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 2025  agosto 30 Sabato calendario

Frammento dei Frammenti relativo alla voce Thomas Jefferson, terzo presidente degli stati Uniti

Ma chi scolpire? Gutzon Borglum, lo scultore incaricato, scelse quattro presidenti come simboli di una nazione: Washington per la nascita, Jefferson per l’espansione verso Ovest, Roosevelt per lo sviluppo industriale e Lincoln per l’unità conservata nella guerra civile
Esistevano, creati in Virginia nel 1773 da Patrick Henry e Thomas Jefferson, i Comitati di coordinamento, dedicati alla diffusione delle comunicazioni tra una colonia e l’altra, e, più in generale, a tenere unite le tredici colonie sul medesimo obiettivo e con le medesime forme di lotta
cinque assegnarono l’incarico di scrivere la Dichiarazione d’Indipendenza a Thomas Jefferson, di anni 33, figlio di grandi piantatori (il padre era anche cartografo), uomo di cultura immensa, possessore di una delle più grandi biblioteche d’America, insigne giurista, autore, due anni prima, di A Summary View of the Rights of British America in cui sosteneva che il Parlamento inglese non aveva, non poteva avere, alcuna autorità sulle colonie
cinque assegnarono l’incarico di scrivere la Dichiarazione d’Indipendenza a Thomas Jefferson, di anni 33, figlio di grandi piantatori (il padre era anche cartografo), uomo di cultura immensa, possessore di una delle più grandi biblioteche d’America, insigne giurista, autore, due anni prima, di A Summary View of the Rights of British America in cui sosteneva che il Parlamento inglese non aveva, non poteva avere, alcuna autorità sulle colonie
Williams credeva che lo Stato dovesse limitarsi ai comandamenti che riguardano le relazioni tra le persone: omicidio, furto, adulterio, menzogna, onorare i genitori, ecc. Scrisse di una “siepe o muro di separazione tra il Giardino della Chiesa e la Wilderness del mondo.” Thomas Jefferson usò in seguito questa metafora nella sua Lettera ai Battisti di Danbury del 1801.
«Ho scoperto  che più lavoro duro, più ho fortuna»
Thomas Jefferson
 
si pensi a Thomas Jefferson e a Filippo Mazzei, l’italiano che, come ricorda De Rita [Giuseppe De Rita, autore della prefazione – ndr], “contribuì a scrivere, con la solenne frase ‘tutti gli uomini sono nati eguali’, la grande Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti”
 
Thomas Jefferson disse che “l’eterna vigilanza è il prezzo della libertà”
 
Quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno iniziato i loro mandati giurando sulla Bibbia. Solo quattro – Thomas Jefferson, John Quincy Adams, Theodore Roosevelt e Calvin Coolidge – non l’hanno fatto, mentre Johnson, dopo l’assassinio di Kennedy, ha giurato su un messale cattolico che era sull’Air Force One che lo riportava a Washington.
 
Detto che in non poi pochissime occasioni, a seguito di un tempestoso andamento della campagna elettorale nonché per via di non infrequenti antipatie personali, il Presidente uscente, teoricamente tenuto a ricevere il subentrante e ad accompagnarlo al Campidoglio nonché ad assistere alla cerimonia e volendo ai festeggiamenti e ai balli conseguenti si è ben guardato dal farlo (John Adams e il figlio John Quincy non vollero avere a che fare nelle rispettive circostanze, il primo con Thomas Jefferson e il secondo con Andrew Jackson, ed altrettanto fece Andrew Johnson negandosi ad Ulysses Grant, per non parlare del Donald Trump 2021), la qual cosa è escluso possa accadere avendo già da tempo Joe Biden assicurato assieme alla moglie Jill (1) la propria attiva partecipazione
 
I soli presidenti di fede non protestante sono John Fitzgerald Kennedy e l’attuale presidente Joe Biden, mentre gli unici due presidenti “non affiliati” ad alcuna confessione religiosa furono eletti nel Diciannovesimo secolo: Abraham Lincoln, in carica tra il 1861 e il 1865, e Thomas Jefferson (1801-1809)
(2) Jefferson invece non riconosceva la figura religiosa di Gesù Cristo: al tempo questo non fu un ostacolo decisivo per la sua elezione, mentre oggi le sue posizioni sulla religione potrebbero essere non altrettanto tollerate da una parte dell’elettorato
 
Quando Thomas Jefferson acquistò la Louisiana nel 1803, raddoppiando le dimensioni del Paese, dovette mettere da parte la sua passione per il costruttivismo costituzionale, che avrebbe escluso un’azione federale così audace.
 
Quando Thomas Jefferson acquistò la Louisiana nel 1803, raddoppiando le dimensioni del Paese, dovette mettere da parte la sua passione per il costruttivismo costituzionale, che avrebbe escluso un’azione federale così audace.
 
I primi due uomini a ricoprire la prestigiosa carica di ambascatore a Parigi sono stati il;;famoso inventore e statista Benjamin Franklin e un futuro presidente, Thomas Jefferson

 
«Qual è il simbolo degli Stati Uniti? Lo stesso delle legioni romane: l’aquila (ovviamente è stata scelta un’aquila americana). In quale lingua è il motto? Non in inglese, che è un po’ il nuovo latino, ma direttamente in latino: e pluribus unum, da più Stati uno solo. Dalla Roma antica gli americani hanno preso il Senato e il Campidoglio: il Jefferson Memorial è un piccolo Pantheon, la Casa Bianca è un edificio neoclassico, la cupola di Capitol Hill è la copia di quella di San Pietro. Sulla sedia dello speaker del Senato, che si chiama Rostrum, in latino, sono scolpiti i fasci, proprio come sulla sedia su cui è assisa la statua di Lincoln» [Cazzullo, Cds].
 
Verdoni
Banconota da 1 dollaro: George Washington. Banconota da 2 dollari: Thomas Jefferson. Banconota da 5 dollari: Abraham Lincoln. Banconota da 10 dollari: Alexander Hamilton. Banconota da 20 dollari: Andrew Jackson. Banconota da 50 dollari: Ulysses Simpson Grant. Banconota da 100 dollari: Benjamin Franklin. Considerando anche le banconote non più in circolazione, bisogna aggiungere: banconota da 500 dollari: William McKinley. Banconota da 1.000 dollari: Grover Cleveland. Banconota da 5.000 dollari: James Madison. Banconota da 10.000 dollari: Salmon Portland Chase. Banconota da 100.000 dollari: Thomas Woodrow Wilson (dal sito della Fox).
 
Quando il governo teme il popolo c’è democrazia»Thomas Jefferson, terzo presidente Usa
 
Mai, dichiarò Jfk nel saluto di benvenuto, questa residenza
ha riunito un tale tasso di genio. «Tranne», chiosò Pauling, «quando Thomas Jefferson ci cenava  da solo».
 
A domanda, rispondo.
Prima dell’adozione del Dodicesimo Emendamento (datato 1804), Presidente diventava colui che otteneva il maggior numero di Elettori (iniziale maiuscola per distinguerli da quelli comuni visto che loro effettivo compito è appunto eleggere il Capo dello Stato) nelle cosiddette Presidenziali. Vicepresidente, il secondo in tale graduatoria.
Questo in ragione del fatto che non esisteva il ticket (introdotto nel 1804 sopra indicato) che unisse candidato Presidente e candidato Vice di uno stesso partito.
Nelle votazioni del 1796, per dire, il federalista John Adams prevalse e sullo scranno minore sedette Thomas Jefferson, democratico-repubblicano, appena sconfitto. Evidentemente, nel caso (e ovviamente in generale con altri contendenti), se Adams fosse morto o si fosse dimesso Presidente sarebbe diventato il perdente.
Non accadde, ma se nel 1800 al vincitore Jefferson avesse fatto direttamente seguito nella graduatoria lo sconfitto e defenestrato Adams questi sarebbe passato dal 1801 dal primo al secondo gradino.
Ad ulteriore dimostrazione della illogicità della disposizione costituzionale originale, proprio nel 1800, Thomas Jefferson ed Aaron Burr (teoricamente candidato Vice per i democratico-repubblicani) conquistarono entrambi settantatre Elettori ragione per la quale l’incombenza passò alla Camera che dovette votare (per Delegazioni non ad opera dei singoli Rappresentanti) trentasei volte prima di arrivare alla conclusione favorevole a Jefferson.
Dopo di che, considerando Burr determinante per la sconfitta l’intervento di Alexander Hamilton a favore del nella circostanza rivale (invero, non solamente per questo, ma insomma…), nel 1804, da Vicepresidente in carica, sfidò a duello Hamilton provocandone la morte.
Infiniti gli altri collegamenti storico-istituzionali per conoscere i quali rimando alle diecimila pagine che sul tema Stati Uniti ho scritto.
Mauro della Porta Raffo
 
Ma ci si può consolare, meno cruentemente, pensando che perfino Thomas Jefferson e John Adams, prima di diventare presidenti degli Stati Uniti, andarono a visitare la casa di Shakespeare a Stratford-upon-Avon e staccarono delle schegge di legno da una vecchia sedia, come ricordo del Bardo
 
Il modello di Washington è Roma. Il Parlamento venne costruito su un Colle, come il Campidoglio, e in segno propiziatorio fu chiamato Capitol Hill. 

Là si riuniscono la Camera dei Rappresentanti e la Camera alta, che si chiama Senato, come nell’antica Roma. I lavori cominciarono nel 1793 sotto la supervisione di Thomas Jefferson, che già aveva fatto costruire il Campidoglio della Virginia, a Richmond, sul modello della Maison Carrée, il tempio romano di Nimes, in Francia.

Per Capitol Hill il punto di riferimento fu il Pantheon, dal colonnato alla rotonda centrale alla cupola, decorata con l’affresco dell’Apoteosi di George Washington che indossa la veste viola dei generali romani vittoriosi. Ai suoi lati, la dea della Vittoria e la dea della Libertà, che porta il berretto frigio e stringe in pugno appunto un fascio: nell’antica Roma il simbolo dell’autorità, in America anche segno di unità e democrazia; come le verghe sottili sono legate insieme, così gli Stati si rafforzano unendosi sotto un comune governo federale (il motto degli Usa è in latino: «e pluribus unum», da più Stati uno solo). (…)

Del resto nel 1777 proprio Washington aveva rifiutato le offerte di pace del generale inglese John Burgoyne, proclamando: «Gli eserciti uniti d’America combattono per la più nobile delle cause, la libertà. Gli stessi principi ispirarono le armi di Roma nei giorni della sua gloria; e la stessa conquista fu la ricompensa del valore dei romani».
 
Nel 1786, in visita nel borgo natale di Shakespeare (Stratford-upon-Avon), il futuro presidente a stelle e strisce Thomas Jefferson si rese protagonista di un episodio in stile baby-gang. Staccò con un coltellino, nella casa natale del Bardo, un pezzo della sedia che sarebbe appartenuta al drammaturgo sommo. Un pugno di lacerti lignei a mo’ di reliquia meta-letteraria.
 
Il padre della patria Thomas Jefferson arriva in pellegrinaggio a Stratford e bacia il suolo
 
la massima di Thomas Jefferson in tema di religione: «divisi vinceremo, uniti cadremo»
 
La tradizione però è antica: dichiaravano di non leggere i giornali, fra gli altri, Thomas Jefferson e Jorge Luis Borges, Marcel Proust e Giuseppe Dossetti, Napoleone III e Charles Baudelaire, secondo il quale non si è gentiluomini se si prende in mano un giornale senza un brivido di disgusto
 
Indipendenza
In America oggi si festeggia il Giorno dell’indipendenza, quello che segnò la nascita degli Stati Uniti. Il 4 luglio 1776, a Filadelfia, trentatré rappresentanti di 13 colonie ratificarono la dichiarazione d’indipendenza, proclamandosi autonome dal Regno Unito. Nello storico documento, che fu redatto dalla Commissione dei Cinque composta da Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, Robert R. Livingston e Roger Sherman, si legge: «Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario a un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato a un altro e assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti verità siano sacre e innegabili: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità» (leggi qui il testo completo).
Dal 1800 questo giorno viene celebrato con parate, picnic e fuochi d’artificio. Secondo i dati di American automobile association sono 49 milioni le persone che si sono messe in viaggio in aereo, treno o auto per il lungo fine settimana della Festa dell’Indipendenza. Un numero in crescita rispetto ai 44 milioni del 2017 e ai quasi 43 milioni del 2016. Sulle strade saranno in 39,7 milioni, con un +5,1% rispetto all’anno scorso, ma il modo più economico per spostarsi è in aereo. I prezzi sono infatti al livello più basso da cinque anni, con una media di 171 dollari per un volo nazionale andata e ritorno.
 
