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 2025  agosto 30 Sabato calendario

Phica, la sega mesta dell’omino e la follia collettiva della dignità notificata

Per narrare d’uno degli scandali italiani del momento, quello del forum dalla delicata denominazione di “phica.net”, potrei partire dalla cosa più stupida che abbia visto in vita mia, cioè il video delle giornaliste del Tg1 indignate perché là in mezzo c’erano anche loro foto – ma invece voglio partire dai dieci anni che hanno rovinato il mondo.
In realtà, come ho scritto molte volte e anche questa vicenda conferma, il mondo l’hanno rovinato i telefoni con la telecamera e, quando voglio consolarmi di non aver capito per tempo dove stessimo andando a sbattere, io vado a guardare un servizio della Bbc che, nel 2001, diceva che proprio non si capiva a cosa potesse servire questo nuovo giochino giapponese, il cellulare che fa le foto. Non l’avete letta Susan Sontag, alla Bbc? «Grazie alla macchina fotografica diventiamo tutti clienti o turisti della realtà». Serviva a rovinarci del tutto il cervello, quel cellulare con quell’optional di serie: siete più stolidi di me, a non averlo intuìto.
I dieci anni che hanno rovinato il mondo, però, cominciano più tardi, a fine 2014, quando WhatsApp inventa la spunta azzurra. La spunta azzurra serve a dirti che il destinatario del tuo messaggio non solo ha ricevuto il tuo messaggio ma l’ha anche aperto. Magari gli si è aperto in tasca, magari il telefono con la vostra chat aperta è poggiato su un tavolo e lui non lo prenderà in mano per altre due ore, ma tutta questa realtà non ha alcuna presa sul film mentale che tu ti farai a quel punto: non mi risponde perché è un cafone, un prepotente, un anaffettivo, io so che l’ha letto, io so e ho le prove.
È il primo tassello che erode la sanità mentale di esseri umani che erano abituati altrimenti. Erano abituati a mandare una cartolina dal mare e a non sapere se il destinatario l’avesse ricevuta. Erano abituati a lasciare messaggi nella segreteria telefonica e a non sapere se quello magari non avesse voglia di rispondere e tenesse la segreteria attaccata per filtrare le telefonate.
Naturalmente anche allora c’erano le psicopatiche e le ossessive, e noialtre che lo eravamo imparammo presto che la segreteria scattava dopo due squilli se c’erano messaggi da ascoltare e dopo quattro se non ce n’erano: se tornava a quattro squilli, voleva dire che lo stronzo il nostro precedente messaggio l’aveva sentito e non ci aveva richiamato. Ma eravamo una minoranza, e gli amici ci dicevano che eravamo matte. I parametri della sanità mentale erano chiari a tutti.
Poi è arrivata la fine del 2014, con la spunta blu, e poi la metà del 2016, con le storie di Instagram. Diversamente da tutto il resto dei social, le storie di Instagram ti dicono chi le ha guardate. La trappola era scattata: l’illusione del controllo, nuovo male del mondo, era pronta per il contagio.
Lo so che non volete sentirvelo dire, ma non c’è nessuna differenza tra la quindicenne (ma pure la quarantenne, ahinoi) di cui tutte le amiche ridono perché dice cose come «mi guarda sempre le storie, mi ama ancora anche se ha fatto quattro figli con un’altra», e la tizia che si strazia perché ha scoperto che una sua foto (o cento) è stata messa su un forum sul quale uomini disperatissimi scrivono ad altri uomini disperatissimi «Le farei questo e quello». È tutta e sempre illusione del controllo.
Non puoi controllare cosa gli altri pensano, dicono, guardano di te. Questo concetto una volta s’imparava alle scuole medie, e adesso invece i social sono pieni di adulti indignati perché «Tizio non mi ha taggato». Tizio parla di me in luogo pubblico, la cosa meno segreta del mondo, ma se lo fa senza taggarmi (cioè: senza farmi arrivare la notifica) mi sta facendo uno sgarbo, sta violando il mio diritto a illudermi di poter controllare tutto ciò che viene detto di me nel mondo.
