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 2025  agosto 30 Sabato calendario

Siamo stati negli ospedali italiani che curano i bambini di Gaza

Un aereo atterra a Orio al Serio (Bergamo), in piena notte, tra il 13 e il 14 agosto scorsi. A bordo, una bambina di 5 mesi cardiopatica e un altro di 3 anni con ferite multiple da esplosione. Entrambi sono fuggiti da Gaza, con quel che resta delle loro famiglie: padre, madre e due fratelli per la prima; solo il padre per il secondo. Sono gli ultimi dei 6 bambini gazawi curati e accolti, a partire dallo scorso anno, dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Quello che accomuna tutti i pazienti è l’evidente stato di malnutrizione», spiega ad Avvenire Ezio Bonanomi, direttore della terapia intensiva pediatrica del nosocomio. Sui loro corpi, il medico riconosce i segni della guerra d’invasione che Israele conduce nella Striscia dal 7 ottobre 2023. «Quando i genitori mi mostrano le foto della famiglia unita – racconta –, che risalgono anche solo a 5 o 6 mesi fa, i bambini sono irriconoscibili. La magrezza, che oggi è evidente nei loro corpi, non c’era». Segno di una carestia che si fa ogni mese più aspra.
A riconoscerla a Gaza è stata per la prima volta settimana scorsa l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), che ha confermato «con prove sufficienti» la «malnutrizione acuta grave» di decine di migliaia di bambini. Oltre un centinaio, dall’inizio del 2024, sono stati evacuati in missioni sanitarie italiane coordinate dal Governo italiano.
A Genova e Firenze
«È una goccia nell’oceano, ma in pochi si sono mossi come il nostro Paese», spiega Giuseppe Spiga, vicedirettore sanitario dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova. Prima di arrivare in Italia, la maggior parte dei pazienti pediatrici passano da un ospedale in Egitto – «simile a una nostra struttura degli anni ‘80», come commenta chi lo ha visto – che serve come punto di prima raccolta. Ma oggi «dall’Egitto non si può più partire», spiega Simone Pancani, medico dell’ospedale Meyer di Firenze, che ha partecipato alle missioni. Così, i voli decollano direttamente dall’aeroporto di Eilat, nel sud d’Israele.
In entrambi i Paesi di partenza, a decidere quali bambini trasferire in Italia non sono mai i medici che li accompagnano, ma le autorità di Tel Aviv: «I criteri con cui li scelgono – continua Spiga – non sono mai stati condivisi con noi. In teoria, sono pazienti con il maggior bisogno sanitario, ma abbiamo anche notato bambini che potevano essere ancora curati a Gaza o in Egitto». La maggior parte non sono feriti di guerra, ma pazienti con patologie pregresse che non possono essere trattate nella Striscia: «Se sono vere tutte le immagini che vediamo da Gaza – commenta il medico – è difficile immaginare che non escano dalla Striscia pazienti con gravi ferite di guerra. O non è vero quello che vediamo oppure si decide di far uscire altri pazienti da Gaza».
Prima di raggiungere l’Italia, tutti i bambini percorrono un lungo viaggio a ostacoli. «Per arrivare all’aeroporto di Eilat fanno 200 chilometri in ambulanza, pressoché tutti nel deserto», racconta Simone Pancani. «I bambini che abbiamo accolto sull’aereo – continua – erano disidratati, asciutti come acciughe. Altri erano cardiopatici e hanno avuto problemi in volo. Il problema è che, a volte, si presentano quadri clinici completamente differenti da quelli riportati nei report forniti dalle autorità. Alcuni sono documenti vecchi di mesi».
Negli ospedali italiani i pazienti sono presi in carico da equipe mediche, assistenti sociali e mediatori linguistici. Che si curano anche delle loro famiglie.
Al Bambino Gesù di Roma
«I parenti soffrono delle stesse ferite dei bambini», commenta il dottor Sebastian Cristaldi, responsabile del pronto soccorso del Bambino Gesù di Roma. Nel suo ospedale sono ancora ricoverati Miar e Hani. La prima è una bambina di due anni, affetta da celiachia: «Quando è giunta in pronto soccorso – spiega Cristaldi – pesava 6 chili. Essere celiaci non è un limite alle nostre latitudini, ma a Gaza le diete speciali non sono concesse. Quando ho letto “malnutrizione”, non mi aspettavo niente di così grave». Hani, invece, ha sei mesi ed è arrivato a Roma con un arto amputato: «Un bambino ferito di guerra destabilizza. In decenni di lavoro non ho mai visto niente del genere». Con loro, si trovano le madri Asma e Laila. «Mi hanno subito chiesto di telefonare a casa – spiega il dottore –. Il mediatore mi ha tradotto la chiamata. I parenti rimasti a Gaza dicevano: “Adesso ci può succedere qualunque cosa, siamo sollevati perché voi siete al sicuro”».
La maggior parte delle famiglie soccorse vorrebbe tornare a casa, secondo i medici, ma ha le mani legate. Non solo per la guerra: «Quando sono usciti dall’Egitto – spiega il dottor Spiga – hanno accettato di non tornare nel loro Paese passando da quel confine». Così, chi può cerca di raggiungere altri parenti in Europa. Gli altri restano in Italia: «La maggior parte – conclude il medico – sono rimasti nei dintorni di Genova e sono entrati nel sistema d’accoglienza. La comunità li ha accolti a braccia aperte: cittadini, volontari e personale ospedaliero hanno anche raccolto tonnellate di cibo per consegnarli a Gaza».