«Battete sei uova finché non sian ben montate, aggiungete una tazza di latte e mezzo cucchiaino di sale. Aggiungete abbastanza farina, circa quattro tazze, da far una pasta consistente. Spianatela col mattarello fin che abbia mezzo pollice d’altezza. Tagliatela in piccoli pezzi, e poi arrotolateli fra le dita fino a che diventin delle stringhe rassomiglianti a maccheroni. Tagliateli in giusta misura. Buttateli a bollire in acqua salata e cuoceteli per quindici minuti. Conditeli come condireste i maccheroni. Oppure bolliteli in brodo» (la ricetta della pasta di Thomas Jefferson)
L
a storia è vera. La ricetta di cui parli è un adattamento di una ricetta di Thomas Jefferson per il “maccherone” che si trova nei suoi scritti. Si ritiene che Jefferson abbia trascritto la ricetta dopo aver visitato l’Italia e la Francia, dove la pasta era un alimento comune. Al suo ritorno in America, fece anche arrivare una macchina per produrre la pasta e la servì alla Casa Bianca. La ricetta originale fa riferimento alla pasta fatta in casa e poi “condita come si condirebbero i maccheroni”, che all’epoca significava in genere con burro e formaggio, una prima versione di quello che oggi conosciamo come “macaroni and cheese” (Gemini)
 
Spiegami in che modo Jefferson viene accostato a Mussolini nel libro di Ezra Pound
Nel suo libro del 1935, "Jefferson and/or Mussolini", il poeta e ideologo fascista Ezra Pound accosta le due figure storiche per sostenere la sua visione politica, trovando in entrambi delle qualità che riteneva essenziali per un “uomo d’azione”.
L’accostamento si basa su un’interpretazione personale di Pound, che vede in Jefferson e Mussolini due leader pratici e decisivi, contrapposti ai teorici o ai burocrati.
Il Parallelo
Uomini d’Azione: Pound ammira Jefferson per aver agito concretamente per modellare la neonata nazione americana secondo i suoi ideali, in particolare la sua opposizione al potere delle banche centrali e dei finanzieri. Allo stesso modo, vede in Mussolini un uomo che agisce per risolvere i problemi dell’Italia, sbloccando la burocrazia e ripristinando l’ordine.
Opposizione alla Finanza: Un punto centrale per Pound, che era ossessionato dall’usura, è il ruolo di entrambi i leader nell’opporsi al potere del capitale finanziario e bancario. Pound considerava sia Jefferson che Mussolini come paladini del popolo contro i grandi interessi economici.
Guida e Pragmatismo: Entrambi sono visti come figure che hanno saputo agire con pragmatismo e visione per creare una nazione più forte, ignorando le regole e la burocrazia a favore di risultati rapidi ed efficaci.
Le Critiche
La teoria di Pound è considerata dagli storici estremamente lacunosa e intellettualmente disonesta. Egli ignora le differenze fondamentali tra la democrazia jeffersoniana, che enfatizzava la libertà individuale e il governo limitato, e il totalitarismo fascista di Mussolini, basato sulla repressione, il culto del capo e il potere assoluto dello Stato. Il libro riflette più le convinzioni politiche di Pound che una vera e propria analisi storica.
Qui bisogna fare un riferimento a Thomas Jefferson, uno dei padri della nazione, che oltre a dettare alcuni principi poi entrati nella Costituzione americana delineò anche lo stile della futura architettura riprendendo il linguaggio di Palladio (che applicò alla sua villa ispirata alla Rotonda e che chiamò Monticello in omaggio al colle vicentino dove sorgeva quella ideata dall’architetto veneto): stile che diventò “tradizione” in edifici come il Campidoglio o lo stesso Jefferson Memorial
 
Il 1816 fu un anno privo della stagione estiva, anche negli altri continenti, come annotò scrupolosamente il presidente americano Thomas Jefferson (che era uno scienziato) nei suoi diari meteorologici
 
«Quando nel corso degli umani eventi, diventa necessario per un popolo spezzare i vincoli che lo hanno unito a un altro...». Fu uno scriba di professione, Timothy Matlack, a mettere in bella forma nel 1776 i principi della Dichiarazione d’Indipendenza coniati da Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti e padre fondatore del neonato Paese. Nel 1787 toccò invece a Jacob Shallus, impiegato dell’Assemblea, vergare i tratti eleganti di quel We The People, “Noi, il popolo”, incipit della Costituzione americana.
 
Storia alternativa degli Stati Uniti d’America
Capitolo primo.
Anno 1800.
Si vota dal 31 ottobre al 6 dicembre.
Thomas Jefferson e Aaron Burr – entrambi democratico-repubblicani – conquistano lo stesso numero di Grandi Elettori: settantatre.
La Camera dei Rappresentanti, chiamata in un caso del genere a decidere, al trentaseiesimo ballottaggio opta per Jefferson.
Cosa sarebbe successo se avesse scelto Burr?
Rispondere ricordando in particolare che alla decisione a favore di Jefferson si arrivò per l’intervento determinante di Alexander Hamilton...
che Burr si legò la faccenda al dito...
che principalmente per questo nel 1804 sfidò a duello Hamilton e lo uccise...
che la morte del fondatore e massimo esponente del Federalist Party concorse profondamente alla crisi dello stesso...
che la citata crisi facilitò grandemente la prevalenza per oltre due decenni del Partito Democratico Repubblicano che, dopo Jefferson elesse, con relativa o assoluta (nel 1820) facilità, Madison e Monroe...
Tutto questo non trascurando di chiedersi cosa sarebbero stati e sarebbero ora gli States senza i due mandati jeffersoniani.
Mauro della Porta Raffo 
 
«Un governo che ha il potere / di darti qualunque cosa / è abbastanza forte / da privarti di tutto ciò che hai» / Thomas Jefferson  
 
questa frase di Jefferson: Ma quale felicità? / Quella collettiva, che Jefferson indicava come “prosperity, thriving, well-being”, ma non solo individuale Non capisco “thiving”. Quando la pronunciò?
Ti ringrazio per aver notato questo punto, che effettivamente può generare confusione.
La parola "thriving" non è un errore di battitura, ma un termine inglese che significa "prosperare" o "avere successo". Non è un verbo, ma un aggettivo che descrive una condizione, come la prosperità.
La frase che citi non è una citazione diretta di Jefferson da un discorso o uno scritto. È una sintesi di un concetto che era fondamentale nel suo pensiero: la “felicità” (che per lui non era solo un sentimento, ma una condizione di benessere) non si limitava all’individuo, ma si estendeva alla collettività.
Il concetto che l’ho tradotto in “prosperity, thriving, well-being” non si riferiva solo all’accumulo di ricchezza, ma a una vita di successo e benessere per la comunità nel suo complesso.
Un solo dettaglio spezza la didattica monotonia: l’osservazione che Thomas Jefferson scriveva lettere d’amore molto più lunghe della Dichiarazione di Indipendenza.
 
Attraverso la lente della storia le questioni irrisolte della democrazia americana potrebbero essere il pezzo forte di questa 58ª Biennale Arte. Al centro del Padiglione Usa la scultura di Sally Hemings, la donna schiavizzata da cui il presidente Thomas Jefferson ebbe cinque figli è parte dell’opera dell’afro-americano Martin Puryear «Liberty / Libertà».
 
