la Repubblica, 29 agosto 2025
Internet doveva essere la biblioteca del nostro sapere: invece oggi diventa un rischio per la memoria
Ho incontrato per la prima volta Vinton Gray Cerf nel febbraio del 2014, durante un evento di Google intitolato Internet dono di Dio.Mi colpì la sua cortesia misurata. A un certo punto, con il tono pacato di chi sa pesare le parole, disse qualcosa su papa Francesco: «Il fatto che un uomo possa rivitalizzare così profondamente l’antica istituzione della Chiesa cattolica ci dice qualcosa della sua capacità di convogliare energie che vanno oltre le normali capacità umane». Da quella sera siamo rimasti in contatto. Con i suoi abiti impeccabili e l’eleganza da diplomatico del secolo scorso, Cerf non dà l’aria di un nerd. Eppure, è uno degli architetti della nostra epoca: insieme a Robert Kahn ha inventato il protocollo TCP/IP, la lingua che ha permesso ai computer di parlarsi e a Internet di nascere. A 82 anni, portati con disarmante grazia, resta una delle voci più lucide sul futuro digitale. Oggi che produciamo dati a velocità vertiginosa, è lui a ricordarci la fragilità di quella memoria che crediamo eterna solo perché affidata al “cloud”.Per descrivere il problema ha coniato un’immagine potente: digital vellum,la “pergamena digitale”. Come ilvellum medievale – pelle di vitello o di pecora fatta per resistere nei secoli – ha custodito testi e miniature fino a noi, così anche il digitale deve imparare a scrivere attraverso il tempo. Ma come, se un floppy disk di trent’anni fa è già un reperto da museo? Con Cerf ho parlato del futuro della memoria, delle responsabilità morali che comporta custodirla, e delle insidie di un mondo in cui le macchine non si limitano a registrare, ma imparano e interpretano al posto nostro.La memoria umana si modella nella carne e nella coscienza. Oggi, invece, siamo circondati da supporti digitali che rischiano di diventare illeggibili nel giro di pochi decenni. Come possiamo preservare la nostra umanità, che si fonda sulla durata, l’interiorizzazione e la trasmissione attraverso le generazioni?
«È un problema serio. Rischiamo un’età oscura digitale. Alcuni codici medievali hanno resistito mille anni. I dati digitali, invece, possono restare intatti ma diventare incomprensibili: i software si aggiornano, le macchine spariscono. Anch’io ho vecchi dischi rigidi perfettamente conservati, ma non posso più aprirli: i software aggiornati non sono compatibili, le macchine per interpretarli sono sparite. È come avere una biblioteca senza più chi sappia leggere l’alfabeto in cui è scritta. Non basta salvare i bit: dobbiamo preservare anche i contesti che li rendono interpretabili – sistemi operativi, programmi, architetture hardware. Solo così il futuro non troverà davanti a sé un muro di silenzio. Insomma, è come avere una biblioteca senza più chi sappia leggere l’alfabeto in cui è scritta».
Da sant’Agostino a Paul Ricoeur, la tradizione occidentale ha legato la memoria sia all’identità personale che a quella collettiva. Ma in un mondo dove tutto può essere archiviato, la memoria rischia di trasformarsi in un accumulo senza senso. Come facciamo a decidere che cosamerita davvero di essere ricordato?
«I numeri sono vertiginosi: nel 2025 produciamo 463 exabyte di dati al giorno. Conservare anche solo l’1% è impossibile. Occorre selezionare. Servono metadati: informazioni sulla provenienza, l’integrità, la collocazione. Così la memoria diventa leggibile, dotata di senso. Ma la selezione implica responsabilità etica: chi decide cosa resta e cosa si perde? Gli storici? Le istituzioni culturali? Algoritmi? Forse tutti e tre insieme. Ma non possiamo abdicare al discernimento: la memoria è una scelta di civiltà».
Potremmo immaginare una “filosofia dell’oblio” come antidoto alla compulsione digitale a preservare tutto? E cosa ci costa, come esseri umani, non dimenticare nulla?
«Noi già dimentichiamo molto: basta leggere un vecchio diario per accorgersene. In un certo senso i Large Language Models (LLM) funzionano così: ricostruiscono generativamente, come fa la memoria umana. Ma non riusciremo mai a ricordare artificialmente tutto ciò che registriamo: sarebbe economicamente impossibile».
