologica – e poi le cose migliorarono». 
C’è un libro, dei suoi, che le piacerebbe diventasse un classico? 
«Certo, è Pianoforte vendesi, una storia in cui i vivi e morti finiscono per respirare la stessa aria un giorno l’anno. In fondo, nei borghi, avviene proprio questo, perché quelli che non ci sono più sono spesso evocati, nel bene e nel male, nel ricordo o nella preghiera. Un libro che piacerebbe a mio figlio, anzi forse ne ha letto una parte». 
C’è stato un momento in cui lei ha smesso di essere «figlio» e si è scoperto «padre»? 
«Sì, lo ricordo. Domenico era poco più di un neonato, Manuela era uscita a fare la spesa e io presi in braccio il bambino, mentre ascoltavamo Un oceano di silenzio di Battiato. A un certo punto il piccolo appoggiò la testa sulla mia spalla in un moto di totale abbandono. Piansi in silenzio. E ancora oggi, raccontandolo, mi commuovo».