Leggo un pezzo di Riotta sulla Stampa in cui è scritto: « Fondato nel 1828 da Andrew Jackson, nell’albero genealogico Thomas Jefferson, presidente nel 1801, il partito democratico è uno dei più antichi ancora in attività» La data del 1828 da dove salta fuori? mi hai detto più volte che è impossibile determinare il momento, comunque da collocarsi negli anni Venti, in cui il partito “democratico-repubblicano” si trasforma in partito democratico. Non sono sicurissimo poi che il Partito democratico possa far suo Jefferson
Hai sollevato un punto molto comune e acuto nella storia politica americana. Entrambe le tue osservazioni sono corrette e pertinenti.
La Data del 1828
La data del 1828 viene spesso indicata come l’anno di fondazione ufficiale del Partito Democratico per una ragione ben precisa: è l’anno dell’elezione presidenziale che portò per la prima volta Andrew Jackson alla Casa Bianca. I suoi sostenitori, che si erano staccati dal vecchio Partito Democratico-Repubblicano, iniziarono a usare il nome “Partito Democratico” per identificare la loro nuova coalizione. Quella vittoria segnò una svolta politica, consolidando il nuovo partito e la sua piattaforma.
Quindi, mentre la transizione è stata un processo graduale, l’elezione del 1828 è considerata il momento della sua fondazione di fatto, in quanto segnò la prima volta in cui il partito vinse la presidenza con la sua nuova identità e struttura.
Il Legame con Jefferson
La tua seconda osservazione sul legame con Jefferson è altrettanto precisa. È un argomento complesso e spesso dibattuto.
L’Albero Genealogico: Il Partito Democratico ha storicamente rivendicato Thomas Jefferson come suo fondatore intellettuale. Vedono una linea diretta tra gli ideali di Jefferson (un governo limitato, i diritti degli Stati e la centralità del piccolo agricoltore) e la propria storia. Il Partito Democratico-Repubblicano originale fu fondato proprio da Jefferson e James Madison, quindi l’"albero genealogico” è tecnicamente corretto, dal punto di vista della storia dei partiti.La Realtà: In realtà, il Partito Democratico di Andrew Jackson era molto diverso da quello di Jefferson. Le politiche populiste, nazionaliste e a volte aggressive di Jackson (come la deportazione delle tribù native americane) spesso entravano in contrasto con i principi jeffersoniani. Il Partito Democratico di oggi, con il suo focus sul governo federale e sui programmi di welfare, si è ulteriormente allontanato dalla visione originale di Jefferson. In sintesi, la data del 1828 è un punto di riferimento storicamente significativo e il legame con Jefferson è basato su una discendenza storica, anche se i principi del partito si sono evoluti in modo radicale nel corso dei decenni. (Gemini)
Però, come diceva Thomas Jefferson, ambasciatore americano a Parigi in epoche più propizie alla grandeur, «ogni uomo ha due patrie, la sua e la Francia»
Sulla scia di Madison e di Jefferson, Tocqueville, già nel 1835, metteva in guardia contro il dispotismo della maggioranza, a cui riteneva vi fossero solo due barriere, la giustizia e la ragione
È celebre l’aforisma del presidente Thomas Jefferson: “Chi riceve un’idea da me, ricava conoscenza senza diminuire la mia; come chi accende la sua candela con la mia riceve luce senza lasciarmi al buio”
«Come è successo, chiedi?»
Beh, Adams – John, non John Quincy – aveva perso, e poco più di un mese dopo quel benedetto 31 gennaio 1801 (quando deliberò in merito) avrebbe lasciato la dimora presidenziale a Thomas Jefferson.
Con lui – Adams, eh? – i federalisti uscivano dai palazzi e il potere passava ai democratici repubblicani.
Come mantenere comunque un ruolo?
Come incidere ciò malgrado a lungo?
Nominando Presidente della Corte Suprema uno dei suoi!
Una carica a vita, non il due di picche quando la briscola è cuori.
E la scelta cadde sul Segretario di Stato, John Marshall.
È vero, allora i «cinquanta semidei» erano tutti o quasi ancora in circolazione ed era relativamente facile (e non succederà più di avere una così vasta possibilità di cernita) scegliere bene tra loro.
Ma il nuovo Chief – un quarantaquattrenne di assoluta preparazione e grande sentire – era decisamente l’uomo della Provvidenza.
Nel ruolo, si capisce.
E rimase in carica fino alla fine, nel luglio 1835.
E impostò la giurisprudenza americana, altresì quella che ci ostiniamo a chiamare Giustizia, ponendone le fondamenta e tirandone su i muri.
E la Corte è quello che è, una istituzione di valore assoluto per lui.
In conseguenza.
Grande, dunque, Marshall.
Grande di più Adams che l’aveva individuato.
Poi – e anche prima – la sorte, tanto benigna di quei tempi nei confronti degli USA.
Ma doveva essere così.
Doveva. 
Non erano (non sono, malgrado tutto) forse gli Stati Uniti molto più di un prodotto della Storia?
Un «prodotto» della Filosofia’ come mille anni dopo scriverà giustamente Margaret Thatcher?"
Nelle immense praterie degli Stati Uniti i nostri migranti arrivarono piuttosto tardi, anche se qualche italiano già spiccava nell’albo d’onore della Guerra d’Indipendenza, come Filippo Mazzei, toscano, che rifornì d’armi i coloni ribelli e, si dice, coltivasse l’amicizia di Thomas Jefferson, John Adams, James Madison e dello stesso George Washington
Invece, iper- cattolica e conservatrice com’è sempre stata, la sua città natale ha scelto di puntare sui classici due pilastri del suo turismo, “sulle due R” come dicono le guide, cioè i “romani” e il “Riesling”, il vino bianco che attirava qui gli inglesi fin dal Settecento. Il futuro presidente americano Thomas Jefferson amava in particolare il Brauneberger, raccontano le cronache, “il primo in qualità, senza paragoni”, come scrisse nel 1778.
Più 2mila ettari di vigneti pregiati, un paio di etichette – un Chianti del 2014 e uno Syrah siciliano del 2015 – insignite dei tre bicchieri del Gambero rosso, una tenuta di 500 ettari in Virginia con casa padronale disegnata dall’archistar Thomas Jefferson, più noto agli storici come terzo presidente Usa
(2) In totale nove tenute storiche da sogno in Italia più una testa di ponte in Virginia negli Usa (dove il gruppo fattura 70 milioni l’anno): qui Zonin ha acquistato nel 1976 la prestigiosa dimora agricola del governatore James Barbour, comprensiva di “mansion” disegnata a inizio ‘800 da Jefferson
Leggo sul Messaggero che Jefferson era affetto das sindrome di Asperger. L’articolo dice: «Indossava pantofole per gli incontri importanti tenendo sempre un uccello finto sulla spalla che aveva il potere di mantenerlo calmo durante le interazioni sociali». Frottole?
La frase è "frottole", o per lo meno una sintesi fantasiosa che contiene elementi veri ma in un contesto completamente alterato. La storia del “finto uccello” sulla spalla è una completa invenzione. Non esiste alcuna fonte storica o testimonianza che affermi che Thomas Jefferson portasse con sé un oggetto del genere. La cosa è pura fantasia. La parte delle pantofole, invece, ha un fondo di verità. Jefferson era noto per il suo abbigliamento informale, soprattutto nella sua tenuta di Monticello. Era solito ricevere visitatori, anche importanti, in pantofole e vestaglia, una scelta che faceva parte della sua filosofia repubblicana, lontana dai formalismi della corte europea. Per quanto riguarda la diagnosi di sindrome di Asperger, si tratta di una speculazione moderna. Jefferson era un uomo molto riservato e provava un’avversione per le interazioni sociali su larga scala e per i discorsi in pubblico. Alcuni storici e psicologi hanno ipotizzato, a posteriori, che il suo comportamento potesse mostrare alcuni tratti tipici dello spettro autistico, ma è impossibile fare una diagnosi scientifica su una figura del passato (Gemini)
Questa invece dovrebbe essere giusta: «Lo stesso Jefferson, che sosteneva il diritto di tutti gli uomini alla  felicità, si scagliava contro «il principio di spendere denaro che dovrà  essere ripagato dalla posteriorità», ovvero di «truffare il futuro su larga scala».»
Sì, la frase è vera. Riflette con grande precisione il pensiero politico e finanziario di Thomas Jefferson. Jefferson era un fermo oppositore del debito pubblico. Sosteneva che ogni generazione dovesse essere libera di governarsi senza essere vincolata dalle spese e dai debiti accumulati da quelle precedenti. Il concetto di “spendere denaro che dovrà essere ripagato dalla posteriorità” era per lui una forma di tirannia. L’espressione “truffare il futuro su larga scala” è un’ottima sintesi dei suoi avvertimenti. Jefferson la usò in diverse lettere, spiegando che l’indebitamento delle nazioni costituiva una grave ingiustizia e un pericolo per la libertà, poiché costringeva le generazioni future a lavorare per ripagare le spese di quelle passate (Gemini)
questa invece dovrebbe essere giusta: «Lo stesso Jefferson, che sosteneva il diritto di tutti gli uomini alla
felicità, si scagliava contro «il principio di spendere denaro che dovrà
essere ripagato dalla posteriorità», ovvero di «truffare il futuro su
larga scala».»
Sì, la frase è vera. Riflette con grande precisione il pensiero politico e finanziario di Thomas Jefferson.
Jefferson era un fermo oppositore del debito pubblico. Sosteneva che ogni generazione dovesse essere libera di governarsi senza essere vincolata dalle spese e dai debiti accumulati da quelle precedenti. Il concetto di “spendere denaro che dovrà essere ripagato dalla posteriorità” era per lui una forma di tirannia.L’espressione “truffare il futuro su larga scala” è un’ottima sintesi dei suoi avvertimenti. Jefferson la usò in diverse lettere, spiegando che l’indebitamento delle nazioni costituiva una grave ingiustizia e un pericolo per la libertà, poiché costringeva le generazioni future a lavorare per ripagare le spese di quelle passate (Gemini)
Leggo sul Corriere della sera: «Secondo il Presidential Pet Museum, da George Washington in poi sono passati circa 300 animali dalla Casa Bianca: non solo cani, ma anche gatti, cavalli, uccelli, persino orsi (Thomas Jefferson).». Che storia è?
La storia che hai letto sul Corriere della Sera è vera. Nel 1807, Thomas Jefferson ricevette in regalo due cuccioli di orso grizzly da un esploratore e soldato americano, il capitano Zebulon Pike. Essendo la loro presenza troppo “pericolosa e problematica”, come scrisse lo stesso Jefferson, decise di non tenerli come animali domestici a lungo. Tuttavia, prima di spedirli al Peale’s Museum di Filadelfia, gli orsi rimasero per circa due mesi alla Casa Bianca, tenuti in una gabbia sul prato. La loro presenza, oltre a stupire i passanti, fece guadagnare alla Casa Bianca l’ironico soprannome di “Giardino degli orsi” da parte degli oppositori politici di Jefferson (Gemini)
L’era Jefferson
«La musica è la passione della mia anima, ma il fato mi ha fatto nascere in un paese in uno stato di deplorevole barbarie». Il terzo presidente Stati Uniti, Thomas Jefferson, fu un grande appassionato di musica, ma il Paese da lui guidato a inizio Ottocento non poteva ancora vantare una banda militare moderna, come quelle delle nazioni europee. Sebbene quella dei Marines fosse definita «The President’s Own», era formata secondo i canoni settecenteschi: con pifferi e tamburi. «Non sorprende dunque – spiega Martinelli – che nel 1803 il Presidente abbia chiesto al comandante dei Marines di reclutare dei musicisti per incrementarne il livello».
