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 2025  settembre 01 Lunedì calendario

Lo stato sociale è finito?

Un nuovo inizio o declino? Lo stato sociale è a un bivio storico, che richiede serietà di analisi e coraggio nelle azioni di governo. Questo tema cruciale per il futuro dell’Europa è stato al centro di un importante convegno internazionale (Espanet 2025) conclusosi venerdì scorso nell’Università Statale di Milano.
Le sfide da affrontare sono formidabili. Da un lato, l’invecchiamento della popolazione, la stagnazione secolare, gli effetti occupazionali delle transizioni energetica e tecnologica accrescono la vulnerabilità sociale e al tempo stesso erodono le basi demografiche ed economico-finanziarie su cui hanno tradizionalmente poggiato i sistemi pubblici di protezione. Dall’altro lato, l’interdipendenza profonda tra sistemi, originata dalla mondializzazione, provoca l’insorgere di shock intensi e improvvisi: pensiamo alla crisi dell’euro, alla pandemia, all’impennata dei costi energetici, ai disastri dovuti al cambiamento climatico. Le conseguenze di queste scosse possono raggiungere proporzioni catastrofiche, mettendo a dura prova le capacità di risposta degli Stati. Nei due anni di pandemia l’Italia ha speso 20 miliardi aggiuntivi per la sanità e più di 100 per i «ristori». L’emergenza immediatamente successiva, la crisi energetica, ha richiesto ulteriori stanziamenti per 80 miliardi.
Risorse calanti, bisogni crescenti, rischi emergenti: una combinazione che non può reggere.
Come ha recentemente affermato il cancelliere Merz, le risorse che produciamo non bastano più per pagare il welfare. Come riallineare gli obiettivi e gli strumenti del welfare alla nuova struttura di rischi e bisogni?
Lo stato sociale nacque in Europa per combattere i cinque e minacciosi «giganti» identificati da Lord Beveridge nel 1942: povertà, malattia, ignoranza, disoccupazione e «squallore» (soprattutto abitativo). Questi rischi non sono scomparsi. E per i ceti meno abbienti (comprese oggi le fasce medio-basse della classe media) è giusto che sia lo Stato a garantire protezione. Ai ceti benestanti potrebbe invece essere chiesta una maggiore compartecipazione ai costi dell’istruzione, della sanità, del consumo energetico. Si noti poi che il catalogo di Beveridge non comprendeva le pensioni, le quali potevano essere finanziate e gestite da fondi occupazionali. In molti Paesi, soprattutto in Italia, è proprio la spesa pensionistica ad assorbire la quota maggiore di spesa sociale, favorendo implicitamente gli alti redditi. L’agenda delle riforme previdenziali non si è ancora esaurita.
Le garanzie pubbliche di protezione presuppongono mercati ben funzionanti che promuovano la crescita. Come diceva di nuovo Beveridge, la logica del profitto può diventare «un cattivo padrone, ma è il miglior servitore che abbiamo». Se ben disegnata, la relazione fra mercato e welfare crea circoli virtuosi di mutuo rinforzo. Il calo delle risorse («ciò che produciamo») è in buona parte dovuto ai colli di bottiglia che ostacolano il mercato (Rapporto Letta) e la produttività (Rapporto Draghi).
Durante Espanet 2025, molti studiosi hanno proposto un rafforzamento di quegli investimenti sociali (in asili, istruzione, formazione, politiche attive del lavoro, conciliazione e così via) che possono generare nel tempo elevati ritorni anche sul piano economico. Opportunamente regolati e incentivati, i mercati assicurativi sarebbero in grado di fornire a costi abbordabili protezioni individuali sia per alcuni piccoli rischi (il pagamento dei ticket sanitari) sia per i rischi catastrofici (disastri naturali, fallimenti finanziari). Gli stessi governi potrebbero dar vita a schemi Ue di ri-assicurazione, volti a coprire l’aggravio straordinario di spesa causato da shock improvvisi (una pandemia, o una crisi che colpisce con particolare intensità i livelli di occupazione o i bilanci aziendali).
Che dire infine in merito al dilemma fra «burro» (il welfare) e «cannoni» (la difesa), ridiventato attualissimo con il conflitto ucraino e la presidenza Trump? Le politiche sociali si svilupparono anche per rafforzare la lealtà e le capacità di resistenza dei cittadini in caso di guerra. In Europa questo nesso si è fortemente indebolito. Nei Paesi in cui la minaccia russa si è fatta più concreta, il legame fra benessere interno e sicurezza esterna si è rapidamente ricostituito: pensiamo a Svezia e Finlandia. La sfida è più difficile in Paesi come l’Italia, meno esposti alla minaccia, meno coesi internamente e culturalmente avversi a qualsiasi tipo di deterrenza. Qui serve innanzitutto la responsabilità dei leader di governo e di opposizione. Nella definizione Nato, le spese per la difesa includono anche le misure di «rafforzamento delle capacità civili». Contro-intuitivamente, l’aumento della spesa potrebbe creare spazio per investimenti in «difesa sociale» (infrastrutture critiche, prevenzione dei disastri, sanità pubblica, formazione digitale e così via), utili non solo per l’economia ma anche per il consenso politico.
Il sentiero è stretto e tutto in salita, certo. Ma senza un incisivo ripensamento delle sue priorità e strumenti, il modello europeo rischia un cedimento di sistema. Le vecchie spettanze sociali perderebbero di valore e di effettività, in un contesto sempre più vulnerabile a turbolenze esogene quasi impossibili da controllare.