Corriere della Sera, 31 agosto 2025
«È stato il papà della lavatrice in Italia. Costruì la prima nel garage di casa e la chiamò Candy, come una canzone. Berlusconi e Cossiga i suoi amici»
Carolina, un ricordo di suo nonno Peppino Fumagalli.
«Era una montagna: alto due metri. Se entrava in una stanza cambiava l’energia, l’attenzione si spostava su di lui».
Una frase che ricorda?
«Quando tornava a casa diceva ad alta voce: “Il nonno è qui”. Come per dire: correte ad abbracciarmi. Noi nipoti ci aggrappavamo al suo collo».
Ha portato la lavatrice in Italia e in Europa, cambiando in meglio la vita delle donne.
«La sua famiglia era di umili origini: avevano una officina metalmeccanica in un garage. Oggi va di moda iniziare una start up in cantina, ma nel suo caso era andata davvero così. A un certo punto il fratello Enzo venne imprigionato in Texas dagli americani durante la guerra di Libia: non venne portato in carcere, ma in una casa privata, dove vide la prima lavatrice».
E come la portò in Italia?
«Si scriveva con suo padre Eden, che ogni volta gli chiedeva se per caso vedeva dei prodotti innovativi che si potevano fabbricare in Italia. Un giorno gli parlò di un elettrodomestico per lavare i panni: lo zio Enzo fece uno schizzo a penna e glielo mandò. Provarono a replicarlo nell’officina di famiglia. Il collaudo lo fece sua mamma Pina: funzionava. Era nata la Candy».
Perché Candy?
«In quel periodo in radio tutti ascoltavano una canzone di Johnny Mercer che si chiamava Candy. Il nome sembrò perfetto perché era internazionale ma al tempo stesso faceva pensare al pulito».
Com’era la prima lavatrice?
«Si caricava dall’alto: ne abbiamo ancora una, è nell’ufficio di mio papà».
Nacque la pubblicità Candy, con un piccolo robot.
«Sì, il robottino Tic, che in casa faceva tutto e a un certo punto chiedeva alla signora: “Posso fare anche il bucato?”. E lei rispondeva: “Il bucato no, grazie, in casa c’è chi lo fa meglio di te, Candy”. Era bruttissimo e con la testa a triangolo, ma aveva anticipato i tempi: oggi è nel museo aziendale».
Si può dire che suo nonno è stato un femminista?
«Certo, ha liberato le donne dalla fatica del bucato e sia lui che mia nonna ne andavano orgogliosi. Subito dopo è arrivata la lavastoviglie».
E le aspirapolveri.
«Nel 1995 ha acquisito Hoover, con 3.000 dipendenti. L’azienda per gli inglesi era un “monumento”: loro dicono “to hoover” per dire aspirare. Così dopo essere stato nominato Cavaliere del lavoro della Repubblica nel 1973 è stato nominato dalla regina Elisabetta Honorary Commander of The British Empire. Posso solo immaginare il suo orgoglio: la nonna indossò un bellissimo fascinator».
Non c’era solo l’azienda, ma anche la famiglia.
«Credo che il nonno sia stata la persona più innamorata sulla Terra. Nonostante i suoi grandi successi, al primo posto metteva sempre la famiglia: a Natale, durante il discorso di auguri, ringraziava nonna Giovanna: se eravamo tutti riuniti il merito era suo».
Un gesto di affetto che le è rimasto impresso?
«Sulla sua lapide ha voluto che ci fosse scritto: “Peppino Fumagalli che amò Giò”. L’amore verso mia nonna era da dichiarare al mondo: non le mandava i fiori, ma tutto quello che c’era dal fiorista. Mentre era ricoverata le costruì un campo da golf: così avrebbe potuto giocare una volta guarita».
Era un uomo mondano?
«Lavorava e stava con la famiglia: era un persona discreta, parlava poco, ma le sue parole avevano un peso. L’anima social della coppia era mia nonna: simpatica e grande giocatrice di burraco».
Sia in azienda che in famiglia sosteneva le donne?
«Era un uomo imponente, sia fisicamente che per il ruolo. Ma faceva in modo che la nonna fosse sempre al centro dell’attenzione».
