Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  agosto 30 Sabato calendario

L’unità segreta a caccia dei reporter

Nell’esercito israeliano esiste un’unità speciale chiamata “Legitimization cell” che produce materiale propagandistico volto a screditare i giornalisti palestinesi e, talvolta, a giustificarne l’uccisione. Lo ha rivelato un’inchiesta di Yuval Abraham – co-vincitore del premio Oscar con il documentario “No Other Land” – pubblicata sul magazine israelo-palestinese +972mag. Stabilita subito dopo la strage del 7 ottobre, la cellula nasce con l’obbiettivo di disinnescare la crescente indignazione della comunità internazionale sulle stragi dei reporter a Gaza, e opera raccogliendo dati sui lavoratori dell’informazione attivi nella Striscia selezionandone alcuni «da poter dipingere come agenti di Hamas sotto copertura», scrive Abraham. Secondo le numerose fonti dell’intelligence israeliano raccolte dal team di inchiesta di +972mag l’unità speciale non è stata creata per ragioni di sicurezza ma per la necessità di ripulire l’immagine dello Stato ebraico. «Significa che il problema di Israele non è connesso a ciò che i giornalisti fanno ma a quello che dicono» spiega a La Stampa Meron Rapoport, giornalista israeliano di +972mag che ha lavorato insieme a Abraham sull’inchiesta. «Se ci fosse la pena di morte per ogni collega che fa informazione non obbiettiva, rimarrebbero una decina di giornalisti nel mondo», aggiunge.«Il lavoro dell’unità speciale di legittimazione è stato fondamentale per prolungare la guerra», rivelano le loro fonti. Si tratta di una intensa ricerca di informazioni che possa connettere il volto di Hamas non solo ai giornalisti ma anche a scuole, ospedali, zone dove ai civili doveva essere garantito un luogo sicuro. «L’idea consisteva nel trovare ragioni per continuare le operazioni senza pressioni, affinché Paesi come l’America continuassero a fornire armamenti», affermano le medesime fonti. Gli stessi sostengono che l’unità speciale, in più di un caso dall’inizio della guerra, abbia fornito informazioni devianti all’intelligence delineando profili che fossero etichettatili come «target, terroristi da attaccare». «Il portavoce dell’esercito ha confermato l’esistenza di questa cellula propagandistica volta a delegittimare il lavoro dei giornalisti», riprende Rapoport. E la “Legitimization cell” sta avendo i suoi effetti: diversi giornali italiani e internazionali, all’indomani dell’uccisione del giornalista di Al Jazeera Anas al-Sharif – apertamente rivendicata da Israele – ne hanno parlato come il «giornalista terrorista».«Non è una novità che gli israeliani promuovano campagne di propaganda per giustificare la morte dei giornalisti palestinesi», spiega a La Stampa Muhammad Shehada, analista e scrittore di Gaza, che collabora, tra gli altri, con +972mag e Haaretz. In una inchiesta connessa a quella di Abraham, ha fornito diversi esempi passati di giornalisti uccisi dall’esercito israeliano con la scusa che fossero agenti di organizzazioni terroristiche. Un esempio è Yasser Murtaja, eliminato da un cecchino israeliano nel 2018 in quanto «operatore di Hamas». «Si è poi scoperto che Yasser era stato arrestato e picchiato proprio da Hamas nel 2015», aggiunge Shehada. «Dal 7 ottobre è cambiato tutto – continua –. Israele ora sistematizza la raccolta di informazioni su ogni singolo reporter a Gaza, scavando a fondo e spesso elaborando prove false da pubblicare in blocco nel momento in cui viene ammazzato». Dall’assassinio di al-Sharif e della sua squadra la paura regna sovrana: sempre meno giornalisti sono disposti a lavorare, certi di essere bersagli, e sempre meno civili sono disposti a raccontare ai giornalisti le loro storie drammatiche. «Perché dovrei farti vedere le gambe amputate di mio figlio se tanto poi nessuno agisce? Perché condividere al mondo cose così intime? Netanyahu non vuole testimoni e ormai anche la gente comune ha paura di parlare», conclude Shehaba. Forse, dopotutto, Israele non sta perdendo la guerra di informazione.