In questo periodo gli Usa sono impegnati nella loro prima guerra «esterna»: quella contro i berberi nel Mediterraneo e si assicurano l’appoggio del Regno delle due Sicilie con l’uso dei porti siciliani. A Catania il capitano John Hall rimarrà molto colpito dal talento di alcuni musicisti locali decidendone l’ingaggio per la banda dei Marines.
Il viaggio
Sulla fregata President s’imbarcheranno intere famiglie: il direttore Carusi con i suoi tre figli (Samuele di 10 anni, Ignazio di 9 e Gaetano di 8), Francesco Pulizzi col fratello Felice e i nipoti Venerando (12 anni) e Giacomo (10) oltre ai Sardo, Lauria, Di Mauro, Guarnaccia, Papa, Paternò e Signorello. «Sarà un viaggio molto avventuroso – spiega Martinelli – e i musicisti verranno perfino chiamati ai cannoni al largo di Tripoli».
L’arrivo a Washington non sarà meno turbolento, sia per le condizioni della città (all’epoca poco più di un accampamento militare) sia perché nel settembre 1805 il nuovo comandante dei Marines decide che Carusi non sarà più il direttore della banda. Nonostante questo nel 1806 gli italiani verranno integrati nella «Marine Band», ma molti ne usciranno ancor prima della scadenza del contratto.
La nascita del jazz
Il musicista a fare la migliore carriera fu Venerando Pulizzi, che rimase nella banda per 21 anni e la diresse nel 1816 e dal 1818 al 1827. Ma cosa accadde a coloro che la lasciarono? «Gaetano Carusi – racconta ancora il docente – dopo un tentativo di rientro in Sicilia, trasformò un vecchio teatro nel “Carusi Saloon” di Washington e i suoi figli furono importanti clarinettisti. Uno di questi, Samuel, finì al centro di un celebre caso legale per il copyright del brano Old Arm Chair».
Come spiega Martinelli, nel corso dell’Ottocento le «Italian band» ebbero un ruolo molto importante. «Ad esempio il piemontese Conterno dirigeva la banda della flotta del Commodoro Matthew Perry durante la spedizione in Giappone del 1853 e suo figlio Luciano diresse la Banda della Marina». Con l’arrivo della Ellery Band, poi, inizia la cosiddetta «invasione italiana», preludio alla nascita del jazz. «Durante la guerra di Secessione – conclude lo studioso – molti afroamericani furono arruolati dall’esercito nordista venendo a contatto con le bande militari e con strumenti come il tamburo rullante e la tromba». Il resto, e ciò che accadde a New Orleans, è storia.
Se dovessero riuscire nell’intento verrebbe indebolita la sovranità dei Paesi Ue – a cominciare dall’Italia – negli spazi marittimi centrando un obiettivo che i pirati del Maghreb perseguono dalla fine del Settecento, quando scorribande, sequestri e violenze diventarono di entità tale da spingere, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson ad allearsi con la Svezia ed il Regno delle Due Sicilie facendo sbarcare i Marines sulle spiagge di Tripoli per garantire la sicurezza delle rotte dai pirati libici, algerini e tunisini
Il vero eroe del libro forse allora è Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della nazione americana, realista e radicale al tempo stesso, secondo il quale «una rivoluzione ogni venti anni avrebbe giovato alla salute della repubblica, mantenendo vivo e vigoroso nel popolo lo spirito della libertà, perché l’apatia del popolo sarebbe stata la morte della repubblica». Al tempo stesso egli consigliava al popolo la cautela: «Certamente, prudenza vorrà che i governi di antica data non siano cambiati per ragioni futili e peregrine; e in conseguenza l’esperienza di sempre ha dimostrato che gli uomini sono disposti a sopportare gli effetti d’un malgoverno finché siano sopportabili, piuttosto che farsi giustizia abolendo le forme cui sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi e di malversazioni, volti invariabilmente a perseguire lo stesso obiettivo, rivela il disegno di ridurre gli uomini all’assolutismo, allora è loro diritto, è loro dovere rovesciare un siffatto governo e provvedere nuove garanzie alla loro sicurezza per l’avvenire». Solo gli spiriti più autenticamente – e modernamente – democratici forse sono in grado di capire che non vi è contraddizione tra questi due atteggiamenti. Ma andrebbe anche aggiunta una ulteriore riflessione jeffersoniana: se gli uomini non ricevono un’adeguata istruzione lasciano liberi certi loro impulsi naturali che sono incompatibili con l’esperimento repubblicano.
La prima volta che la presidenza passò di mano fra schieramenti contrapposti negli Usa fu nel marzo del 1801, quando Thomas Jefferson succedette a John Adams
(2) L’animosità tra lo schieramento che sosteneva Jefferson e quello che sosteneva Adams era molto accesa, e ognuna delle due parti vedeva la potenziale vittoria dell’altra come un disastro certo per la nazione: Adams secondo i sostenitori di Jefferson era un servo dell’Inghilterra e un monarchico sotto mentite spoglie; per i seguaci di Adams, del Partito federalista, Jefferson era un demagogo ateo che strizzava l’occhio alla plebaglia e avrebbe fatto dell’America uno Stato cliente della Francia
(3) A causa di un difetto nel meccanismo originario delle elezioni nazionali, Jefferson e il candidato vicepresidente, Aaron Burr, ricevettero ciascuno lo stesso numero di voti elettorali, rimettendo l’elezione nelle mani della Camera dei rappresentanti, dove molti federalisti manovrarono per privare Jefferson della vittoria sostenendo l’ambizioso Burr
(4) / Alla fine Jefferson l’ebbe vinta e nel suo primo discorso di insediamento fece leva sulle sue doti oratorie per cercare di mettere quelle divisioni alle spalle
(5) Jefferson era un politico tanto abile, e i suoi avversari federalisti tanto maldestri, che nel giro di neanche vent’anni il Partito federalista era sostanzialmente sparito
(6) Nel 1828, una campagna molto accesa tra il presidente John Quincy Adams (figlio dell’uomo che era stato sconfitto da Jefferson) e l’eroe militare Andrew Jackson precipitò di nuovo nel personale, e la vittoria di Jackson spinse molti che fino ad allora avevano visto il Governo come un’entità ostile ai loro interessi a considerarlo un potenziale alleato
(7) Come Jefferson nel 1801, tentò di relativizzare le divisioni che si erano manifestate in campagna elettorale facendo appello agli interessi e alla storia in comune del Nord e del Sud: «Sono riluttante a concludere. Noi non siamo nemici, siamo amici. Non dobbiamo essere nemici. La passione può aver messo alla prova i nostri legami, ma non li deve spezzare. Le corde mistiche della memoria, che si estendono da ogni campo di battaglia e ogni tomba di patriota a ogni cuore vivente e ogni focolare in tutta questa immensa terra, si uniranno di nuovo al coro dell’Unione quando saranno toccate nuovamente, come succederà senz’altro, dagli angeli più nobili della nostra natura».
Nel giugno 1776 Thomas Jefferson, destinato a diventare il terzo presidente degli Stati Uniti, scrisse nel suo diario una frase che il mese successivo sarebbe entrata nella Dichiarazione di Indipendenza: «Riteniamo che queste siano verità auto-evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro creatore di diritti inalienabili; che fra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità»
Il primo sommovimento di questo genere arrivò con l’elezione a presidente di Thomas Jefferson nel 1800. Jefferson sconfisse John Adams, a cui aveva fatto da vicepresidente (il primo sistema elettorale della nazione stabiliva che il secondo classificato nelle elezioni presidenziali diventava vicepresidente, un difetto che venne presto corretto). Nonostante il suo ruolo, Jefferson si era fortemente opposto alla politica estera di Adams alla fine degli anni ‘90 del Settecento, quando le tensioni marittime tra Stati Uniti e Francia sfociarono nella cosiddetta Quasi-Guerra. L’elezione del francofilo Jefferson più che un cambio di rotta a molti nel partito federalista, la formazione a cui apparteneva Adams, sembrò una legittimazione del tradimento. Nel 1800 la spaccatura era fortemente sentita.
Thomas Jefferson, uno che difficilmente verrebbe invitato dalla Goldman Sachs per una serie di conferenze da 210 mila euro l’una come Hillary Clinton, nel 1816 definì le banche, in una lettera a un amico senatore, come «più pericolose degli eserciti»
Il sistema bipartitico americano, e i due grandi partiti stessi, hanno dimostrato nel tempo una notevole capacità di tenuta. Le radici del partito democratico si possono far risalire fino a Thomas Jefferson, a James Madison e alla genesi stessa della politica elettorale americana. Il partito repubblicano emerse negli anni Cinquanta dell’Ottocento come motore politico dell’opposizione morale alla schiavitù.
E dagli anni Cinquanta dell’Ottocento in poi, la corsa per la Casa Bianca è stata quasi sempre una gara dominata da questi due partiti. La scomparsa di un grande partito in America è un evento raro, più o meno quanto la candidatura rilevante di una terza forza. Due volte è capitato che un grande partito scomparisse: il Partito federalista, di cui facevano parte George Washington, Alexander Hamilton e John Adams, non sopravvisse alla guerra angloamericana del 1812. Ma il “partito” federalista non fu mai un’entità politica coerente e organizzata, perché moltissimi federalisti aborrivano il concetto stesso, giudicandolo un segnale di settarismo corrotto. (È difficile avere successo come partito politico se quello che trovi ripugnante è proprio la politica di parte.) E il partito Whig, che si formò negli anni Trenta dell’Ottocento, crollò (come molte altre istituzioni americane) negli anni Cinquanta dello stesso secolo per effetto delle tensioni che sarebbero sfociate nella Guerra di Secessione.
I democratici e i repubblicani di oggi portano etichette vecchie di secoli, ma l’identità di entrambi i partiti si è modificata nel corso dei decenni, soprattutto a causa della stessa questione che aveva provocato la fine del partito Whig: il posto degli afroamericani nella nazione.
Oggi che non è più in vita un solo membro dell’assemblea che ha scritto la Costituzione attuale, è doveroso ricordare la formula di Thomas Jefferson, persuaso che le mani dei morti non possano disporre dell’esistenza dei vivi.
Ma anche gli americani sono grandi consumatori di gelato e si sa che un padre della patria come Thomas Jefferson conservava come un prezioso tesoro una macchina per fare il gelato dell’epoca che aveva riportato dall’Italia.
Uno dei grandi architetti della democrazia americana, Thomas Jefferson, presagiva che il popolo – nel nome del quale nasceva quell’esperimento politico – non fosse in grado di usare intelligentemente le libertà conquistate, e pensava che fosse un compito essenziale dello stato fornire ai cittadini, attraverso l’istruzione, gli strumenti cognitivi e morali necessari per fare scelte razionali, e non uccidere nella culla la delicata creatura politica


