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 2025  agosto 29 Venerdì calendario

L’articolo insurrezionale di Thierry Breton

Nuove minacce di sanzioni arrivano dall’altra parte dell’Atlantico, rivolte all’Europa e a chiunque osi far rispettare il Digital Services Act (DSA), la normativa dell’UE che regola le grandi piattaforme social. Queste minacce sono accompagnate da nuove barriere commerciali e da restrizioni tecnologiche senza precedenti.Fino a che punto noi, cittadini dell’Unione europea, accetteremo di sottometterci? Sottometterci a chi vuole imporre le proprie condizioni, le proprie regole e i propri tempi. Sottometterci a chi presume ora di dettar legge sui nostri principi democratici e morali fondamentali, sulle regole della convivenza, persino su come proteggiamo i nostri figli sui social media.Perché, e in nome di cosa, dovremmo abbandonare le nostre leggi – come il DSA e il DMA – leggi approvate con chiarezza, coraggio e convinzione dalla schiacciante maggioranza dei nostri deputati europei (*)?Si sta aprendo un divario sempre più ampio di incomprensione tra l’Europa e gli Stati Uniti in materia di regolamentazione digitale. Un divario che viene sfruttato senza sosta dalle grandi piattaforme – per lo più americane. Ed è profondamente deplorevole. Perché regolare lo spazio dell’informazione non è un’opzione: è una condizione necessaria per trasformare i ristretti interessi commerciali di pochi in un vero contributo al progresso umano e al bene pubblico.Nel corso della storia, l’umanità è stata capace di organizzare e regolamentare la terra, il mare e lo spazio aereo. È questo il compito e la prerogativa degli Stati sovrani, essenza stessa della loro sovranità. Rinunciare oggi a dare forma al quarto dominio, lo spazio dell’informazione, delegandolo a una ristretta cerchia di soggetti privati, significherebbe compiere una storica abdicazione della res publica, della volontà politica e dei nostri ideali democratici.In verità, il DMA e il DSA non sono altro che una naturale estensione dei principi e delle leggi che regolano il nostro mondo fisico, ma nel mondo digitale. In una parola: Diritto. L’Europa è il primo e unico continente ad aver compiuto questo passo coraggioso. Ha tutte le ragioni per esserne orgogliosa.E sia chiaro una volta per tutte: regolare lo spazio digitale non è mai stato, e mai sarà, un attacco alla libertà di espressione. Questa è stata una preoccupazione legittima e richiesta centrale del Parlamento europeo.In quanto continente libero di definire le proprie leggi e le proprie politiche, l’Europa rimane un mercato aperto. Ma questa apertura è condizionata: le nostre leggi devono essere rispettate. La nostra sovranità democratica deve essere tutelata. Questa condizione non è negoziabile. Né in vendita. Le piattaforme, qualunque sia la loro origine, devono ora conformarsi al nostro assetto democratico se vogliono accedere ai nostri mercati o offrire i loro servizi. In caso contrario, andranno incontro a sanzioni severe: sanzioni che la Commissione europea è tenuta ad applicare con rapidità e fermezza.Nessun dazio, nessun tentativo di ostacolare chicchessia, nessuna volontà di proibizione nel nostro spazio digitale europeo. Una scelta che si contrappone nettamente a ciò che gli Stati Uniti sono invece riusciti a imporre nello spazio fisico delle merci e degli scambi commerciali. Oggi lo vediamo con chiarezza: un nuovo quadro tariffario unilaterale statunitense grava pesantemente sull’intero nostro continente. Ed esige una seria riflessione.Diciamolo senza giri di parole: un’altra strada sarebbe stata possibile, una scelta che non implicasse sottomissione. Si sarebbe potuto scegliere un altro metodo: non una resa preventiva, ma un vero equilibrio di potere tra partner alla pari.Perché l’Europa, ovvero il più grande partner commerciale degli Stati Uniti, non ha ricevuto lo stesso trattamento di Messico e Canada, i cui volumi di scambio con gli USA sono analoghi? Dopo lunghe e intense trattative con l’amministrazione Trump, entrambi i Paesi hanno ottenuto l’esenzione totale dai dazi su oltre il 90% delle loro esportazioni, e riduzioni tra il 25% e il 50% sulle categorie rimanenti. Il loro tasso medio complessivo di dazio è oggi inferiore al 4%. Quattro mesi di negoziazioni durissime, faccia a faccia, tra Messico, Ottawa e la Casa Bianca hanno portato a questo risultato. E quella battaglia è stata decisamente utile.L’Europa, giustamente, aveva avviato le trattative dalla stessa posizione – zero per zero – su un ambito altrettanto ampio. Perché allora ha finito per abbassare la guardia, accettando un dazio europeo del 15%, pur garantendo zero dazi sulle importazioni statunitensi in Europa, compresi i prodotti agricoli?E non basta: per poter beneficiare di questo cosiddetto “prezzo amico”, l’Europa si trova ora costretta ad acquistare 750 miliardi di dollari di gas di scisto e altri idrocarburi americani, e a investire ogni anno ulteriori 200 miliardi di dollari nell’economia statunitense, oltre ai 300 miliardi già esistenti.È davvero questo il miglior accordo che l’Europa poteva sperare di ottenere?Ci è stato detto che capitolare fosse meglio che affrontare l’incertezza e il rischio di una guerra commerciale. È vero: spesso la guerra si conclude con la resa. Ma dopo aver ceduto così tanto per assicurare una presunta stabilità tariffaria – richiesta comprensibile da parte delle nostre imprese – quali garanzie concrete, quali assicurazioni a lungo termine abbiamo effettivamente ottenuto?E se l’Europa dovesse essere “punita” di nuovo? Magari per non aver acquistato abbastanza gas americano, o per aver deciso di destinare quelle centinaia di miliardi alla propria economia e ai propri posti di lavoro anziché agli Stati Uniti?Ci è stato detto che l’umiliazione fosse il prezzo da pagare per la stabilità. Ma se non ci alziamo ora, ci ritroveremo con entrambe: umiliazione e instabilità.È giunto il momento di reagire. Che le forze dell’Europa si uniscano e proclamino, forte e chiaro:ENOUGH IS ENOUGH, ES REICHT, ÇA SUFFIT, ADESSO BASTA, DOSC TEGO, YA BASTA.Europa, alzati! —Ex Commissario europeo per il Mercato Interno
e gli Affari Digitali. Ex Ministro dell’Economiae delle Finanze