Corriere della Sera, 30 agosto 2025
Contro la barbarie digitale
La pagina Facebook «Mia moglie» era una schifezza. Ma non è con il disgusto che si risolve il problema. Neppure con lo sdegno e le condanne morali, arrivate da molte donne.
D obbiamo metterci in testa che questi comportamenti, per qualcuno, sono un affare. Chi crea certe pagine social e certi siti web sa di poterlo fare. Le piattaforme vogliono traffico, che porta soldi. L’eccesso, la provocazione e l’umiliazione sessuale ne producono in abbondanza.
Non potendolo dirlo apertamente, i giganti del web si sono inventati paladini della «libertà di espressione». E l’amministrazione Trump è dalla loro parte. Ogni tentativo di regolare la rete e i social viene etichettato come «censura». Eravamo increduli quando il vicepresidente JD Vance, a Monaco di Baviera, in febbraio, ha accusato l’Unione europea d’essere ostile alla democrazia. Ma era solo l’inizio. Ogni regola per proteggere i cittadini online, per gli Usa, è un attacco alla libertà.
È una sciocchezza e un’ipocrisia. Se accettiamo che il web sia un mondo parallelo, dove tutto è consentito, prepariamoci al peggio. Mettiamocelo in testa: non c’è più “il popolo della rete”; in rete ci siamo tutti, ormai. Non esiste più il «mondo virtuale»: quello che accade online tocca profondamente le nostre vite. Chiedete alle donne umiliate su «Mia moglie» e «Phica.eu» se non è così.
Su questo giornale, in molti, da almeno quindici anni, proviamo a spiegare che l’irresponsabilità delle piattaforme digitali è pericolosa. Ma c’è chi lo nega. Esiste una destra anarcoide che approfitta dell’ingenuità del pubblico, e si vanta di non conoscere regole o limiti. «Perché noi siamo liberi!», grida. E la nostra libertà di non essere offesi, diffamati, insultati? Per certi maschi vomitare oscenità su una donna è un diritto. E il diritto di quella donna non esiste?
C’è la legge!, dirà qualcuno. Purtroppo no: il codice penale è penosamente arretrato, quando si tratta di combattere questi fenomeni. Anche la ricerca dei responsabili è complessa, spesso impossibile, se le piattaforme non collaborano. Quando lo fanno – tardi e malvolentieri – è perché costrette dalla pressione generale. Il gruppo «Mia moglie», attivo dal 2019, è stato chiuso solo dopo che i media hanno fatto scoppiare il caso.
Meta (casa madre di Facebook) collabora alle indagini? Sta fornendo i dati identificativi dei mariti che si muovono dietro un nickname? La Polizia postale ha salvato con tecnica forense il gruppo prima che lo chiudessero? Perché il rischio è che i partecipanti si spostino altrove: stanno già nascendo nuovi gruppi su Telegram. Mi scrive l’avvocato Marisa Marraffino, che da anni assiste le vittime delle violenze digitali: «Nonostante il Digital Services Act e altre norme a tutela della privacy, siamo lontani anni luce da una sicurezza delle comunicazioni via social».
Se non siamo in grado di proteggere l’intimità di una donna, e la serenità dei minori, dobbiamo saperlo: la barbarie non si fermerà. L’anarchia aggressiva dei social ha già provocato disastri, dovunque. Interferenze elettorali, violenze, suicidi, stupri di gruppo, pulizia etnica. Nel 2016/2018 il pogrom contro la minoranza Rohingya in Myanmar è partito dalle falsità e dall’odio su Facebook, ricorda Yuval Harari nel suo libro Nexus. Una storia delle reti di informazione. Se l’unico comandamento delle piattaforme è l’engagement – quanta attenzione attirano, quanto tempo passiamo online, quanti soldi fanno – prepariamoci a un futuro fosco.
La barbarie digitale ha un solo merito: non si nasconde, ci grida in faccia i suoi pessimi propositi. Se non sapremo difenderci dalla «dittatura dei click» – con la legge europea e nazionale, per iniziare – pagheremo cara la nostra ignavia. Chi può fare qualcosa, a cominciare dal governo e della politica, lo faccia. In fretta. Inorridire davanti a chi esalta la violenza sessuale online è giusto, ma non basta.