A Monticello, all’inizio del XIX secolo, Thomas Jefferson coltivava 23 diversi tipi di piselli.  Vero?
Sì, la frase è vera.
Thomas Jefferson era un agricoltore, giardiniere e botanico appassionato e meticoloso. A Monticello teneva registri dettagliati di tutte le sue coltivazioni. Nel corso degli anni, sperimentò e coltivò un numero enorme di piante, tra cui ben 23 varietà diverse di piselli. Era particolarmente interessato a quali varietà crescessero meglio nel clima della Virginia e quali potessero estendere la stagione di raccolta.
Nel 1976, Zonin pianta le viti in Virginia, Barboursville Vineyards, impresa già fallita ai tempi di Thomas Jefferson e mai più tentata dai primi dell’800
Una figura esemplare in campo politico è stato Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, che fu anche scienziato e architetto. Mi ha meravigliato leggere che, malgrado gli Usa si dichiarassero non interventisti, nel 1805 bombardarono Tripoli. In effetti combattevano contro i pirati che minacciavano i traffici commerciali nel Mediterraneo. Il pascià di Tripoli pretendeva un consistente tributo per liberare alcune navi americane che erano state aggredite e si rifiutavano di pagare il pedaggio. Allora la Libia faceva parte dell’impero ottomano; il sultano Selim III ignorava la questione?
Antonio Fadda
antonio.fadda@virgilio.it

Caro Fadda,
I pirati barbareschi che aggredivano le navi europee e americane nel Mediterranee, non si limitavano a saccheggiarne il carico. Catturavano l’equipaggio e i passeggeri, trasportavano i malcapitati nelle prigioni di Tangeri, Algeri, Tunisi e Tripoli, ricattavano i loro governi sino al pagamento del riscatto (spesso parecchi anni dopo) e restituivano ai loro Paesi esseri umani fisicamente e moralmente distrutti dalla prigionia. L’attività dei privati era una delle maggiori fonti di denaro per il bilancio dei signori locali (pascià, bey, dey) che governavano quelle terre. Thomas Jefferson conosceva bene le imprese dei pirati. Negli anni della sua ambasciata a Parigi, dal 1785 al 1789, aveva seguito con apprensione le vicende di due velieri americani che erano stati catturati al largo delle coste portoghesi e portati ad Algeri con il loro carico umano.
La minaccia non incombeva soltanto sulle navi degli Stati Uniti. Tutti i mercantili in rotta per il Mediterraneo correvano gli stessi rischi. Ma Francia e Inghilterra compravano la loro sicurezza con il pagamento di un tributo. Fino a qualche anno prima, quando inalberavano la bandiera britannica, le navi delle colonie americane potevano contare sulla protezione della flotta di Sua Maestà. Ma la bandiera di un giovane Stato non dava alcuna garanzia. Gli americani avrebbero potuto stipulare polizze d’assicurazione, ma i prezzi erano alle stelle e il Tesoro degli Stati Uniti non poteva permetterselo.
Jefferson pensava che il pagamento del tributo fosse una prassi umiliante e suggeriva il ricorso alla forza. Ma gli Stati Uniti erano impreparati a una guerra marittima e il Congresso era contrario, secondo la raccomandazione di George Washington nel giorno in cui lasciò la Casa Bianca, a qualsiasi coinvolgimento straniero. Vi fu un momento in cui il Congresso decise infine di ricorrere alla umiliante prassi del tributo e del riscatto. Ma il numero degli incidenti continuò ad aumentare e Jefferson, non appena divenne segretario di Stato, dedicò una buona parte del suo tempo a promuovere la costruzione di una flotta. Il passo decisivo fu compiuto quando fu eletto alla presidenza degli Stati Uniti nel 1801. Il pascià di Tripoli chiese un nuovo pagamento e il presidente rispose con l’invio di una flotta. Vi furono fasi alterne e i pirati si batterono tenacemente, ma una azione fortunata dei marines e il blocco americano delle coste finì per dare agli Stati Uniti la vittoria. La guerra finì quando gli americani occuparono Derna, la città che è stata recentemente, per qualche mese, capitale dell’Isis. Il trattato di pace fu firmato nel 1805. Su queste vicende, caro Fadda, esiste un libro di Brian Kilmeade e Don Yaeger apparso nel 2015: Thomas Jefferson and the Tripoli pirates. The forgotten war that changed American History, Thomas Jefferson e i pirati di Tripoli. La guerra dimenticata che ha cambiato la storia americana.
I quattro Paesi dei pirati barbareschi erano, come lei ricorda, possedimenti turchi. Ma l’Impero ottomano era un grande Stato feudale in cui le province più lontane erano baronie che godevano di larga autonomia ed erano implicitamente incoraggiate a sopravvivere con i propri mezzi.
L’anno successivo Thomas Jefferson e i suoi seguaci risposero costituendo il Partito AntiFederalista, più tardi ribattezzato DemocraticRepublican, il progenitore dell’odierno Partito Repubblicano. George Washington, invece, non si iscrisse mai a un partito. Il primo presidente, in carica dal 1789, fu richiamato per un secondo mandato nel 1793, quando già pregustava la pensione nelle campagne di Mount Vernon. Washington era infatti considerato l’unico imparziale in grado di mediare fra nord e sud, un residuo dell’originario spirito bipartisan in una nazione sorpresa da un’incipiente processo di frammentazione. Nel suo discorso di addio, Washington denunciò con vigore quei germi di divisione che minacciavano la Costituzione, il cui rispetto era “un principio sacro obbligatorio per tutti”. Ancora una volta è “fazione” il termine chiave in negativo: “Tutte le ostruzioni all’esecuzione delle leggi, tutte le combinazioni e associazioni, sotto ogni possibile caratteristica, con la reale intenzione di dirigere, controllare, controbattere o influenzare il regolare svolgimento e l’azione delle autorità costituite, sono distruttive verso questo principio fondamentale, e in modo fatale. Esse servono a organizzare la fazione, a darle una forza artificiale e straordinaria; a sostituire alla delegata volontà della nazione la volontà di un partito, spesso una piccola ma astuta e intraprendente minoranza della comunità”. Washington preconizza, condannandolo, il mito dell’alternanza dei partiti al governo: le divisioni servono, “a seconda dei trionfi alternati dei vari partiti, a rendere l’amministrazione pubblica lo specchio dei progetti malefici e incongrui della fazione, invece che organi di piani coerenti e unitari digeriti dai comuni consigli, e modificati dagli interessi reciproci”. Il motto e pluribus unum, preso in prestito dalla saggezza degli antichi, ha iniziato presto a scollarsi dall’edificio americano, come accade con certe insegne dei vecchi cinema di periferia.
e questo ? sta in piedi? «È una fotografia abbastanza fedele dell’inclinazione religiosa dell’America, che è pur sempre il paese di Thomas Jefferson, che ha passato anni a riscrivere il Vangelo eliminando tutti i riferimenti soprannaturali per dimostrare che la sacra scrittura poteva essere letta con profitto come operetta morale per uomini di buona volontà (2) La Jefferson Bible è un manuale di self-help ante litteram»
Sì, il pezzo che hai letto è sostanzialmente corretto e descrive con grande precisione un aspetto poco noto ma fondamentale della vita e del pensiero di Thomas Jefferson. La “Bibbia di Jefferson": La prima parte è assolutamente vera. Jefferson, che era un deista e razionalista, passò anni a lavorare a un’opera che egli chiamava “La vita e la morale di Gesù di Nazaret” (oggi nota come “La Bibbia di Jefferson"). La sua intenzione era proprio quella di eliminare tutti gli elementi soprannaturali dai Vangeli (come i miracoli, la resurrezione e la divinità di Cristo), che considerava “frodi pie” e aggiunte successive. Lo scopo era distillare gli insegnamenti morali di Gesù, che considerava il miglior sistema etico mai concepito. Manuale di self-help: L’interpretazione che la definisce un “manuale di self-help ante litteram” è molto acuta e storicamente valida. Jefferson non la intendeva come un testo teologico o di fede, ma come una guida pratica per la condotta individuale, utile a chiunque voglia vivere una vita virtuosa, fondata sulla ragione e sull’etica, non sul dogma. L’obiettivo era il miglioramento personale e la “felicità” (intesa come benessere morale e materiale), in linea con i principi del genere “self-help”.
Fu Thomas Jefferson (estensore della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776) a stabilire quella linea quando venne eletto presidente nel 1800, così dando la prima interpretazione laica del Bill of Rights (Carta dei diritti): «Il Congresso non emanerà alcuna legge che riguardi l’istituzione di una religione o ne impedisca il libero esercizio», principio base sul quale venne eretto fin dall’origine il muro che separa la Chiesa dallo Stato
È una guerra, già allora, ed è la prima: come racconta Thomas Jefferson and the Tripoli Pirates (scritto da Brian Kilmeade e Don Yaeger, è pubblicato da Sentinel, pagg. 238, dollari 27,95), un libro che è entrato nella classifica dei bestseller del New York Times. La tesi degli autori è nel sottotitolo: The forgotten war that changed American history, cioè la guerra dimenticata che ha cambiato la storia americana, quella appunto di Jefferson contro «quattro poteri musulmani» che è poi, spiegano, «quella che, in molti modi, stiamo ancora combattendo».
Le ragioni che spinsero il terzo presidente degli Stati Uniti all’azione militare erano innanzitutto economiche: il «tributo» richiesto dai pascià locali era troppo costoso per un Paese ancora debole finanziariamente; però non si poteva rinunciare a un’area così importante per il commercio, e non si poteva nemmeno cedere, mostrarsi inerti davanti al mondo, perché la nuova nazione aveva bisogno di costruirsi anche un’immagine, una credibilità. Nessuno però, fino ad allora, aveva avuto il coraggio di intaccare una pratica ormai consolidata: era un sistema, lungo la cosiddetta «costa barbaresca» l’economia «si era costruita per secoli sui rapimenti, i furti e il terrore», e altri Stati ben più potenti e solidi degli Usa avevano di fatto accettato di pagare per non essere disturbati (o non troppo). Ma l’America, appunto, non può pagare. Nemmeno quando Richard O’Brien e i marinai della Dauphin vengono catturati al largo di Algeri: è il 1785, e resteranno confinati laggiù dieci anni. In quello stesso anno, Jefferson, a Parigi come ambasciatore, attraversa la Manica e si reca dall’(allora) amico John Adams, diplomatico a Londra e futuro presidente. Organizzano un incontro con Sidi Haji Abdrahaman, inviato di Tripoli in Inghilterra, il quale spiega tranquillamente che «tutte le nazioni che non riconoscono il Profeta sono composte da peccatori, ed è diritto e dovere dei fedeli saccheggiarli e ridurli in schiavitù». Più chiaro di così. Altro che diritti inalienabili dell’uomo, era semplicemente «scritto nel Corano», aveva spiegato Abdrahaman. Il quale non solo non si era scusato, ma non aveva mostrato il minimo rimorso per gli americani prigionieri e maltrattati o per le merci depredate: «Ogni musulmano che abbia perso la vita in questa battaglia è sicuro di essere andato in paradiso». Il capitano O’Brien, dopo dieci anni di sequestro, dirà: «I soldi sono il loro Dio e Maometto il loro Profeta».
Gli Stati Uniti però esitano a impegnarsi in una guerra. Adams insiste per negoziare, anche quando arriva alla Casa Bianca; mentre Jefferson, fin da quell’incontro a Londra, si convince di non voler «comprare la pace». Crede nella «libertà dei mari», e scrive ad Adams che avrebbe «preferito ottenerla con la guerra». Prima però ci sono l’umiliazione della George Washington, una delle prime navi della Marina Usa, costretta a «diventare uno zoo» e portare tesori, soldi e animali a Costantinopoli; l’invio della prima flotta per imporre un blocco navale a Tripoli (senza però il permesso di fare prigionieri); la dichiarazione di guerra da parte dello spietato pascià di Tripoli Yusuf (che aveva usurpato la reggenza al fratello); la nuova umiliazione della Philadelphia, catturata nel porto di Tripoli; l’impresa del capitano Stephen Decatur per incendiarla nottetempo, pur di non lasciarla in mano al nemico; la rimobilitazione del corpo dei Marine, che vengono impiegati nella missione per liberare i futuri territori libici in una leggendaria traversata guidata da William Eaton, che sarà accolto come eroe in patria «per avere vinto la prima battaglia dell’America su suolo straniero» (a Derna); la prima «operazione congiunta» tra la Marina e le forze di terra. L’America impiega dal 1801 al 1805 per vincere la guerra nel Mediterraneo (con uno strascico, breve e devastante – per i nemici – nel 1815). Alla fine ottiene: la liberazione dei prigionieri americani e non solo, la libertà di circolazione (senza dover pagare tributi), la riparazione dei danni subiti, il rispetto internazionale. Come aveva sostenuto Jefferson, gli Stati Uniti «dovevano giocare un ruolo anche militare negli affari oltreoceano». E soprattutto dimostrare che «il fallimento in America non è un’opzione», anche se «molte nazioni credevano – e speravano – che l’esperimento americano fallisse». Come oggi...
[Zonin] Si è comprato a Barbousville in Virginia la tenuta che fu di Thomas Jefferson terzo presidente degli Stati Uniti. Ma non gli è bastato a entrare nella storia. Ora alberga nella cronaca giudiziaria, forse perché non aveva letto quel pensiero di Jefferson che dice: «Credo fermamente che gli istituti bancari siano più pericolosi per le nostre libertà degli eserciti permanenti, e che il principio di spendere denaro a carico dei posteri, sotto il nome di finanziamento, non sia altro che un modo di truffare il futuro su larga scala»
È sbagliato, sottolinea Obama «fare l’amalgama tra gli orrendi attacchi terroristici e i valori di un’intera comunità religiosa». Ricorda che per oltre mille anni «l’Islam ha attirato fedeli grazie al suo messaggio di pace». Rende omaggio al ruolo di questa religione nella storia d’America, ricordando che qui l’Islam arrivò molto presto: era la fede di alcuni degli schiavi deportati dall’Africa. Peraltro, con l’Islam arrivò anche l’islamofobia, tant’è che un altro presidente fu vittima di dicerie dei suoi avversari politici sulla presunta fede maomettana (come si diceva allora): fu Thomas Jefferson, uno dei padri della Costituzione e della Repubblica. «Vedete – scherza Obama – non sono stato il primo...».
Per tre azioni Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809, volle essere ricordato. Fece incidere sulla propria tomba: «autore della Dichiarazione d’Indipendenza, promotore della legge sulla libertà di religione e padre dell’Università della Virginia» (vedi pezzo di Bergamini)
Obama riuscì poi a mettere la faccia di Eleanor Roosevelt al posto di quella di Hamilton sulla banconota da dieci dollari?
No, non ci sono riusciti. Il progetto, avviato durante l’amministrazione Obama, era di ridisegnare la banconota da dieci dollari per includere un’immagine di una donna, ma non prevedeva di rimuovere Alexander Hamilton. L’idea iniziale era di affiancarlo o di spostare il suo ritratto. Tuttavia, il dibattito pubblico e la crescente popolarità di Hamilton (anche grazie al musical di Broadway) portarono a una decisione diversa. Nel 2016 fu annunciato che Hamilton sarebbe rimasto sul fronte della banconota, mentre sul retro sarebbe stato aggiunto un murale che celebrava il movimento per il suffragio femminile, con i ritratti di leader come Susan B. Anthony ed Elizabeth Cady Stanton. La banconota da dieci dollari non è stata ancora stampata con questo nuovo design. Eleanor Roosevelt, pur essendo stata una delle candidate, non fu inserita nel progetto finale.
MILANO È UNA SECONDA PARIGI. Viaggiatori britannici e americani a Milano. A cura di Eleonora Carantini. Con brevi note bio-bibliografiche. Sellerio, Palermo 2007