Però che cosa accade quando la nostra memoria non è più mediata da corpi viventi, bensì da macchine?
«Per questo insisto sulla decentralizzazione. Nessun archivio unico, nessun monopolio: piuttosto una costellazione di archivi interoperabili, capaci di sostenersi a vicenda. È il contrario di un impero tecnologico, un ecosistema distribuito. E serve un principio guida: quella che chiamo “intenzionalità benevola”. Conservare non per profitto, ma per rendere i contenuti accessibili e preziosi alle generazioni future».
Mi fai qualche esempio?
«L’Internet Archive di Brewster Kahle, dal 1996, cattura e conserva pagine web, libri, software. GitHub ha sepolto nel permafrost delle Svalbard l’Arctic World Archive,una capsula di memoria pensata per secoli. Questi esperimenti mostrano che la memoria digitale può essere bene comune, non proprietà privata».
Ma chi porta oggi la responsabilità morale di decidere che cosa debba essere ricordato e che cosa possa essere dimenticato?
«Nessun soggetto unico. Università, biblioteche, archivi nazionali hanno già dimostrato di saper custodire. Penso anche alla Chiesa cattolica, con duemila anni di memoria. Ma c’è un problema: il modello economico. Senza sostenibilità, nessun archivio può durare».
Credo sia necessario riflettere anche sul ruolo dell’Ia: se diventa capace di interpretare documenti, testi e memorie, chi garantisce l’autenticità del significato?
«È una domanda cruciale. Oggi imodelli di intelligenza artificiale sono capaci di leggere, riassumere, parafrasare. Ma chi ci assicura che non distorcano il senso? Per questo si pensa a trattare gli agenti di Ia come fiduciari: entità che non solo danno una risposta, ma registrano anche il processo con cui ci sono arrivate. Questo permetterebbe agli esseri umani di verificare e criticare il loro lavoro. Resta però, a mio avviso, un punto fermo: l’interpretazione autentica deve rimanere umana. Non possiamo delegarla. Le istituzioni culturali, le comunità scientifiche, la società civile devono custodire l’ultima parola sul senso dei testi e degli eventi. L’Ia può supportare, mai sostituire, mai».
Prima hai fatto riferimento alla Chiesa che è stata a lungo custode della tradizione. Ma come può continuare a svolgere questo ruolo in un mondo in cui la tradizione stessa viene digitalizzata, frammentata e smaterializzata?
«Non penso che la digitalizzazione distrugga necessariamente la tradizione: potrebbe trasformarla. Come il passaggio dall’oralità alla scrittura o dalla matematica semplice a quella quantistica. Semmai, la digitalizzazione può permetterci di vivere nuove tradizioni e di rivivere quelle antiche in modi nuovi. La mia esperienza del testo è stata trasformata dalla digitalizzazione. Cercare è più facile; l’Ia aiuta nella composizione; la realtà virtuale e aumentata forniscono una base per nuove esperienze e nuove tradizioni. Alcuni aspetti della digitalizzazione ci stanno permettendo di comprendere meglio l’evoluzione della tradizione. Pensa alla ricostruzione della sequenza di scritti antichi che porta alla nostra Bibbia moderna. La digitalizzazione non dovrebbe essere considerata aliena alla tradizione o in qualche modo capace di eroderla».
È possibile salvaguardare uno spazio per la trascendenza in un mondo in cui tutto è malleabile, riproducibile ed emulabile?
«Eccoci a una domanda critica su artefatto e realtà. In che cosa differiscono? Perché un artefatto dovrebbe essere considerato meno reale? Che cos’è naturale? Il “naturale” non è forse il risultato di processi fisici, chimici o biologici? In che modo questi sono meno reali del prodotto di processi digitali? I processi digitali sono in qualche modo meno genuini dei cosiddetti naturali? Semmai, gli artefatti digitali possono aiutarci a comprendere il trascendente meglio di quanto possiamo senza quell’aiuto. Modelli e simulazioni possono darci una comprensione più profonda dei processi naturali».
Nel mondo digitale, la verità rischia di essere ridotta a pura coerenza logica. Come possiamo garantire che l’intelligenza artificiale rimanga al servizio della saggezza e non cerchi mai di sostituirla?
«Le Ia oggi sono inaffidabili. Non sono onniscienti, ma possono suscitare desiderio di verità e aiutare la ricerca di saggezza. Resta però responsabilità nostra gestirle. Sono strumenti potenti, nulla di più».