La Stampa, 31 agosto 2025
Il tycoon e il culto della personalità tutto si trasforma in "Donald-first"
In sette mesi di presidenza Donald Trump è passato da America First a Trump first. Quello che vuole il Presidente è il criterio guida di questa sua seconda amministrazione, che sia l’Iran da bombardare o le mostre nei musei della capitale. All’interno, il suo “ho il diritto di fare qualsiasi cosa io voglia fare” pone un enorme stress test alla democrazia americana. Rinvio a ad Alan Friedman in proposito. All’esterno, egli si accredita come Presidente di pace in un mondo diviso da guerre, in attesa di essere consacrato dal premio Nobel per la pace. Privilegia i rapporti bilaterali. Alla pari solo con i leader ritiene forti, quasi sempre autocratici – Vladimir Putin, Xi Jinping, ma anche autocrati minori come Kim Jong Un del quale ha tessuto le lodi col Presidente sudcoreano Lee Jae Myung. Dagli altri si attende, e riceve, ringraziamenti e adulazione.
Forse perché i militari gli servono sotto casa, a Washington DC, nelle città americane, Los Angeles, Chicago, Donald Trump – che pur vuole ribattezzare il Pentagono in Dipartimento della Guerra di sapore ottocentesco – non ama le guerre. Tranne quelle commerciali, preferibilmente contro gli alleati. Gli si sta mettendo di traverso un giudice federale che, in secondo grado, conferma che molti dei dazi imposti da Trump invocando la sicurezza nazionale sono illegittimi. Un altro giudice ha bloccato le deportazioni in massa senza processo di immigrati illegali. La sorte di questi barlumi di resistenza in nome dello stato di diritto finisce poi in una Corte Suprema fortemente squilibrata a favore del Presidente.
Trump afferma di aver messo fine a 6, o 7, guerre. Per chi non se ne fosse accorto, specie gli abitanti di Kharkiv e di Khan Yunis, la Casa Bianca ha fatto la lista. Due la cui escalation avrebbe avuto un potenziale dirompente e conseguenze globali: India-Pakistan, due potenze nucleari, e Israele-Iran; i due incancreniti conflitti fra Armenia e Azerbaijan e fra la Repubblica Democratica del Congo e Rwanda; quello di recente data, fra Thailandia e Cambogia, disinnescato sul nascere; due situazioni di tensione piuttosto che di guerra, non nuove, ma forse a rischio di inasprimento, fra Egitto e Etiopia e Serbia e Kosovo. Non c’è dubbio che, in tutte, la diplomazia americana, e gli interventi diretti del Presidente Trump abbiano calmato le acque e contribuito a far tacere le armi. Quanto a “farle finire” il giudizio è più nebuloso.
Le due neppure cominciate, Etiopia-Egitto e Serbia-Kosovo, rimangono nello stato di quiescenza in cui l’amministrazione Trump le aveva trovate, rispettivamente sulla grande diga idroelettrica che Addis Abeba progetta sul Nilo Blu e sull’indipendenza del Kosovo che Belgrado non riconosce. Sia Thailandia e Cambogia e, soprattutto, Pakistan e India hanno avuto il buon senso di fermarsi. C’è stato un forte incoraggiamento americano. Islamabad lo loda, Delhi lo minimizza irritando Trump, il che ha contribuito al brusco deterioramento dei rapporti bilaterali Usa-India, culminato nel dazio del 50% imposto dagli Usa alle esportazioni indiane cui Narendra Modi risponde partecipando oggi al vertice della Shangai Cooperation Organisation a Tianjin, Cina. I due maggiori successi diplomatici sono l’accordo fra Rwanda e Congo del 27 giugno e quello azero-armeno dell’8 agosto, non ancora accordo di pace ma impegno reciproco a risolvere la trentennale controversia sul Nagorno-Karabakh, entrambi firmati a Washington. In cambio, Trump ha ottenuto, rispettivamente, una promessa di accesso alle ingenti riserve minerarie della regione congolese, dove peraltro rimangono attivi i ribelli M23 filo-Rwanda, non partecipi dell’accordo, e il diritto a sviluppare un corridoio in territorio armeno subito battezzato la Via di Trump alla Pace e Prosperità Internazionale (Tripp). Iran-Israele è infine un caso a parte: prima l’intervento americano nella guerra contro Teheran, la dichiarazione, unilaterale, cessate il fuoco – che ha tenuto.
Nessuna guerra è veramente “terminata” Donald Trump, passo indietro con l’India, molto fuoco cova ancora sotto le ceneri, ma il bilancio è certamente positivo. Mancano tuttavia i due pezzi da 90: le guerre in Ucraina e a Gaza. Sulla prima, l’iniziativa diplomatica di Trump e Witkoff ha fatto i titoli ma non i risultati. Il vertice di Anchorage con Vladimir Putin ha dato al Presidente russo una riabilitazione internazionale senza in cambio ottenere nulla, niente cessate il fuoco, niente avvio di negoziati diretti ad alto livello russo-ucraini. Su Gaza, Trump non ha mosso un dito per fermare o mitigare l’offensiva senza quartiere israeliana con le tragiche conseguenze umanitarie davanti agli occhi di tutti. Joe Biden aveva trattenuto Benjamin Netanyahu. Donald Trump non ci ha nemmeno provato. Senza pace in Ucraina e/o a Gaza, si allontana quel Nobel per la pace cui Trump anela per pareggiare i conti con Barack Obama. Le nomine di Cambogia, Pakistan, Azerbaijan e Armenia, già intascate, non bastano. Per il Nobel dovrà fare di più sui versanti russo-ucraino e israelo-palestinese. Vedremo.
A meno di non volerglielo comunque conferire, confluendo nella marea di adulazione riversatagli da praticamente tutti i leader europei e occidentali, qualsiasi cosa faccia o dica, qualunque risultato ottenga o non ottenga. Chi più chi meno, non sono certo gli unici, la diretta della riunione di gabinetto ha visto i suoi ministri fare a gara nelle lodi, l’intera Silicon Valley viene a prostrarsi nell’Ufficio Ovale. Chissà cosa passa nella testa di chi gli rende omaggio. Per i leader stranieri non antagonizzare il Presidente degli Stati Uniti è semplicemente realpolitik. Ma fino a che punto spingersi e con che conseguenze?
Il culto della personalità di cui Donald Trump si sta circondando, all’interno e all’esterno, è contagioso. Un tempo era prerogativa nei grandi totalitarismi come quello di Iosif Stalin nell’Urss, o in Stati isolati come quello di Saparmurad Niyazov in Turkmenistan. Tragedia nei primi, operetta nei secondi. Con Donald Trump il culto della personalità – come altro chiamarlo? – prende radici nella più grande democrazia occidentale, entra nel G7 e nella Nato. Se fa scuola, il danno all’America, all’Occidente, alla comunità internazionale è ben più grave dei dazi all’Ue o dell’intesa con Vladimir Putin alle spalle dell’Ucraina e dell’Europa. I nostri leader che acriticamente coprono Donald di lodi vogliono veramente farne un modello da imitare? Quello il grande rischio.