DESTRA B2
Subito dopo Pompeo avviò una campagna devastante, «pari solo a quella che Thomas Jefferson scatenò ai primi dell’Ottocento sulle coste maghrebine, soprattutto libiche, contro i pirati barbareschi che impedivano la libera circolazione ai mercantili americani – tra le misure ci fu anche quella di distruggere tutte le imbarcazioni nei porti del Nord Africa – ci furono esecuzioni sommarie senza testimoni. Pompeo, dicevo, ebbe un mandato e una flotta a disposizione per un periodo di tre anni, ma eliminò il problema in tre mesi e senza fare un morto, ma offrendo ai pirati terra da coltivare in cambio della vita».
Dopo la firma del trattato di pace con il Regno Unito (1782), la lotta politica si fece accesissima tra chi credeva in un forte stato federale (Hamilton, Madison, Jay) e i fautori, guidati da Jefferson, di un’unione leggera tra Stati largamente autonomi, che esorcizzasse la temuta tirannia del governo centrale
La guerra d’indipendenza delle 13 colonie nordamericane durò sette anni. Pose le premesse per la creazione di un grande Paese e di un robusto sviluppo economico ma esasperò preesistenti tensioni tra colonie con interessi economici divergenti e ne produsse di nuove, derivanti soprattutto dal cospicuo debito accumulato per finanziare la guerra, assunto in modo ineguale dai diversi stati. Dopo la firma del trattato di pace con il Regno Unito (1782), la lotta politica si fece accesissima tra chi credeva in un forte stato federale (Hamilton, Madison, Jay) e i fautori, guidati da Jefferson, di un’unione leggera tra Stati largamente autonomi, che esorcizzasse la temuta tirannia del governo centrale. Non fu facile approvare la Costituzione del 1787 e ottenerne la ratificazione da parte di ciascuno Stato. Compiuto questo passo decisivo, si trattò di creare condizioni che permettessero ai neonati Stati Uniti di sfruttare le loro enormi potenzialità di crescita. Per impostare una politica condivisa, basata su una visione di lungo periodo, era necessario “sistemare” il passato, in particolare la questione dei debiti statali, assunti dal governo federale. Hamilton, ministro del tesoro del presidente Washington, sostenne che l’impegno a ripagare l’intero debito avrebbe richiesto un aumento delle imposte che avrebbe ridotto le potenzialità di sviluppo e prodotto una rivolta fiscale. Ciò sarebbe stato, a suo parere, contrario agli interessi degli stessi creditori. A questi Hamilton disse senza mezzi termini che si «aspettava una gioiosa partecipazione alla modificazione dei contratti in essere, sulla base di principi di equità che consentissero di stipulare un accordo durevole e soddisfacente per tutta la comunità». In altre parole, chiese quello che oggi si chiama haircut. Sistemata l’eredità del passato, Hamilton poté dedicarsi alla creazione di uno stabile sistema finanziario e all’impostazione di politiche industriali e commerciali sulle quali fu costruito lo sviluppo dei neonati Stati Uniti.
È questo il periodo in cui l’Illuminismo mette in discussione il sistema di Antico regime, in cui comincia a farsi strada l’idea di nazione, in cui capitalismo e ceti borghesi muovono i loro primi ma spediti passi. Si creano nuovi legami e nuove identità; e, quindi, nuovi tradimenti o tradimenti di tipo nuovo. Non fortuitamente sono gli Stati Uniti i primi a sperimentarli e più lesti a definirli, in un percorso del tutto peculiare. Esso si costruisce sulla base della rivolta dei coloni contro la madrepatria, si precisa nel corso della rivoluzione per l’indipendenza, si legittima con la Costituzione del 1787 (in vigore due anni dopo). Nella sua versione finale, due commi recitano: “1. Sarà considerato tradimento contro gli Stati Uniti soltanto l’aver mosso guerra contro di essi, o l’aver appoggiato [i loro] nemici fornendo loro aiuto o sostegno (…). 2. Spetterà al Congresso stabilire la pena per tradimento; ma nessuna sentenza potrà comportare perdita di diritti ereditari per i discendenti (…)”. Come è evidente, si tratta di clausole fortemente restrittive, soprattutto se confrontate con le legislazioni del Vecchio continente. I costituenti della Convenzione di Filadelfia conoscevano bene il nome di Benedict Arnold. Eroe della “campagna di Saratoga” (1777) contro l’armata anglo-tedesca di John Burgoyne, l’allora comandante della guarnigione di West Point nel 1780 aveva venduto agli inglesi per denaro le mappe della fortezza. Scoperto dagli agenti dell’intelligence di George Washington, si unisce alle truppe britanniche di sir Henry Clinton. Messosi al suo servizio, favorisce la presa di Richmond e per poco non cattura il governatore della Virginia, Thomas Jefferson. Nel 1781 si trasferisce a Londra, dove diventa un agiato commerciante. Dopo la sua morte (1801), non ci sarà testo scolastico sulla guerra contro re Giorgio III senza una pagina in cui il “dissoluto e rinnegato Arnold” non venga maledetto. Proprio dopo la vittoria di Benedict a Saratoga, la Francia di Luigi XVI si schierava a fianco delle colonie ribelli.
«Thomas Jefferson mangiava otto portate a ogni cena, anche quando era da solo alla Casa Bianca: spendeva quel che oggi sarebbero mille dollari al giorno in cibo, e collezionava bottiglie di vino, e molte se le beveva. Il padre fondatore degli Stati Uniti, George Washington, sorseggiava almeno tre bicchieri di Madeira al pomeriggio, e spesso li mischiava con il laudanum, un oppiaceo famoso al tempo, che lo aiutava a non sentire il mal di denti che lo ha sempre tormentato. ». Vero? Falso?
La frase che hai letto contiene un misto di verità storiche, esagerazioni e dettagli corretti.
Thomas Jefferson
La sua passione per il vino e la cucina raffinata è vera. Jefferson era un rinomato buongustaio, un esperto agricoltore e uno dei più grandi enologi d’America. Collezionava davvero un’enorme quantità di bottiglie di vino (se ne beveva molte). Tuttavia, il resto della frase è un’esagerazione. Il costo giornaliero di 1000 dollari in cibo è una cifra eccessiva e non supportata da fonti. Allo stesso modo, l’idea che servisse a sé stesso una cena di otto portate ogni sera, anche da solo, è un’immagine suggestiva, ma improbabile. Le cene elaborate con molte portate erano una prassi quando riceveva ospiti, non un’abitudine quotidiana solitaria.
George Washington La storia che lo riguarda è sostanzialmente vera. Washington era un grande bevitore di Madeira, che era il suo vino preferito. È inoltre documentato che soffrisse di cronici e lancinanti dolori ai denti, dovuti a problemi dentari che lo afflissero per gran parte della sua vita. Per alleviare il dolore, faceva regolarmente uso di laudanum, una tintura a base di oppio molto usata all’epoca come antidolorifico. È dunque plausibile che lo mescolasse al vino, anche se la pratica esatta non è specificata.
era una vergogna che il Paese con più di un milione di iscritti paganti alla Royal Society for the Protection of Birds, dovesse prendere lezioni persino dal Bahrain, dall’Afghanistan e dalla Lettonia, che il loro uccello nazionale ce l’hanno da un pezzo. Gli Stati Uniti poi, l’hanno scelto dal giorno stesso della firma della Dichiarazione d’Indipendenza, il 4 luglio 1776, quando una commissione formata da Thomas Jefferson, John Adams e Benjamin Franklin votò per l’aquila reale. La decisione era considerata così importante che nel 1782 venne contestata dal Congresso, in quanto quell’aquila volava su tutto l’emisfero settentrionale e non poteva considerarsi «americana». Venne scelta allora l’aquila «calva» testabianca, contro il parere di Franklin che la considerava poco adatta perché, diceva, ha un pessimo carattere e non si guadagna da vivere onestamente. 
L’indagine dei commissari, tra cui spiccavano i nomi prestigiosi di Joseph Guillotin, Jean Bailly, Antoine Lavoisier e Benjamin Franklin, si protrae per diversi mesi. Essendosi sottoposti essi stessi alla mesmerizzazione senza alcun effetto, decidono che le guarigioni erano frutto esclusivamente della fantasia esaltata dei mesmeristi. Thomas Jefferson, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, il 5 febbraio 1785 annotava nel suo diario che il “magnetismo animale era morto, ridicolizzato”.
Per Warren, l’affermazione di Jefferson, “il governo migliore è quello che governa meno” è sacrosanta, ma ancor più la risposta di Henry David Thoreau: “No, il governo migliore è quello che non governa affatto”
(2) Con il passar del tempo, con il consolidarsi del potere politico, Warren e gli altri anarchici americani erano portati a ritenere la tendenza di Jefferson al compromesso con il potere politico come una fatale debolezza della teoria democratica
In omaggio alle sue tesi nel 1786 il granduca di Toscana Leopoldo II abroga la pena di morte, ma è sul nascente sistema penale americano che lo scritto ha maggiore influenza: Thomas Jefferson lo legge dall’italiano attraverso Filippo Mazzei, suo vicino di casa a Monticello, ispirandosi per una formulazione delle sanzioni che abbandoni le pene corporali del cosiddetto Bloody Code in favore del sistema penitenziario
Due secoli dopo, il futuro presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson indica Roma come la sede più idonea per un’educazione artistica, ma mette in guardia i viaggiatori americani dal «rimanere succubi delle arti voluttuose delle donne europee», che mettono a repentaglio «l’innocenza», elemento costitutivo dell’America nata dai Padri pellegrini
Thomas Jefferson dopo aver visitato l’Italia diventò cultore della pastasciutta. Ne lasciò anche delle ricette: «Battete sei uova finché non sian ben montate, aggiungete una tazza di latte e mezzo cucchiaino di sale. Aggiungete abbastanza farina, circa quattro tazze, da far una pasta consistente. Spianatela col mattarello fin che abbia mezzo pollice d’altezza. Tagliatela in piccoli pezzi, e poi arrotolateli fra le dita fino a che diventin delle stringhe rassomiglianti a maccheroni. Tagliateli in giusta misura. Buttateli a bollire in acqua salata e cuoceteli per quindici minuti. Conditeli come condireste i maccheroni. Oppure bolliteli in brodo». Era abitudine tra gli americani di passare gli spaghetti bollenti sotto l’acqua fredda, e poi farli ricuocere o servirli subito nel piatto.
Di molte scelte di quel periodo Ignatieff si è poi pentito ma era, ed è ancora, interessato alla prospettiva di Thomas Jefferson, secondo cui il progetto americano si sarebbe inevitabilmente diffuso in tutto il mondo, “in alcune parti prima, in altre più tardi, ma alla fine a tutto il mondo”, perché l’umanità intera ha impresse nel cuore certe verità autoevidenti che portano, dopo un percorso che può essere ed è anche molto accidentato, allo stabilirsi di un ordine democratico e liberale. Jefferson diceva queste cose mentre ordinava ai suoi schiavi di riordinare la villa di Monticello senza che nemmeno per un istante lo sfiorasse il dubbio che anche loro fossero coinvolti in quella faccenda degli uomini creati uguali e titolari di certi diritti inalienabili che lui e gli altri padri fondatori avevano fissato nella dichiarazione d’indipendenza. Era un accidente da superare nel progressivo svolgersi della storia. Ce ne sarebbero stati altri di accidenti – i totalitarismi, il fanatismo islamista, scontri di civiltà a più non posso e chissà cosa ancora – ma il modello liberal-democratico che l’America incarnava avrebbe trionfato.
«Le banche si sono condannate a morte da sole», scriveva nel 1817 Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti (dal 1801 al 1809), a Thomas Cooper, uno dei più importanti sostenitori americani della fisiocrazia (la dottrina che vede nell’agricoltura il fondamento delle  attività economiche). In quell’occasione si dichiarava convinto che l’ammanco di 300 milioni di dollari (di allora) da parte delle banche americane e il loro rifiuto di pagare i creditori potesse segnare la loro scomparsa dalla scena. Ma «grazie alla stupidità dei nostri cittadini e all’acquiescenza dei nostri legislatori», i banchieri avevano letteralmente saccheggiato la giovane nazione, spendendo i soldi del popolo in «case sontuose, eleganti carrozze e cene di lusso».  » Cos’è questa storia dei 300 milioni mancanti?
La storia che hai letto fa riferimento a un preciso momento storico e a una convinzione profonda di Thomas Jefferson.
Nel 1817, gli Stati Uniti stavano affrontando una grave crisi finanziaria in seguito alla Guerra del 1812. Le banche private avevano emesso una quantità enorme di banconote cartacee per finanziare lo sforzo bellico, ma non avevano abbastanza oro e argento (il cosiddetto “specie") per garantirne il valore. Questo portò a una rapida inflazione e a una perdita di fiducia nel sistema bancario. Quando Jefferson scrive a Thomas Cooper, si riferisce a una sua stima: riteneva che la circolazione di cartamoneta avesse superato di 300 milioni di dollari la quantità effettiva di oro e argento nelle casse delle banche. Non si trattava di una somma “scomparsa” nel senso di un furto, ma di una cifra che rappresentava, secondo lui, una "frode" sistemica. Jefferson sosteneva che le banche si stessero arricchendo a spese della gente comune, emettendo denaro privo di valore reale e rifiutandosi di onorare i propri debiti. Le “case sontuose” e le “carrozze eleganti” erano, per lui, la prova visibile di come i banchieri stessero saccheggiando la nazione per il proprio profitto.
