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 2025  agosto 29 Venerdì calendario

Cristina Scarpetti: “Uccisi mia madre malata e ora porto io la sua croce”

Ci sono omicidi che somigliano più a una resa disperata che a un delitto, e che costringono a fare i conti con i limiti della resistenza umana e lo strazio di certe malattie. Cristina Scarpetti, 40 anni, madre di due figlie, a luglio è stata condannata in primo grado a 14 anni per aver tolto la vita a sua madre, Paola Scatena (le sono stati concessi i domiciliari, in attesa dell’appello).
Una madre che negli ultimi mesi si era trasformata: la demenza aveva deformato il suo volto, le sue parole, i suoi gesti. E Cristina, sua caregiver, che per 18 ore al giorno, spesso insonne durante la notte, le era rimasta accanto, non ha retto più. La sentenza è stata accolta da un applauso liberatorio in aula, perché racconta sì una colpa, ma riconosce anche una storia di cura, solitudine e dolore che in molti ha suscitato un sentimento di empatia e comprensione. Cristina accetta di parlarmi volentieri, perché vuole che le persone sappiano quanta disperazione ci sia, spesso, in chi si trova ad accudire un familiare affetto da demenza.
“Mia madre aveva solo 66 anni, si è ammalata a gennaio del 2024, all’improvviso. Un giorno un amico carabiniere viene al Todis dove lavoravo come cassiera e mi dice di averla incontrata al bar, di averla trovata molto strana perché continuava a parlare della lavatrice rotta in modo insistente”.
Poi?
Inizio a vederla stanca, prima a fare un sugo ci metteva 5 minuti, improvvisamente ci impiegava mezz’ora. La porto dal medico curante, lei scoppia a piangere. Il dottore dice che è depressione, non c’è da preoccuparsi.
Ti tranquillizza?
Molto, ho pensato ‘una depressione si cura’. Dico comunque a mio padre che per un po’ la mamma sarebbe rimasta a dormire da me. La mattina dopo, trovo mia madre che dondolava e ripeteva ininterrottamente: ‘Come facciamo, come facciamo’.
Cosa fai?
Ho chiamato l’ambulanza. Dopo alcune valutazioni la trasferiscono in un ospedale vicino Roma, in psichiatria. Il trauma di vedere il reparto psichiatrico è stato terribile: era legata mani e piedi, in condizioni terribili. Tutti i giorni da Passoscuro facevo 150 km tra andata e ritorno per andarla a trovare. Dopo 15 giorni è stata dimessa con diagnosi di depressione maggiore, doveva prendere dei farmaci. Ho chiamato il Caf e preso il congedo parentale, avendo una figlia piccola. Ho deciso che mi sarei dedicata a mia madre.
La situazione però non migliora.
Mi dicono di contattare un centro di igiene mentale, la porto lì. Il dottore la trova bene, le pillole le prendeva, ero più serena. Dopo 10 giorni però mia madre ha delle crisi terribili in cui mi chiedeva di stare a letto con lei tutta la mattina. Tremava, sudava, stava male.
Le tue figlie come vivevano la situazione?
Capivano che dovevo stare con la loro nonna, ma erano traumatizzate dall’averla vista cambiare così tanto dal giorno alla notte.
Cosa aveva tua madre?
Fa test cognitivi, risonanze, non c’era mai una risposta univoca. Io ero solo una cassiera del supermercato, dovevo fidarmi di quello che mi dicevano i medici, ma intanto lei aveva iniziato a essere violenta.
In che modo?
Mi mordeva, a mio fratello ha rotto un dito, non voleva lavarsi, la dovevo trascinare nella doccia, e mia madre quando era sana si faceva la piega tre volte a settimana.
Tornate in ospedale?
Un giorno ce la riporto per l’ennesima volta, mia madre aveva un occhio nero perché si era data una tazzina nell’occhio. Chiedo al primario di guardare i video sul telefonino che avevo girato per documentare le sue crisi.
Cosa ha risposto?
Che non doveva guardare i video per fare diagnosi. ‘Io se avessi tempo i test li farei a lei’, mi disse.
Passano alcuni mesi dall’esordio della malattia.
