Corriere della Sera, 31 agosto 2025
Intervista a Franco Nero
Franco Nero è nel cast All Star di In The Hand of Dante di Julian Schnabel, accanto ai due attori filo-israeliani Gal Gadot e Gerald Butler che il movimento pro Palestina voleva boicottare.
Cosa ne pensa?
«Ha ragione Carlo Verdone, è un atto illiberale, gli artisti non sono il tribunale dell’Inquisizione».
Lei nel film che ruolo ha?
«Sono il boss siciliano che conserva il manoscritto di Dante e vengo ucciso proprio da Butler che mi rinchiude in una cassa da morto. Julian è un genialoide, il film è un thriller che si svolge in parte nel Medioevo, a colori, e in parte nel mondo di oggi, in bianco e nero. In tanti hanno due ruoli. Non volevo accettare questo cameo, ma Julian mi ha detto fallo e nel mio prossimo film sarai protagonista».
Stasera lei è presidente.
«Del Filming Italy Venice Award di Tiziana Rocca, è lei che si è prodigata per la stella di Hollywood col mio nome. Gli italiani l’hanno ricevuta in 18, sono in buona compagnia, Anna Magnani, Sophia Loren, Luciano Pavarotti di cui ho un ricordo formidabile».
Lo racconti.
«Giravo un film di Fassbinder a Berlino. In hotel, nella stanza al piano sopra al mio, sento un tipo gorgheggiare. Protesto con la reception. Mi dicono, ma è il maestro Pavarotti. Allora busso. Era lì per Aida. Abbiamo passato un mese insieme. Cucinava tutte le sere, si giocava a scopa e si parlava di tennis, lui faceva i doppietti. Mi disse, io non capisco voi attori, nel mio unico film, Yes, Giorgio, non riuscivo a camminare e recitare insieme perché sul palco quando canto mi fermo».
Lei ha lavorato per grandi autori, ha recitato per registi di trenta nazionalità, ma in Italia viene preso sottogamba. Perché?
«Non voglio fare polemiche, un tempo c’erano grandi produzioni e coproduzioni per film da dieci settimane, oggi in un mese devi consegnare il film. Poi se non appartieni a certi club diventi un pesce fuor d’acqua. E vedono l’età, ne ho 83 ma con l’energia di un sessantenne. Smetterò quando perderò l’entusiasmo. Ho fatto anche tante rinunce. Mi presero per Il giardino dei Finzi Contini, doveva girarlo Valerio Zurlini. C’ero io, Virna Lisi e Terence Stamp. Trovarono più soldi e lo offrirono a De Sica. Per solidarietà con Zurlini rifiutai il film e andai con Corbucci a girare Vamos a Matar Compañeros».
Django è il film che la consacrò. Tanti western. Sergio Leone l’ha mai cercata?
«Corbucci diceva, John Ford ha John Wayne, Leone ha Clint Eastwood e io ho te. Un giorno Leone mi chiamò, eravamo a un evento a cavallo in Toscana e mi disse che voleva fare un film con me, Eastwood e Terence Hill. Ma la sua salute peggiorò, e in testa aveva il film su Leningrado che non riuscì a fare».
Lei stracciò un grande contratto per la Warner.
«Sì, Dopo Camelot, in cui conobbi Vanessa (Redgrave, sua moglie, ndr), mi fece un contratto per cinque film. Forse ero troppo giovane, era appena cominciata la mia storia con Vanessa, che doveva girare in Europa il film su Isadora Duncan, e Vittorio Storaro con altri amici mi propose un film di Luigi Bazzoni dalla Carmen di Mérimée che diventò il western L’uomo, l’orgoglio, la vendetta. Quel pazzo scatenato di Klaus Kinski in una scena di lotta voleva che lo picchiassi sul serio. In ogni caso Jack Warner mi disse, vai dove vuoi ma commetti un grande errore».
Lei era di una bellezza sfacciata. Col senno di poi, è stato un vantaggio?
«Sì, per il pubblico. Paul Newman mi mise in guardia, per la critica se sei bello non puoi essere bravo. E Laurence Olivier mi disse: con la tua faccia puoi fare l’eroe vincente all’americana in un film all’anno, però che monotonia, allora rischia e fai l’attore, avrai i tuoi alti e bassi. Ho seguito il suo consiglio. E a febbraio mi danno la stella a Hollywood».
Ma gli eroi romantici li ha fatti...
«Ho interpretato eroi nazionali, sia nell’ex Jugoslavia che in Ungheria. Due mesi fa Orban ha lasciato il Parlamento per venirmi a salutare. A Budapest dovrei girare una bella storia sui migranti ma il governo non dà il permesso ed è rinviata».
Cos’ha in programma?
«Cinque film, perlopiù all’estero. Con Vanessa ho fatto La tenuta, diretto da nostro figlio Carlo dove lei è un’aristocratica in declino economico e io sono il suo maggiordomo. Vanessa ha recitato sulla sedia a rotelle perché aveva difficoltà di movimento».
Perdoni, nella vita ha mai fatto il maggiordomo per Vanessa?
Ride: «Eccome, sono appena tornato dalla sua casa di Londra, era tutta una commissione, passi dal giornalaio, mi compri questo…».
Lei è l’orso buono e Vanessa la donna spigolosa?
«In un certo senso è così. Litighiamo per delle sciocchezze, Lei una pasionaria, è la Giovanna d’Arco di questo secolo, io sono più tollerante. Sui fondamentali la pensiamo allo stesso modo. Al Festival di Capri, a un Capodanno, lei era a disagio, c’era un ministro degli Esteri molto di destra, portami via, mi disse. Siamo andati al villaggio di orfani e ragazzi bisognosi vicino Tivoli che aiuto da tanti anni. Eravamo felicissimi».
Perché vi sposaste in segreto?
«La nostra storia ha avuto un’interruzione per trent’anni. Poi c’è venuto il desiderio della famiglia, anche su spinta dei nostri tre figli perché oltre a Carlo, ho cresciuto io Joely e la mia amatissima Natasha che non c’è più. Abbiamo fatto un rito tra noi, con lo scambio degli anelli».
Lei ha il senso delle radici.
«Vengo da una famiglia umile, mio padre era maresciallo dei carabinieri, mi ha insegnato i grandi princìpi della vita. Gli piaceva lavorare la terra e per questo acquistati un terreno a Velletri dove poteva curare l’orto. Era nato vicino a Foggia, da piccolo andavo con mio fratello che aveva problemi di salute su un carretto con l’asinello da Padre Pio. Lui, è la prima volta che lo racconto, gli toccò la gola parlandogli in dialetto. Mio fratello guarì».
Ma i suoi inizi da attore come sono stati.
«Incontrai un fotografo di Dino De Laurentiis, mi fece dei primi piani che finirono sulla scrivania di John Huston. E mi prese per Abele nella Bibbia. Quello fu il mio primo botto».