Il terzo presidente non aveva mai nascosto la sua avversione per un sistema bancario tanto svincolato da qualsiasi forma di pubblico controllo da «minacciare le stesse istituzioni repubblicane». E, già un anno prima della crisi del 1817, a un altro suo corrispondente aveva denunciato «la bolla finanziaria» (suo termine) che affliggeva come una pericolosa malattia i cittadini della nuova America, i quali, «come l’idropico chiede acqua in continuazione», invocavano «banche, banche, banche», in una sorta di «stato febbrile» non troppo diverso da quello che aveva tormentato i Paesi del Vecchio mondo. A questa patologia Jefferson si era da sempre opposto non con semplici denunce morali («come avrebbe fatto Don Chisciotte contro i mulini a vento»), ma con un articolato appello ai farmers, cioè agli agricoltori indipendenti che a suo parere costituivano il nerbo della nazione, non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, da quello politico. La vocazione democratica e repubblicana degli Stati Uniti veniva così indissolubilmente legata all’«industriosità» di tale gruppo sociale, che si sarebbe contraddistinto per la sua capacità di intrapresa economica e di autodeterminazione politica (ibidem)
«Era il 12 maggio 1784 quando John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, padri fondatori degli Stati Uniti, chiesero per iscritto alla Serenissima, attraverso l’ambasciatore Daniele Andrea Dolfin, “un trattato di amicizia e di commercio”. Il Senato veneto si prese il lusso di rispondere nove mesi dopo, il 19 febbraio 1785, rifiutando persino l’avvio di una trattativa. Era il mondo che dipendeva da Venezia, non Venezia dal mondo».
Molto vasta è la cantina della Presidenza statunitense. Inaugurata nel 1802 da Thomas Jefferson visse alterne vicende durante il XIX secolo
Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, nel 1774 rivolse alla delegazione della Virginia al Congresso un appello per rispettare il sacrosanto diritto di ciascun uomo a muoversi a suo piacimento sempre e dovunque. Quando il filosofo illuminista lasciò il posto al politico, anche lui fu costretto ad accettare dei limiti, con l’argomento che occorreva proteggersi da chi minacciava le fondamenta sociali della democrazia liberale, pagando il suo prezzo al principio di realtà.
Il dollaro, uno dei più potenti simboli del mondo moderno e odierno “lubrificante” della finanza globale, ha contribuito in misura rilevante all’invenzione degli Stati Uniti. La storia del primo è per molti versi la storia dei secondi, passati dall’essere la terra dei liberi agricoltori esaltati da Thomas Jefferson a superpotenza economica e finanziaria per eccellenza.
Non è stata una transizione lineare. Proprio sul dollaro, due dei Padri fondatori, Jefferson e Alexander Hamilton, hanno dato vita a uno scontro fra due visioni degli Stati Uniti. Originario della Virginia, Jefferson era un sostenitore convinto di una forma di repubblicanesimo democratico: a differenza di Hamilton e altri Padri fondatori come John Adams e James Madison, egli non temeva che dalla democrazia potesse discendere una “tirannide della maggioranza”; il pericolo assolutista, a suo avviso, non proveniva dal popolo, ma dai ricchi, dai privilegiati e dagli aristocratici. Il suo modello ideale di cittadino era il libero agricoltore. Definiva “il popolo di Dio” quelli che coltivavano terra di loro proprietà e non erano né troppo ricchi né troppo poveri, non conoscevano l’ozio degradante, non vivevano del pane altrui, erano gelosi della propria libertà. Erano, dunque, i cittadini virtuosi per eccellenza.
All’estremo opposto degli agricoltori americani Jefferson vedeva la società europea, caratterizzata da eccessive disuguaglianze nei rapporti di proprietà e da gerarchie sociali e politiche fondate sui privilegi. Da lì discendevano l’oppressione dei pochissimi sui moltissimi, le lotte violente e l’instabilità permanente nei rapporti tra gruppi sociali, la vita degenerata delle “depravate masse urbane europee”. L’America doveva evitare a ogni costo di cadere negli stessi difetti.
In tale prospettiva era convinto che la moneta di una libera repubblica dovesse essere costituita dall’oro e dall’argento. Solo la terra e i metalli preziosi, infatti, potevano essere considerati come “proprietà reali”. La cartamoneta, invece, rappresentava sostanzialmente l’introduzione di un sistema corrotto e misterioso di credito, basato su una “finzione legale”. La carta implicava una promessa che poteva essere rotta; beneficiava, così, gli imbroglioni; rendeva possibile manipolare il valore reale. E inoltre l’idea della cartamoneta gravitava fatalmente intorno all’idea di un potere centrale forte, ovvero intorno a quello da cui l’America, fondata sulla libertà, doveva tenersi alla larga.
Dalle concrete esigenze di trovare un comodo sistema di misurazione della terra, peraltro, Jefferson trasse l’ispirazione per l’introduzione del sistema decimale nelle monete. Si inventò così il cent di rame (poi sostituito dal bronzo), riprendendo il nome da Robert Morris, un mercante di Filadelfia che durante la guerra di indipendenza dalla Gran Bretagna si era occupato di organizzare le finanze americane. Morris aveva concepito il cent, però, come una moneta di cento volte il valore delle unità più piccole, mentre Jefferson ne invertì il senso, facendone il centesimo del dollaro. Ammiratore della Francia, introdusse anche il disme (oggi dime), il cui nome derivava infatti da dixième. Volle, infine, l’aquila come simbolo sulla moneta d’oro da dieci dollari.
In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria «fratello in filosofia». Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire «l’avvocato della barbarie»). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il «Rousseau degli italiani». Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l’opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte.
Tutti convinti che Thomas Jefferson avesse ragione quando diceva che “rimandare è meglio che sbagliare”
Già Thomas Jefferson nel 1789 definì «war hawk» (falco di guerra) ogni federalista pronto senz’altro a dichiarare guerra alla Francia
La sola cosa a cui credere sui giornali è la pubblicità. Thomas Jefferson
Quando il presidente Thomas Jefferson (1743-1826) inviò una spedizione ver­so Ovest nel 1804 per raggiungere il Pacifico e piantare la bandiera della nuova repubblica prima dei britanni­ci, l’ignoranza e la fantasia degli ame­ricani erano tali che si accettavano per veritiere le voci provenienti dalle misteriose aree interne del continen­te che riferivano di animali preistori­ci (Jefferson collezionava ossa...), tri­bù di indiani che parlavano il gaelico e persino amazzoni.
Pochi i presidenti non fumatori: George Washington e Thomas Jefferson, Jimmy Carter e i due Bush
«Il primo a portare le french fries negli Stati Uniti fu Thomas Jefferson, che ai suoi ospiti alla Casa Bianca offrì “pommes de terre frites à cru, en petites tranches”, preparate dello chef personale Honoré Julien, francese». Giusto?
Sì, la frase è corretta.
Thomas Jefferson è generalmente riconosciuto come colui che ha introdotto e reso popolari le patatine fritte negli Stati Uniti. La storia è ben documentata nei registri storici di Monticello e della Casa Bianca.
Nel 1802, durante una cena alla Casa Bianca, Jefferson offrì ai suoi ospiti questa specialità francese, preparata dal suo chef personale, Honoré Julien. L’esatta descrizione del piatto, “pommes de terre frites à cru, en petites tranches”, è stata ritrovata in una sua ricetta manoscritta.
il presidente americano Thomas Jefferson possedeva la sua bella copia del “Principe” con i ventisei capitoli canonici, sistemata in alto a sinistra nella sua biblioteca personale
Lei si considera un uomo felice?
«Non sono felice, sono ancora vivo: ho 95 anni».
È una buona ragione per esserlo. La ricerca della felicità è uno dei diritti inalienabili dell’uomo.
«Non ho mai creduto a quella frase di Jefferson. La felicità non dipende da noi. La vita, la libertà sono diritti innati, ma la ricerca della felicità non mi convince. Ho dibattuto su questo una volta con un grande imprenditore canadese: mi disse che lui avrebbe cambiato la triade con vita, libertà e buon governo. Sono d’accordo. La ricerca della felicità non è né nei Dieci Comandamenti, né nella filosofia di Aristotele. Non c’è negli insegnamenti della Chiesa cattolica, né in quelli di Lutero: è un’invenzione di Thomas Jefferson. Personalmente credo nel dovere, non nella felicità».
L’intervista è finita. Helmut Schmidt respira profondamente
Che cos’è l’Autopen «che gli inquilini della Casa Bianca usano dal 1804, quando nello Studio Ovale sedeva Thomas Jefferson»?
L’affermazione che l’Autopen sia stato usato alla Casa Bianca dal 1804 è errata. Si tratta di una confusione storica, anche se Thomas Jefferson usava un altro dispositivo meccanico per la corrispondenza.
Che cos’è l’Autopen?
L’Autopen è una macchina che riproduce in modo automatico una firma. Utilizzando un braccio meccanico, firma in modo identico documenti, lettere o autografi, permettendo al presidente di firmare rapidamente migliaia di documenti senza doverlo fare a mano ogni volta. Il suo uso diffuso è iniziato solo nel XX secolo, in particolare con il presidente John F. Kennedy.
L’affermazione su Thomas Jefferson Thomas Jefferson non ha mai usato un Autopen, perché la tecnologia non esisteva ai suoi tempi. L’equivoco nasce dal fatto che Jefferson usava un’altra invenzione meccanica chiamata "poligrafo". Il poligrafo era un dispositivo che utilizzava un sistema di bracci e penne per creare una copia esatta di un documento o una lettera mentre l’originale veniva scritto. A differenza dell’Autopen, che replica una firma già esistente, il poligrafo di Jefferson creava una copia simultaneamente all’atto della scrittura.
Jefferson aveva i suoi buoni motivi per celebrare Dickinson come uno degli eroi indiscussi della rivoluzione americana e alcuni storici dicono che i testi dell’avvocato hanno contribuito all’indipendenza americana più dei trattati di John Locke (Ferraresi)
A livello delle idee Jefferson considerava il segretario del Tesoro molto peggio di un avversario politico, era un cospiratore che voleva cedere la libertà individuale, il gran tesoro dell’Unione, in cambio dell’autoritarismo federale
Nelle settecento e rotte pagine di “The Art of Power” Meacham ha tempo e spazio per andare negli interstizi, ma “la verità senza tempo” afferrata da Jefferson è in fondo soltanto una: “La politica è caleidoscopica, cambia continuamente, e gli avversari della mattina possono essere gli amici del pomeriggio”. La “politica delle relazioni personali” era un tratto distintivo di quello che gli storici hanno spesso dipinto come un filosofo e sognatore concentrato su una sola idea: l’ostilità all’espansione dello stato federale. Il Jefferson di Meacham è quello che si “concepiva come un animale politico”, quello che al tempo in cui guidava il dipartimento di stato sotto la presidenza di George Washington propiziava addirittura incontri informali con il nemico Alexander Hamilton, il segretario del Tesoro che voleva allungare a dismisura i tentacoli dello stato centrale sulla federazione.
Hamilton aveva appena presentato un piano in cui la Banca centrale si faceva carico dei debiti dei singoli stati, una bestemmia agli dèi politici di Jefferson, il quale odiava l’invadenza dello stato federale con tutte le sue forze. E il sintomo più fastidioso del potere federale erano le tasse, l’antico strumento di dominio esercitato dalla madrepatria. A livello delle idee Jefferson considerava il segretario del Tesoro molto peggio di un avversario politico, era un cospiratore che voleva cedere la libertà individuale, il gran tesoro dell’Unione, in cambio dell’autoritarismo federale. Che la sicurezza fosse più in alto della libertà era una faccenda inaccettabile per Jefferson. Eppure, e qui Meacham parla all’Obama di oggi, una sera Jefferson e Hamilton si incontrano sulla soglia dello studio presidenziale e il segretario di stato ha l’intuizione che “l’inizio della saggezza politica arriva quando guardi l’avversario negli occhi”. E invita Hamilton a cena. Occorreva trovare un accordo sulle risorse da allocare agli stati e, dice Jefferson, “se tutti rimaniamo fermi e inflessibili sulle nostre opinioni, non riusciremo a fare nessuna legge, e senza finanziamenti lo stato non potrà erogare i servizi”. È con una cena ispirata dalla duttilità, dal pragmatismo che Jefferson trova un accordo con il suo peggiore nemico.
Sulla facilità relazionale di Jefferson e le sue capacità di trovare un compromesso Meacham insiste con una foga persino eccessiva, come nota anche la direttrice del New York Times, Jill Abramson, nella sua lunga recensione, ma quello è il senso del messaggio rivolto a Obama.
Un aneddoto sostiene che quando a Thomas Jefferson fu chiesto di descrivere l’americano tipo, lui rifletté un attimo e disse: “Un uomo che si sposta a ovest il primo giorno che sente il suono della scure del proprio vicino”
Jefferson, il primo in America a tagliare le patate in senso longitudinale e poi a friggerle
Ancora una trentina d’anni fa, nell’area di produzione americana, «benché si chiamasse Piedmont Region non si produceva neppure un quintale d’uva. Fino all’arrivo di Zonin, appunto. Il quale sul microclima e sui terreni di Barboursville fece una scommessa e acquistò la tenuta con quasi 500 ettari di bosco e collinette incolte e con la residenza imponente ma ormai malandata del governatore James Barbour, amico di Jefferson (Thomas, terzo presidente americano – ndr).
Albert Gallatin, uno svizzero cresciuto sulle ginocchia di Voltaire diventato gran consigliere di Jefferson nonché arcinemico di Hamilton (che cercò di farlo impiccare per tradimento)
(2) In realtà, come ha raccontato quel fine storico finito in galera di nome Conrad Black, Hamilton era turbolento e infedele (un tradimento quasi gli rovinò la carriera) con tendenze bonapartiste, una passione per il piano e un’impulsività così dannosa che finì per distruggere il partito federalista e consegnare il paese a Jefferson
A Monticello, all’inizio del XIX secolo, Thomas Jefferson coltivava 23 diversi tipi di piselli e più di 250 varietà di frutta e verdura (fra l’altro: tanaceti, porcacchia, lamponi giapponesi, damaschine, nespole, cavoli marini, pandani, cardi, sedani di monte ecc.). [90]

