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 2025  agosto 30 Sabato calendario

Biografia di Riccardo Milani (raccontata da lui stesso)

Il banco del mercato in via Enea: «Che mia madre aveva dato in gestione anche se sulla carta d’identità, alla voce mestiere, aveva fatto scrivere pizzicagnolo. Gente che ha a che fare con il pane, con salumi e con i formaggi». Gli incisivi montati da Sordi ne Il dentone: «Che mio padre mi aveva donato come una reliquia perché con Alberto lavorava spesso». I ricordi di Riccardo Milani hanno il sapore di chi ha dovuto azzannare la vita e il gusto che tocca in sorte a chi ha capito in fretta che senza rischio il pasto è sempre nudo: «Da ragazzino facevo cose pericolosissime. In casa c’era una grata precaria appoggiata a una finestra che affacciava sulla cupola di un cinema romano, L’airone, che non esiste più. Per qualche minuto, tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo veniva aperta e insieme alla nuvola di fumo di chi si era dato da fare con le sigarette, da quella feritoia, arrivavano le voci degli attori americani doppiati. Era come essere trasportati in un altro mondo e per far parte di quel sogno, avrò avuto non più di 5 anni, mi sporgevo in bilico fin quasi a cadere». Con 16 film alle spalle e una versatilità che tra serie televisive, spot e documentari restituisce un indizio di curiosità nei confronti del mondo, Milani è un’anomalia. In primo piano, questo 67enne, non lo trovi mai: «Sono sempre stato timidissimo».
Anche i timidi possono andare al cinema.
«E infatti ho iniziato fin da quando ero bambino. Vidi Biancaneve e i sette nani e poi mio padre tenendomi per mano mi portò a vedere Il circo e la sua grande avventura con Claudia Cardinale e John Wayne. Papà da ragazzo aveva fatto la comparsa incappucciata nell’Otello di Orson Welles prodotto dalla Scalera Film che dopo quel film fallì».
Chi era suo padre?
«In periferia, nel Dopoguerra, ci si industriava e ci si sbatteva. Nato in una generazione in cui per fame si mangiavano le bucce delle fave, papà non faceva eccezione. Il set da generico era un’ottima occasione per guadagnare due lire, avere il pasto garantito e portare due piatti di pasta a casa. Cestino dopo cestino, non so come, mio padre iniziò a lavorare per la Documento film di Gianni Hecht Lucari».
Il produttore di Monicelli, Scola, De Sica e Loy, premiato per quattro volte con il David di Donatello.
«Nella Documento film papà cominciò facendo un po’ di tutto: diventò prima segretario, poi ispettore e infine direttore di produzione. Il lavoro andava sempre meglio, ma il sacrificio nei confronti della famiglia era enorme perché a casa non lo vedevamo mai. Così passò all’edizione, meno logorante e si trasferì dal set ai corridoi della Fono Roma o di Cinecittà, dove i film venivano doppiati e mixati».
Il cinema è stata una passione indotta?
«In un certo senso sicuramente. Un po’ come per il calcio, papà aveva giocato nell’Almas Roma e nel tempo libero si era dilettato a fare l’allenatore di una squadretta per i ragazzi del quartiere convincendo un certo Olivieri, un importante dirigente della Standa a buttarci soldi e sudore. Per noi, abituati a giocare in strada, una sorta di sogno. Un giorno arrivarono i camion pieni di pietrisco, quel pietrisco non rifinito che a Roma chiamiamo pozzolana e lentamente vedemmo spuntare le linee, le porte, le reti che delimitavano le tribune, una cosa seria che ci colpì moltissimo».
Crescere in periferia senza alcun lusso aiuta a capire il vero valore delle cose?
«Dirlo sarebbe retorico. Può aiutare a vedere nella giusta prospettiva, ma che tu sia destinato a diventare una persona migliore non è scritto da nessuna parte».
Lei da che cosa è partito per scrivere la sua storia?