Mentre l’Aga Khan creava la Costa Smeralda, lui creava il Consorzio di Puntaldìa. Più understatement.
«Era innamorato di quella parte di Sardegna, l’aveva scoperta grazie a uno dei suoi distributori sardi della Candy. Gli disse: “Stanno arrivando gli stranieri, è ora di comprare”. Ai sardi i terreni vicini al mare non interessavano, essendo un popolo di pastori li ritenevano di minor valore: li acquistò mio nonno insieme ai suoi fratelli facendo un buon affare».
Ha convinto i milanesi a comprare casa a Puntaldìa.
«Ha costruito il comprensorio, costruiva e vendeva, è stato un fenomeno da passaparola: mandava a casa delle persone una brochure con una chiave allegata. Tra i primi ad arrivare ci sono stati Rosita e Ottavio Missoni. Rosita comprò un terreno che mio nonno voleva lasciare ai figli: lo convinse a venderglielo. Quando veniva qui con il nonno e c’erano solo asparagi selvatici».
Poi il nonno ha costruito il celebre Hotel Due Lune.
«Quando è stato terminato alla festa del cantiere è venuta Gina Lollobrigida: un pranzo sulle assi di legno con il formaggio e il pane carasau. Ancora oggi non c’è sfoggio di ricchezza. Una cliente ha detto: questo è il posto più radical chic che conosco».
La successione di una azienda così importante come è avvenuta?
«Mio padre Beppe non era il primogenito, ma tra lui e il nonno si era creato negli anni un rapporto di fiducia. Nel 1994 gli ha chiesto di diventare ad, il nonno è rimasto presidente onorario fino al 2015: condividevano lo stile low profile».
La beneficenza fa parte di questa etica?
«Da sempre. Nel 2023 abbiamo aperto la Associazione Famiglia Peppino Fumagalli contro i disturbi alimentari e mia sorella ha creato una clinica specialistica per bambini autistici. Al funerale di mio nonno una signora mi ha detto: “Non ho mai parlato con suo nonno, ma mi ha cambiato la vita”».
Che rapporto aveva con Silvio Berlusconi?
«Avevano festeggiato insieme i 60 e gli 80 anni di mio nonno: apprezzava il fatto che si impegnasse in politica, lo stimava come imprenditore».
Si è mai immaginata alla guida di una industria con oltre cinquemila dipendenti?
«Non c’è stata una volta in famiglia in cui mi sia sentita considerata meno degli uomini: non ho mai pensato di entrare in azienda, ma ho espresso il desiderio di occuparmi dell’hotel. E sono stata esaudita».
Un complimento che le ha fatto piacere?
«Me lo fece il presidente Cossiga, grande amico del nonno. Veniva a villeggiare a Puntaldìa, una volta mi disse: “Con la tua delicatezza riuscirai a portare grandi cambiamenti in famiglia”».
Suo nonno come avrebbe preso la vendita nel 2019 di Candy al gruppo cinese Qingdao Haier?
«Avrebbe approvato. La nostra azienda era grande, ma c’era un mondo di giganti: a un certo punto mio nonno faceva fatica a capire il mondo. Ci ricordava che prima veniva la famiglia e poi l’azienda».
Come sono invecchiati i suoi nonni?
«Con serenità. Mi ricordo che mia nonna doveva nuotare perché glielo aveva ordinato il medico. Mio nonno era lì che cronometrava i 23 minuti “prescritti” : “Dai Giò che poi giochiamo a burraco!”».
Suo nonno era sportivo?
«Quando l’Italia uscì dai Mondiali la squadra venne a Puntaldìa a vedere il resto delle partite. C’era un maxischermo dietro la piscina».
Aveva gratitudine nei confronti dell’America?
«Sì, ovunque ci trovassimo pretendeva che tornassimo a Monza per il Thanksgiving, il giorno del Ringraziamento».
Un suo vezzo?
«La sua canzone preferita era Strangers in the night, che cantava e aveva persino tradotto in lombardo perché lui non sapeva l’inglese. Un mix di brianzolo e britannico. Al suo funerale ha voluto che la suonassero».
Un insegnamento?
«Non giudicava mai. Ci ha insegnato che, se si deve dire una cosa su una persona, deve essere bella. Altrimenti meglio il silenzio».