La Stampa, 31 agosto 2025
Per un italiano su due le inchieste pesano sul voto. E il 29% pensa che la corruzione sia aumentata
In un sistema democratico, le inchieste giudiziarie rappresentano uno degli strumenti fondamentali per garantire la legalità e la trasparenza dell’azione pubblica. Tuttavia, quando coinvolgono figure politiche di primo piano, queste inchieste assumono inevitabilmente anche un valore politico, influenzando l’opinione pubblica, i media e, in ultima analisi – in determinati casi – le dinamiche elettorali. Il rapporto tra giustizia e politica è sempre delicato e spesso controverso, perché da un lato c’è la necessità di accertare responsabilità penali, dall’altro il rischio di condizionare la volontà popolare oltre modo.
Dalla narrativa – soprattutto made in Usa – gli italiani hanno imparato che il principio costituzionale della presunzione di innocenza – secondo cui ogni individuo è innocente fino a prova contraria – si scontra spesso con la velocità e la spettacolarizzazione degli avvisi di garanzia e dei processi. Una semplice iscrizione nel registro degli indagati, pur priva di valore di colpevolezza, può compromettere la reputazione di un candidato e di conseguenza in caso di elezioni – se “mal giocata” – orientare il voto.
Nei fatti, l’opinione pubblica tende a formarsi ben prima che un processo giunga a sentenza definitiva, rendendo le inchieste uno strumento che può avere effetti politici anche indipendentemente dall’esito giudiziario. In questo contesto, dopo i fatti di Milano e delle Marche che hanno coinvolto personaggi di spicco del centro sinistra italiano, nonché Matteo Ricci candidato del Partito Democratico per la guida della regione, un italiano su due (52,7%) è convinto che potrebbe esserci un effetto capace di condizionare – anche in modo significativo – le elezioni locali principalmente in due modi.
Da una parte un elettore su tre (27,3%) è convinto che se ci fossero nuove indiscrezioni giudiziarie in vista delle elezioni ci potrebbe essere un aumento dell’astensione, mentre per un elettore su quattro (25,4%) si potrebbe palesare una diminuzione del voto relativo proprio al Partito Democratico.
Questi timori scuotono sicuramente gli elettori di centro sinistra, ma non come quelli del centro destra che con una media sopra il 60,0% registrano le percentuali più alte … o forse un po’ ci sperano. Eh, sì perché in questa tornata elettorale ad esclusione del Veneto e della regione Calabria, le altre 4 regioni al voto hanno principalmente una tendenza che vede il centro sinistra avvantaggiato. Solo le Marche sembrano mostrare un certo balance al momento. Se cerchiamo ragioni nella storia possiamo riportare i casi più eclatanti. Forse quello più emblematico è l’inchiesta “Mani Pulite”, esplosa nei primi anni ’90 in Italia. L’indagine mise in luce un sistema diffuso di corruzione – definito “Tangentopoli” – che coinvolgeva l’intero arco politico, soprattutto i partiti di governo come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano. Gli effetti politici furono devastanti: la classe dirigente della Prima Repubblica fu spazzata via e nuove formazioni politiche, come Forza Italia di Silvio Berlusconi, emersero cavalcando proprio il discredito verso i partiti tradizionali.
Negli Stati Uniti, il caso Watergate rappresenta un esempio clamoroso di come un’inchiesta giudiziaria possa cambiare le sorti della politica nazionale. L’indagine sullo scandalo di spionaggio contro i Democratici, condotta da giornalisti e poi dalla giustizia, portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon nel 1974. Fu un evento spartiacque nella storia americana, che rafforzò il ruolo dei controlli istituzionali e accrebbe la sfiducia dei cittadini nei confronti della politica. E infine in Francia durante la campagna presidenziale del 2017, François Fillon, candidato del centrodestra ed ex primo ministro, fu travolto da un’inchiesta per presunti impieghi fittizi a favore della moglie. Nonostante fosse inizialmente favorito nei sondaggi, l’indagine compromise irrimediabilmente la sua corsa all’Eliseo, contribuendo all’affermazione di Emmanuel Macron.
Il caso è un emblema di come, anche in assenza di una condanna, un’inchiesta possa determinare il destino politico di un candidato. Non sempre, tuttavia, un’inchiesta si traduce in un danno elettorale. In alcuni contesti, specialmente quando c’è un forte radicamento territoriale o una percezione di accanimento giudiziario, l’effetto può essere addirittura opposto: il politico sotto inchiesta può uscirne rafforzato, presentandosi come vittima di un sistema o di un “complotto”. È il caso, ad esempio, di Silvio Berlusconi, che per anni ha mantenuto un ampio consenso elettorale nonostante i numerosi procedimenti giudiziari, facendo leva sul conflitto tra poteri dello Stato e sulla mobilitazione del suo elettorato. Per un cittadino su due (52,3%), secondo l’indagine di Only Numbers, rispetto a 10 anni fa la corruzione politica in Italia è rimasta invariata: sempre molto diffusa. Per il 28,9% è addirittura aumentata.
Insieme a Forza Italia sono gli elettori del Partito Democratico e di Alleanza Verdi e Sinistra italiana a denunciarlo insieme a un sostenitore su due del Movimento 5 Stelle (47,5%), convinto che negli ultimi tempi ci sia stato un importante aumento della corruzione. Le inchieste giudiziarie rappresentano un elemento cruciale nella vita democratica; tuttavia, il loro impatto sul processo elettorale solleva interrogativi complessi. In assenza di sentenze definitive, il rischio di una giustizia “mediatica” che sostituisce quella “formale” è concreto. Servirebbe una riflessione più ampia su come garantire l’indipendenza della magistratura e il diritto dell’elettorato a un’informazione completa, corretta e rispettosa dei tempi della giustizia. Solo così sarà possibile preservare l’equilibrio tra il diritto-dovere della giustizia e la sovranità popolare.