«Dalla scuola. Sono stato un pessimo studente, ma un ragazzo che osservava ciò che gli accadeva intorno. Non schierarsi politicamente, per uno che come me è nato nel 1958, era praticamente impossibile. Ma mi pare di poter dire che in quegli anni la spinta ideale che ci illudeva di poter cambiare davvero qualcosa e in meglio, a destra come a sinistra, fosse viva».
Che cosa sono stati gli anni ’70 per lei?
«Un’illusione, un momento chiave della nostra storia recente in cui ci si è avvicinati a un vero mutamento senza raggiungerlo. Sono intervenuti fattori esterni, agli ideali si è sovrapposta la violenza. Non è stata la prima volta e non sarà l’ultima. Se mi viene il dubbio che tutta quella deriva sia stata accompagnata quando non facilitata da chi vedeva quel cambiamento come il fumo negli occhi non credo di peccare di complottismo».
Vedere il passato con occhi indulgenti è una concessione alla nostalgia?
«Ogni tanto vedo i miei vecchi amici di un tempo, ma non mi sono mai sentito particolarmente nostalgico. Vivo il presente, penso al futuro e mi ricordo sempre di una lezione monicelliana».
Che lezione?
«Una volta incontrò un amico che gli fece vedere una foto in cui erano insieme. Mario non si dimostrò particolarmente affettuoso, ma per non deluderlo disse due parole di circostanza. Poi, quando quello voltò l’angolo, strappò lo scatto in mille pezzi».
Lei di Monicelli in gioventù fu assistente.
«Avevo letto una cosa detta da Carlo Vanzina: “Si inizia da assistenti volontari”. E così dopo aver frequentato un corso di sceneggiatura tenuto da Ugo Pirro e Luigi Filippo D’Amico in pieno autunno decisi di seguire il consiglio, andai a Cinecittà e mi infilai da perfetto sconosciuto nella moviola di Monicelli. Era con Ruggero Mastroianni, montatore, tabagista e fratello di Marcello. “Hai visto i miei film?” domanda Mario e io pigolo “I soliti ignoti”. Indaga ancora: “E dove?”. Non defletto: “In un’arena e poi in tv”. Stava lavorando a Le due vite di Mattia Pascal e tenta di liquidarmi: “Torna ad aprile, fino ad allora sono impegnato"».
Se ne andò?
«Sono rimasto lì per sei mesi. Fermo, su quella sedia, a osservare tutte le fasi del montaggio, del doppiaggio e delle musiche. Lentamente, capita l’antifona, cominciarono a farmi fare delle cose. Nonostante l’imbarazzo legato alle tasche vuote, finivo spesso per farmi offrire il pranzo, a mangiare con loro e a vivere la quotidianità di Cinecittà. Marcello Mastroianni con il suo sacco di gettoni utile a telefonare a Catherine Deneuve a Parigi me lo ricordo ancora».
Monicelli si affezionò e la ingaggio come assistente per Speriamo che sia femmina.
«Il primo giorno di riprese in Via Giulia, con un caldo infernale, per ripararla dal sole, mi toccò tenere l’ombrello proprio alla Deneuve. Ero agitato ed emozionato, sudavo, ero zuppo. Su quel set feci di tutto: preparavo i caffè e alla bisogna trovavo al volo anche i neonati».
I neonati?
«Una mattina, giravamo in un casale non lontano da Roma, a un certo punto qualcuno mi disse: “Milà, serve la creatura, il maestro dice che la devi andà a cercà immediatamente”. Ubbidii senza discutere. Mi lanciai a tutta velocità verso Cesano, battei chiese ed oratori e alla fine trovai il bambino. Con questa madre e il suo fagotto, senza alcun permesso, mi precipitai sul set».
Accolto dagli applausi?
