il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2025
Alba Rohrwacher ha recitato con George Clooney
Alba Rohrwacher, come è arrivata a interpretare al fianco di George Clooney Jay Kelly, la commedia sul cinema di Noah Baumbach, in concorso a Venezia 82 e su Netflix dal 5 dicembre?
Quando è arrivato in Italia a fare i sopralluoghi, Baumbach mi ha detto che aveva immaginato un personaggio per me e lo aveva chiamato Alba. Mi sono sentita molto grata.
Chi è Alba?
Un po’ un sole, di ingenuità, entusiasmo, goffaggine e cuore aperto. Accompagna fino all’alba del giorno dopo Jay Kelly, una superstar di Hollywood, e lo porta dal padre, diventando suo malgrado testimone di un chiarimento, che ne onora il nome.
Qual è la cosa più eccitante di Clooney?
La sua generosità umana: nessuna posa, è veramente una persona gentile. Clooney è un attore capace di creare sempre dei momenti di verità, al pari Adam Sandler: con loro è stata una passeggiata.
Che cosa distingue un divo dal semplice attore?
Il divismo è una proiezione, qualcosa di lontano su cui proiettare sogni, ipotesi, desideri. Oggi, nel mondo social che avvicina e rende accessibile tutto, il divismo si va perdendo. George fa parte di quelle rare persone che sono rimaste divi e quindi beneficiano della nostra immaginazione.
In Italia si lamenta l’assenza di uno star system.
L’Italia ha questo limite, non sappiamo proteggere le cose belle che abbiamo, ci sottovalutiamo e sottovalutiamo anche ciò che produciamo. Nel sistema del cinema, non tendiamo a valorizzare qualcosa, ma a guardarlo come un episodio eccezionale: gli altri preservano, noi no.
Quest’anno è stata presentatrice agli Oscar e giurata a Cannes: riconosce una diversa percezione del suo valore all’estero?
Non mi pongo mai queste domande, sto concentrata sulle cose che faccio, e in genere mi devono piacere molto: questa è la mia sola “strategia”. Istintivamente sposo quel che mi riguarda, mi emoziona, e Baumbach è tra gli autori che più risuonano in me.
Perfezionista?
Nel lavoro sì, come Jay Kelly che chiede una seconda possibilità, di rifare la scena che sta girando. Sul set non ho paura di spostare il limite: magari casco, magari invece scopriamo un tesoretto. Nella vita no, sarei una persona infelice.
Baumbach ha scritto il film con Emily Mortimer, attrice: lei non ci ha mai pensato?
Se un regista che stimo mi chiamasse, forse. Emily, però, è una vera sceneggiatrice, scrive, immagina, ha intuizioni geniali.
Con sua sorella Alice, e come molti altri, ha firmato l’appello di Venice 4 Palestine.
Penso che sia bello e importante stare qui a Venezia, presentare i nostri film, parlare di arte, ma non va dimenticato per un secondo quello che sta succedendo, la politica scellerata di Netanyahu, questa mostruosità. Ho vergogna di appartenere all’essere umano che oggi è capace di armarsi, di combattere, di uccidere.
E la richiesta di V4P a Biennale di ritirare l’invito a Gal Gadot e Gerald Butler?
Non direi mai a qualcuno di non venire qui, anzi, direi: ‘Vieni e confrontati’. Ma non è questo il punto per me adesso, non voglio che questa polemica oscuri la questione, crei nebbia su qualcosa di talmente importante, che è quello che accade a Gaza.
Prima che la Palestina diventasse il tema centrale di Venezia 82, si disquisiva del genere dei registi italiani in concorso, cinque uomini.
Credo che l’arte non abbia genere. Ritengo che non si possa scegliere un film rispetto al genere della persona che lo ha fatto, ma penso che il sistema in cui viviamo e lavoriamo sia un sistema fallato, che deve trovare un equilibrio. Rispetto a delle logiche di inclusività: ci sono possibilità ridotte per le donne, squilibri salariali, bisogna attuare delle forzature per rimettere le cose in sesto e poi ripartire.
Oggi consegna il Premio Bresson al francese Stéphane Brizé, con cui ha girato Le occasioni dell’amore e il nuovo film.
È un regista della mia vita, mi ha insegnato tantissimo, è capace di trovare nei personaggi che mette in scena una verità profondissima. Stéphane Brizé è un maestro.