Vi siete, amiche che avete trovato le vostre foto sul forum dal nome delicatissimo, poste il problema che la violenza sia farvelo sapere? Io non so se ci siano mie foto lì, non sono abbastanza autolesionista da andare a controllare, non voglio sapere se in giro si sono dei disperati che si segano su mie foto di gioventù (o così pervertiti da segarsi su quelle di adesso). Una volta non l’avrei mai saputo, perché una volta le mie foto – quelle normali, pubbliche: non quelle scattate di nascosto di nudità magari muliebri, che costituisce tutt’altro ordine di problemi – il disperatissimo segaiolo avrebbe dovuto ritagliarle da un giornale, e io non l’avrei mai saputo. Saremmo stati entrambi contenti, lui con la sua mesta sega e io con la mia allegra ignoranza. Poi è arrivata l’illusione del controllo, ed eccoci qua.
Illusione del controllo che si innesta sull’assai più grave problema costituito dalla moltiplicazione degli apparati fotografici. John McWhorter ha detto in un podcast che oggi Susan Sontag non avrebbe mai il successo e la fama che le diede il Novecento, a meno che non accettasse di essere molto più accessibile, più somigliante al pubblico scemo, più distributrice di bocconcini premasticati, e sentendolo mi viene in mente che ci vorrebbe proprio, Sontag, a riscrivere “Sulla fotografia” in questa impensabile era di moltiplicazione delle immagini (il libro è del 1977, l’anno in cui in Italia arriva la tv a colori, per dare un’idea a spanne di quanto la nostra consuetudine con le immagini sia cambiata in meno di cinquant’anni).
Qualche anno fa fu perquisita l’abitazione d’un anziano signore perché, in un supermercato, era stato visto filmare di nascosto: si pensava stesse preparando una rapina. In casa gli trovarono centinaia di ore di filmati: filmava le massaie che fanno la spesa, il suo feticcio sessuale era quello, e aver reso tutti operatori di ripresa glielo aveva facilitato. È un problema? Sì, ma non possiamo risolverlo, perché la telecamera nel telefono, come il nucleare, non puoi disinventarla. E anche se potessimo non vorremmo, perché ci teniamo troppo a far sapere a nostra cognata che ci possiamo permettere la pizza, fotografandola.
È un problema? Solo se lo vengo a sapere e mi s’imprime nel cervello l’immagine orrenda dell’omino che si sega sulle immagini di me che metto nel carrello i tarallucci. Diventa un problema se ho la prospettiva distorta delle giornaliste del Tg1 che, poiché nell’elegante forum c’erano loro immagini prese dai social e dalla tv, hanno montato un servizio in cui dicono che «è come subire una violenza», in cui parlano di essere «spogliate della propria dignità», lasciando le spettatrici sane di mente a chiedersi di cosa stiano parlando: se uno si sega su una foto e commenta disperato con altri uomini disperatamente tesi come lui a dimostrarsi eterosessuali, quella poco dignitosa è la tizia ritratta in foto? Ma in che senso? In che modo? Con quale logica? Avete fatto trilioni di servizi sulla Pelicot che diceva che la vergogna deve cambiare lato, e ancora siamo alla dignità lesa che non è quella del triste pervertito ma quella dell’ignara fotografata?
È un problema sociale, la criptofrociaggine di uomini per i quali parlare di donne è una scusa per stare tra uomini, di uomini così disperati da andare in un forum a commentare foto di sconosciute, di uomini ai quali non tirerebbe evidentemente neanche con l’argano che si baloccano raccontando in pubblico le loro fantasie sessuali? Forse sì, ma il problema ce l’hanno loro, mica io.
Mi viene il sospetto che, pur essendo nata nel secolo giusto, Susan Sontag non abbia avuto tutta l’influenza e la rilevanza che le attribuisce McWhorter. Altrimenti “Sulla fotografia” l’avremmo letto. Altrimenti sapremmo che «Lo sguardo del fotografo desidera ciò che io non sono: la mia immagine».