«Dall’indifferenza più assoluta. Il cinema di allora era guizzo estemporaneo, artigianato, arte di arrangiarsi. Pirro sosteneva che avesse scritto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto in un quarto d’ora. Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Scola e lo stesso Monicelli consideravano il mestiere un pranzo fatto di pane e mortadella. Una cosa semplice e al tempo stesso grandissima stesa su una tavola in cui l’invenzione dell’attrezzista che con uno straccio e un paio di pinze ti risolveva un problema era più importante di un effetto speciale».
Lei a quella tavola siede ancora oggi?
«Non mi sono mai spostato e nei miei film ho sempre provato a raccontare un’umanità che conosco e con la quale ho avuto a che fare. Il borghetto latino ai limiti del Parco della Caffarella, con la sua bidonville senza fognature da cui arrivavano odori fortissimi ce l’avevo sotto casa. Era un mondo complicato al quale appartenevo e se c’era da rubare una coca-cola da un camion prima di andare allo stadio per poi fuggire in motorino verso l’Olimpico di certo non mi tiravo indietro. Non mi sentivo un ladro, ma uno che condivideva una maniera di vivere forse discutibile vissuta in presa diretta in un mondo di frontiera. Quando giro un film cerco di vedere il mondo non solo dal mio punto di vista, ma anche da quello della gente che ho conosciuto, dagli amici di un tempo ai bagnini di salvataggio di Ostia che nelle lunghe estati sul litorale romano avevo frequentato vedendoli cambiare d’abito e diventare pescatori di notte. Salivo con loro in barca, di sera, per andare a pescare e li aiutavo a tirare a bordo con le reti vongole e telline».
Dopo Monicelli viene Daniele Luchetti.
«Una persona a cui devo moltissimo. Gli feci da assistente su Il portaborse con Silvio Orlando e Moretti e poi, quasi come conseguenza naturale, finii sul set di Caro Diario con Nanni».
Chi è stato davvero Moretti secondo lei?
«Non solo un intellettuale e un grande autore, ma un notevolissimo e mimetico autore di commedie che ha saputo, come solo sono stati capaci di fare certi artisti di un’epoca lontana, mettere l’accento sul cambiamento dei tempi, sulle trasformazioni, sui desideri che preludono alle degenerazioni, su tante cose non tutte identificabili a prima vista».
Pochi anni dopo Caro Diario lei fa il suo esordio da regista.
«Grazie soprattutto a Daniele Luchetti che all’epoca girava moltissime pubblicità e che mi segnalò a un’agenzia. Girai uno spot per una birra, vinsi qualche premio e poi girai un altro spot per l’Atlante De Agostini allegato al Corriere della Sera. Il giornale vendette benissimo, la pubblicità venne vista da qualche produttore cinematografico e un giorno mi telefonò Galliano Juso».
Storico produttore di tanti film con Tomas Milian.
«"Devi fare il cinema, ci penso io” mi disse. Avrei dovuto fare un film con lui, ma poi arrivò Rita Rusic con la proposta di fare il seguito de La scuola. Accettai anche perché intorno a Rita e Vittorio Cecchi Gori in quel momento si respirava un grande entusiasmo: c’era Albanese, c’era Pieraccioni, c’era una stagione di autori che Rita andava a cercare per farli esordire. Devo tanto a Luchetti, ma devo tanto anche a lei e a Vittorio».
A chi altro deve qualcosa?
«A tutti quelli che sono stati capaci di sorprendermi con la loro spontaneità. Agli attori non professionisti de La guerra degli Antò, il mio secondo film che ebbe un esito limitato, ma al quale sono molto legato, a Piera Degli Esposti che aveva già dei seri problemi di respirazione e che sul set ritrovava la felicità e l’entusiasmo dei bambini. Venne da me con l’idea di rinunciare al ruolo e mi disse: “Riccardo mio, ma secondo te posso recitare con tutti questi tubicini?”. “Ma tu sei Piera degli Esposti, scherzi? Puoi fare tutto quello che vuoi"».
E lei?