E io inizio a star male, non mangiavo, non mi lavavo, avevo sempre gli occhi persi, mi dondolavo, dicevo come mia madre ‘adesso come facciamo, come facciamo’. Mio padre si abbatte, vive male il declino di mia madre, era reduce da due anni di depressione e varie malattie, inizia a fare avanti e indietro al pronto soccorso pure lui.
Arriviamo a maggio 2024.
L’ultimo mese non esco mai di casa. Mia madre era ingestibile. Aggrediva spesso mio padre, magari lui stava cucinando e lei lo picchiava perché non voleva che papà stesse ai fornelli. Per darle i farmaci dovevamo tenerla ferma in tre.
A casa tua come andava?
Avevo paura che i servizi sociali mi togliessero le bambine, non facevo più le lavatrici, mi vergogno a dirlo, ma negli ultimi giorni andavano a scuola senza mutande.
E tu stavi sempre peggio.
Ho pensato di buttarmi sotto al treno a Palidoro, ho infilato la testa in una busta per soffocarmi. Volevo morire. Quella notte disgraziata lei non riesce a dormire, io mi addormento alle 5, ma erano 5 mesi che non dormivo. Mi sveglio alle 8, la bambina piccola piangeva disperata perché mia mamma nella notte era andata in camera sua, l’aveva spaventata. Io non mi ero svegliata. Mia figlia continuava a piangere disperata.
Perché?
Lei fa equitazione, non aveva il cambio che le preparavo sempre il giorno prima per andare a cavallo. Mi urla che non sono più sua madre, che pensavo solo alla nonna.
Poi?
Rimaniamo sole io e mia madre, lei mi aggredisce alle spalle mentre stavo preparando la lista delle medicine di papà. Abbiamo avuto una colluttazione. E l’ho strangolata.
A quel punto cosa hai fatto?
Ho mandato un messaggio a mio marito. Gli ho scritto: è morta. Sono arrivati i carabinieri, l’ambulanza, hanno provato a rianimare mamma, ma è morta poche ore dopo in ospedale.
In quelle ore in cui tua madre è stata tra la vita e la morte, cosa hai sperato?
Che morisse. Volevo solo che lei finisse di soffrire, preferivo portare io la croce per ciò che avevo fatto.
Tuo padre cosa ha detto?
Che per lui non sono colpevole, che mi avrebbero dovuto aiutare tutti di più.
Quando è stata pronunciata la sentenza in aula le persone hanno applaudito.
Il paese mi è stato accanto, sono stata inondata di amore, hanno fatto una raccolta fondi per pagarmi gli avvocati, il mio datore di lavoro ha continuato a pagarmi lo stipendio, in carcere mi mandavano pacchi.
Da chi ti sei sentita abbandonata?
Dallo Stato. Sono andata 14 volte all’ospedale in quei mesi, ho chiesto di ricoverare mia madre, li ho pregati, non sapevo gestirla a casa. Veniva imbottita di farmaci, la dimettevano, poi ricominciava tutto daccapo.
Sei stata in carcere, a Civitavecchia, un anno e due mesi.
E lì ho sentito che mia madre non mi ha mai abbandonata. C’era sempre una farfalla bianca che mi veniva vicino, nell’ora d’aria. Il giorno del processo la farfalla bianca mi aspettava fuori dalle mura. Prima della sentenza ho rispedito tutti i vestiti a casa a Passoscuro, avevo sognato mia madre che mi sistemava l’armadio. Sentivo che sarei uscita dal carcere, lo dicevo alle altre ragazze. Loro pensavano che mi stessi ammalando di nuovo, erano preoccupate per me, ma io stavo bene. Sentivo mia madre accanto.
In carcere cosa ti hanno detto le psicologhe?
Io e mia madre abbiamo avuto una psicosi condivisa, ero affetta da depressione maggiore. Il mio avvocato Alessandro Marcucci ha chiesto il vizio parziale che in primo grado non è stato riconosciuto.
Il ricordo più bello di tua madre?
Quando venne da me a Londra per i suoi 50 anni. Era il suo primo viaggio all’estero, io vivevo con 12 ragazzi e lei una mattina sparì. Era andata a far la spesa con la metro in un quartiere malfamato e ci cucinò pasta e lenticchie e una crostata di frutta grossa come il tavolo. Rimase una settimana a cucinare per tutti. Alla fine tornai in Italia con lei, mi mancava troppo. Amore mio.