Jefferson, il primo in America a tagliare le patate in senso longitudinale e poi a friggerle. [91]
Enrico Deaglio sul Venerdì: «Se c’era una sostanza che era connaturata con l’America, questa era l’alcol. I Padri Fondatori portarono casse di birra sul Mayflower, George Washington e Thomas Jefferson erano birrai, il whisky ha dominato la storia sociale della giovane nazione». Washington e Jefferson birrai?
Sì, la frase di Deaglio è sostanzialmente corretta.Sebbene non fossero birrai di professione in senso commerciale, sia George Washington che Thomas Jefferson producevano birra nelle loro tenute e supervisionavano attivamente la sua preparazione.
George Washington aveva una vera e propria birreria a Mount Vernon. Era un grande appassionato e ha persino lasciato una ricetta per la sua “piccola birra” (small beer) in un suo taccuino.
Anche Thomas Jefferson produceva birra a Monticello, considerandola una bevanda importante per la sua famiglia e per i suoi lavoranti. La sua passione per le bevande, del resto, era vastissima e lo portava a produrre e importare un’ampia varietà di vini e alcolici. Per i proprietari terrieri dell’epoca, era una pratica comune e quasi una necessità quella di produrre in autonomia alcolici come birra, sidro e whisky per il consumo della propria famiglia e dei dipendenti.
Pound sapeva che un’al­tra America esiste, che non è quella de­scritta oggi dai film e dalla tv, goffo pro­tagonista di una politica estera bandite­sca. La incarnò lui stesso, con la sua pas­sione, il suo coraggio, il suo idealismo e la sua rabbiosa frustrazione nel veder­ne l’incapacità di vivere all’altezza de­gli ideali». Quindi, possiamo affermare che Pound si inserisce a tutti gli effetti in una genuina tradizione americana, quella aperta dal presidente Jeffer­son? «Certamente. L’eredità di Thomas Jef­ferson, come dimostro nel mio libro, è estremamente importante non solo per Pound, ma anche per tutti gli Stati Uniti: Lincoln è sicuramente il più grande presi­dente americano, ma Jefferson è il più in­­teressante, complesso e intelligente. Po­trei sbagliarmi, ma credo che siano state scritte più biografie di Jefferson che di ogni altro presidente, e questo semplice­mente per­ché conoscere Jefferson signifi­ca conoscere cosa vuol dire essere ameri­cano, con tutta la nostra potenzialità, con tutte le nostre contraddizioni e anche, purtroppo, con tutta la nostra vergogna».
Se c’indebiteremo al punto da dover tassare il cibo e le bevande, i beni di prima necessità e le comodità, il lavoro e i divertimenti, le nostre vocazioni e la nostra fede finiremo [per] lavorare sedici ore su ventiquattro e cedere al governo i guadagni di quindici di esse per finanziare o debiti e le spese correnti» (Thomas Jefferson a Samuel Kercheval, 12 giugno 1816, cit
Le zanzariere per le finestre erano state inventate relativamente presto (Jefferson le aveva a Monticello), ma non erano molto diffuse per via del costo
A un decennio circa dalla formazione dell’Unione (1781), il primo segretario del Tesoro americano, Alexander Hamilton, condusse la sua battaglia per trasferire a livello federale parte del debito accumulato dalle 13 colonie durante la guerra di indipendenza. Hamilton propose un piano in due fasi. La prima prevedeva appunto che il governo federale si accollasse il debito contratto dagli Stati. La seconda prevedeva la creazione di una Bank of America, un embrione di Banca Centrale. Queste proposte si scontrarono però – lo ricostruisce su Aspenia un articolo di «Germanicus» – con un’opposizione feroce. Contro di esse si mosse l’allora segretario di Stato Thomas Jefferson, uno dei padri della Dichiarazione di indipendenza. Le sue obiezioni erano di carattere costituzionale. Secondo Jefferson, il piano del segretario del Tesoro costituiva un’aperta violazione dei diritti degli Stati, a tutto vantaggio del governo federale. E soprattutto costituiva un pericoloso precedente: non vi era nulla, infatti, nella Costituzione che autorizzasse la creazione di una Banca degli Stati Uniti. Si tenga conto che quando il governo federale cominciò ad emettere banconote (solo a metà dell’800, per finanziare la guerra civile), la Corte suprema dichiarò in prima battuta incostituzionale l’emissione dei «biglietti verdi». Più che le obiezioni di Jefferson, era però l’opposizione di alcuni Stati ad ostacolare il piano di Hamilton. Il più risoluto era la Virginia, Stato ricco del Sud che all’epoca includeva anche gli attuali West Virginia e Kentucky. Le sue finanze erano relativamente sane, e i suoi abitanti non avevano nessuna intenzione di pagare di tasca propria per le «scelleratezze» finanziarie dei puritani del Nord. La Virginia, alla fine, dette il proprio assenso al piano di risanamento. In cambio, però, ottenne da Hamilton la promessa che la capitale federale sarebbe stata spostata in un territorio ritagliato fra la stessa Virginia e il Maryland, sui terreni lambiti dal Potomac. Dove appunto sorgerà Washington. La collocazione del Campidoglio a poche ore di distanza dalle tenute patrizie della Virginia avrebbe simboleggiato la leadership politica dell’Old Dominion all’interno dell’Unione originaria. A parti geograficamente rovesciate (il Sud americano dell’epoca come il Nord europeo di oggi) e al di là di tutte le differenze (abbiamo già la Bank of Europe, senza avere una gestione federale del debito), le analogie con quel primo dibattito sono interessanti, se viste «across the Atlantic»; e non del tutto accidentali.
La Dichiarazione di Indipendenza americana, redatta nel 1776 dalla Commissione dei Cinque, composta da Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, Robert Livingston e Roger Sherman, venne scritta, dall’inizio alla fine, in corsivo
Che cosa accomuna Leonardo da Vinci, Giulio Andreotti, Margaret Thatcher, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson? La singolare capacità di dormire poche ore per notte e riuscire lo stesso a funzionare benissimo di giorno
Alexander Hamilton fu il primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti, quello che riuscì a convincere i suoi oppositori a consentire che il debito dei 13 Stati della prima unione finisse fosse scaricato sui conti del governo federale. Thomas Jefferson, allora governatore della Virginia e futuro presidente, voleva invece che gli Stati che avevano gestito meglio i propri conti non fossero costretti a pagare per quelli più spendaccioni. Alla fine Jefferson accettò, ma in cambio Hamilton concesse che la capitale dell’Unione fosse collocata vicino alla Virginia. Vedremo se quest’anno l’Europa troverà il suo Jefferson. La Virgina, è ovvio, è la Germania. (Wall Street Journal)
I vantaggi del lavoro in piedi erano stati in realtà già scoperti da tante persone. Noti autori, uomini politici, figure storiche avevano adottato da tempo l’idea di stare eretti alla scrivania. Negli Usa si ricordano due dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, ma anche famosi scrittori, come Ernest Hemingway e John Dos Passos, Vladimir Nabokov e Virginia Woolf. Una delle più grandi figure politiche dei tempi moderni, il premier britannico Winston Churchill, era sempre in piedi alla scrivania, tant’è che oggi esiste un tavolo intitolato a lui, il Winston Churchil Stand-up Desk.
”The democracy will cease to exist when you take away from those who are willing to work and give to those who are not”. Thomas Jefferson.
Anche Thomas Jefferson coltivava le verdure da solo.
I fan di Dan Brown si sono sbizzarriti: unendo su una cartina di Washington la Casa Bianca, il Campidoglio, il Memoriale di Lincoln e il Memoriale di Jefferson si ottiene la forma di un diamante, che è il tradizionale simbolo della massoneria
Il monumento più caro in termini familiari per gli americani è probabilmente la tenuta di Monticello costruita da Thomas Jefferson, presso Charlottesville, in Virginia, nello stile di Villa Rotonda del Palladio, come citazione del grande statista del rapporto fra i valori del classicismo europeo e quelli del nuovo Stato che nasceva
Finita la Guerra d’Indipendenza un altro mito degli Stati Uniti, il presidente Jefferson, decise che quello era il posto giusto per allevare i difensori del Paese appena nato. Così il 16 marzo 1802 fondò la United States Military Academy di West Point. Motto: «Dovere, Onore, Paese».
Il primo diplomato si chiamava Joseph Gardner Swift, in una classe composta solo da lui e dal collega Simon Levy. Era un ingegnere, perché di quello aveva bisogno l’America: piantare le fondamenta. Nel 1817, però, a comandare West Point arrivò il colonnello Sylvanus Thayer, il «Padre dell’Accademia». La trasformò in una fabbrica di guerrieri, al punto che durante la Guerra Civile partirono da lì 294 generali nordisti e 151 sudisti, compresi i due comandanti supremi Ulysses Grant e Robert Lee.
E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – custodiva nella sua biblioteca personale
Jefferson, di cui Jackson affermava di essere un apostolo, aveva indicato la linea: nella genuinità del paese risiedevano le forme più pure della virtù sociale. «Coloro che lavorano la terra sono i prescelti da Dio», aveva dichiarato in una delle sue fulminanti escursioni nella pietas.
Come affermava Thomas Jefferson, americanizzando il cogito cartesiano: “I feel, therefore I am” – “sento dunque sono"
E, invitando il governo inglese a fare qualcosa, il «Financial Times» citava il terzo presidente americano Thomas Jefferson, il quale sosteneva che se avesse dovuto scegliere tra un governo senza i giornali e i giornali senza un governo, avrebbe sempre preferito la seconda opzione
I mercanti non hanno patria Thomas Jefferson
Il Partito democratico americano, per esempio, non è soltanto il più antico partito d’America, ma è la struttura politica che vanta la più lunga e radicata attività di organizzazione del consenso popolare nel mondo. È nato nel 1792 su iniziativa di Thomas Jefferson, come caucus congressuale, cioè come assemblea di parlamentari, e con l’obiettivo di far adottare il Bill of Rights (la Carta dei diritti). Sei anni dopo, il caucus di Jefferson è stato chiamato”Partito democratico-repubblicano” e, nel 1800, ha eletto Jefferson quale primo presidente democratico degli Stati Uniti.
Thomas Jefferson: «Non sono i popoli a dover aver paura dei loro governi, ma i governi a dover temere i loro popoli»
Thomas Jefferson, ammiratore del Palladio, improntò la capitale alla romanità, un tratto coltivato fino a cento anni or sono, come testimoniano le onnipresenti aquile, l’ obelisco, l’ arco romano della stazione ferroviaria, i fasci della statua a Lincoln: dietro la Casa Bianca c’ è addirittura la «pietra miliare zero» da cui si misura ogni distanza, la versione Usa di «tutte le strade conducono a Roma»
Quando i Battisti di Danbury, nel Connecticut, scrissero al presidente Thomas Jefferson per implorare la sua protezione contro le persecuzioni, e ricevendone in cambio la celebre risposta che esisteva «un muro di separazione tra Chiesa e Stato», erano i Congregazionalisti del Connecticut che i Battisti temevano per la loro intolleranza.
Filippo Mazzei (l’illuminista fiorentino costretto a fuggire in America, amico di Thomas Jefferson e ispiratore di un pezzo della dichiarazione d’indipendenza americana),
Il mensile americano The Atlantic Monthly ha raccolto una serie di scarabocchi tracciati da diversi presidenti americani. Su un foglio intestato «The White House» Thomas Jefferson disegnò il progetto di una macchina per i maccheroni. Poi ci sono gli alligatori fatti da Andrew Jackson, i volti femminili di Hayes, i ritratti a tre teste di Lyndon Johnson. Franklin D. Roosevelt immaginò l’etichetta di un rum chiamato Government House.
Si calcola che i negri che fuggirono dalle piantagioni per mettersi al servizio dei britannici furono 80-100.000. Uno si chiamava Henry Washington, il nome gli veniva dall’ essere tra gli schiavi di George Washington. Un altro dei padri della patria americani, Thomas Jefferson, ne perse in questa maniera una trentina.
Thomas Jefferson faticò per sostituire [alla Casa Bianca] con una stufa il forno aperto che affumicava le pareti.
Nel profilo degli Stati Uniti, che è orizzontale e ondulato, come lo aveva sognato Thomas Jefferson immaginando la futura nazione come una valle del Chianti lunga cinquemila chilometri, i grattacieli non sono oggetti funzionali, né prodotti della necessità immobiliare, come nella New York dai costi del terreno astronomici
Thomas Jefferson Uomo d’azione e di pensiero, Thomas Jefferson fu eletto nel 1801 presidente degli Stati Uniti d’America, carica che ricoprì per nove anni. Il fatto di soffrire di emicrania non gli impedì di avere la meglio sui francesi di Napoleone quando acquistò lo Stato della Louisiana.
«Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, aveva elaborato un piano per dare a ogni cittadino nullatenente cinquanta acri di terra (il che allora era più facile perché non la si toglieva a nessuno, o, al massimo, ai pellerossa)». È vero? E come avrebbe distribuito la terra?
L’affermazione è sostanzialmente corretta, e descrive in modo efficace e brutalmente onesto una parte centrale della filosofia di Thomas Jefferson.
Il Piano di Jefferson
L’idea di dare a ogni cittadino una porzione di terra era un pilastro della visione di Jefferson per gli Stati Uniti. Egli credeva fermamente che la base della democrazia dovesse essere il "yeoman farmer", ovvero l’agricoltore proprietario della sua terra. Per lui, la proprietà terriera garantiva l’indipendenza economica, la virtù civica e l’impossibilità di essere corrotto.
Anche se il numero esatto di “cinquanta acri” può essere una semplificazione, il suo obiettivo era rendere la terra accessibile e a buon mercato per tutti i cittadini, in modo da creare una repubblica di piccoli proprietari terrieri.
La Questione della Terra
La seconda parte della frase è purtroppo tristemente vera e descrive il lato oscuro e violento di questa visione. La “terra” che doveva essere distribuita non era vuota: era abitata da innumerevoli tribù di nativi americani.
Jefferson e i suoi contemporanei vedevano i vasti territori occidentali come la riserva di terra necessaria per realizzare il loro sogno agrario. Le loro politiche, sebbene non esplicitamente di sterminio, portarono inevitabilmente alla deportazione forzata e alla distruzione delle popolazioni native, in un processo che sarebbe poi culminato nel “Sentiero delle lacrime” sotto la presidenza di Andrew Jackson, ma che fu concepito e messo in moto sin dalle prime politiche di espansione.
Ma con che criterio sarebbero state assegnate queste terre? E il piano fu realizzato? e se non fu realizzato, comde lo conosciamo?
I criteri di assegnazione si basavano sulla sua visione della società, ma il piano, in senso stretto, non fu mai realizzato come una politica universale e gratuita.
Come avrebbe funzionato il piano?
I criteri di assegnazione si basavano sulla visione di Jefferson di una repubblica di piccoli proprietari terrieri. La terra sarebbe stata assegnata principalmente a cittadini nullatenenti, una categoria che all’epoca si riferiva ai capi famiglia maschi bianchi. L’idea era di utilizzare i vasti territori occidentali per espandere e stabilizzare la democrazia. Le terre venivano prima mappate e suddivise in griglie sistematiche, come stabilito nell’ordinanza fondiaria del 1785, e poi rese disponibili per la vendita.
Il piano fu realizzato?
Il piano, inteso come la donazione di cinquanta acri a ogni cittadino povero, non fu mai attuato in modo letterale. Le politiche di Jefferson furono più pragmatiche. L’obiettivo era reso operativo attraverso la vendita di lotti di terra a prezzi molto bassi, rendendoli accessibili a un vasto numero di persone. Sebbene non fosse del tutto gratuita, la politica jeffersoniana fu estremamente efficace nel favorire la colonizzazione dell’Ovest da parte di piccoli agricoltori e realizzò, nella sostanza, l’ideale di una nazione di proprietari terrieri. La legge che si avvicinò di più a un piano di donazione di terra fu l’Homestead Act del 1862, che fu approvato decenni dopo la morte di Jefferson.
Come conosciamo il suo piano?
Lo conosciamo attraverso i suoi numerosi scritti, lettere e appunti personali. Il suo sogno di una repubblica agraria è una filosofia centrale della sua vita, e ne parlò in svariate occasioni. La cifra dei 50 acri non è una norma di legge, ma un’espressione del suo ideale politico. Le sue idee hanno influenzato in modo decisivo l’espansione e le politiche fondiarie americane, anche se non furono mai codificate in un unico e specifico atto legislativo di donazione universale.
Jefferson conosceva anche l’ italiano
Nel 1787, alla vigilia della Rivoluzione Francese, l’ambasciatore a Parigi Thomas Jefferson scrisse un messaggio-rapporto a James Madison, ma non volendo che altri lo leggessero utilizzò un codice segreto: «1647 678914 per 411545 da 979996607935. Il 404 equivale a 474872. E un 223 435918 non è del tutto impossibile». Traduzione: «La passione che il re nutre per l’alcol lo ha privato ormai di ogni forma di rispetto. La regina è detestata. E un’esplosione ribelle di qualche tipo non è del tutto imprevedibile».
Filippo Mazzei fu il consigliere più fidato di Jefferson quando questi scrisse la costituzione della Virginia
Il presidente Thomas Jefferson lasciò una biblioteca di seimila e cinquecento libri, Thomas Fillmore di quattromila, George Washington di mille soltanto
Non si tratta di concetti del tutto nuovi. Come spiega David Boaz, vicepresidente del Cato institute, il think tank per eccellenza dei libertarian, il loro pensiero «ha radici molto lontane, nel tempo e nello spazio». Considerano padre nobile del movimento, infatti, il filosofo inglese John Locke (1632-1704), che teorizzò il diritto di proprietà come diritto fondamentale dell’individuo. A Locke vanno aggiunti Bernard de Mandeville (1670-1733), che volle dimostrare che egoismo e corruzione sono la molla del progresso, e Adam Smith (1723-1790), che insegnò come la «mano invisibile» del mercato produca i miglior risultati per la collettività. Ma è nella giovane e libera America che queste idee rivoluzionarie diventarono progetto politico. Innanzitutto con le Cato’s Letters (1723), celebre pamphlet di John Trenchard e Thomas Gordon, che i coloni adottarono come breviario di autogoverno; e poi con Thomas Jefferson (1743-1826), il più antistatalista dei Padri fondatori («Il governo migliore è quello che governa meno»).
”Non pentirti mai di aver mangiato poco” (Thomas Jefferson)
Jefferson apriva personalmente la porta.
 
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