«Felicissima. Scherzava, rideva, batteva i pugnetti. Abbiamo diviso notti e notti a mangiare ricotta, a raccontare barzellette, ad ascoltarla perdersi nei suoi racconti meravigliosi. Dimenticava la sofferenza e si trasformava in un’altra. Una dote delle attrici, delle vere attrici».
Non si poteva giurare che tutto quello che raccontasse Piera fosse vero, però ascoltarla somigliava a un bel viaggio.
«Mi ricordo Franca Valeri a una premiazione, parlava già a fatica, si muoveva male e aveva bisogno dell’aiuto dei suoi accompagnatori e si capiva a malapena cosa dicesse. Poi la chiamarono, mise i piedi sul palcoscenico e rivelò un’energia misteriosa e magnetica che forse non immaginava di possedere ancora nemmeno lei».
Degli Esposti diceva: «C’è chi reprime la parte infantile e chi la sotterra, io la tengo viva e non perché mi piaccia farmi dire dagli altri quanto il mio spirito sia ancora vivo, ma per egocentrismo, per essere al centro della scena, altrimenti non farei l’attrice». Lei un’attrice, Paola Cortellesi, l’ha sposata. Di voi, come coppia, si sa poco.
«Condividiamo l’idea di un mestiere che considera distacco e misura come elementi di grazia. Paola è nata in un quartiere molto popolare, in una periferia quasi estrema di quelle periferie in cui Roma quasi non è più Roma. Penso che quella cosa abbia avuto un peso: sai da dove vieni e sai tenere i piedi per terra».
Ha detto: «Sognavo un uomo che come mio padre si emozionasse alle recite dei figli e ne ho trovato uno simile».
«È vero, alle recite mi emoziono, ma mi scappa anche da ridere. Quando siamo insieme fatichiamo a guardarci perché la tentazione di buttarla in caciara è sempre presente e abita entrambi».
Il successo è una trappola?
«Paola dice spesso: “guarda il meteo e preparati perché dall’alto può arrivare qualsiasi cosa”. Sa che c’è? Al lavoro dedichiamo anima e corpo, dedichiamo la vita e lo facciamo con passione, ma sappiamo che la vita è fatta di tante cose molto più importanti del successo o del tracollo di un film».
Cosa le piace davvero del cinema?
«La condivisione di un progetto. Il set, quel brulichio costante di sessanta persone che hanno il medesimo obiettivo. Io penso e non lo dico retoricamente che tutti i collaboratori abbiano un peso importante per raccontare una storia. La troupe è la mia comunità ideale».
Nella sua comunità ideale hanno trovato posto Giorgio Gaber e Gigi Riva.
«Ho deciso di fare dei documentari su due figure enormi per raccontare il coraggio, la volontà e la capacità di non omologarsi, di rischiare, di essere scomodi e di fare scelte apparentemente incomprensibili al solo scopo di rispettare la natura intima più nascosta e profonda. Gaber e Riva potevano guadagnare molto di più e hanno preferito fare le cose che sentivano di fare».
«Non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare definitivamente vigliacchi» diceva Gaber.
«Sia Gaber che Riva hanno saputo mettere in evidenza la vigliaccheria altrui. Quando i modelli non fanno discorsi, ma danno l’esempio con i comportamenti accade così. Lei non ha idea di quanto mi manchi Riva. Quel portone un po’ malandato, la sua voce che dice mi dice “entra, vieni quando vuoi, questa è casa tua”, la nuvola di fumo, le ore trascorse in silenzio a dirci forse mezza parola. Conoscerlo è stata un privilegio gigantesco».
Se si dovesse raccontare a qualcuno che non la conosce, cosa direbbe di sé?
«Nulla. Il meno possibile. Sono quello che ero sessant’anni fa, uno a cui piace ascoltare e parlare poco, uno che sa chiedere scusa, uno che sa dire grazie, uno che prova a prendersi le proprie responsabilità, uno che ha avuto tanta fortuna e prova a non dimenticarselo».