la Repubblica, 29 agosto 2025
Reportage dalla Cisgiordania
Il giorno nella vita di Abed Salama non è mai finito. Continua a sbattere sul muro che soffoca Anata, sulle libertà compresse e negate, sul cromatismo umiliante dei documenti di identità che definiscono gli orizzonti del possibile, verde, il suo, il colore di chi è nato in Cisgiordania e lì solo può stare, blu, quello di chi può persino andare a Gerusalemme. «Se è cambiato qualcosa dopo il libro? Mi piacerebbe ma no, va persino peggio, non c’è lavoro, non ci possiamo muovere, e ora su di noi incombe pure il Piano E1…», fa lui, Abed Salama, seduto al tavolo accanto a Nathan Thrall, lo scrittore americano che ha fatto conoscere al mondo il suo dramma familiare, rendendolo il paradigma dell’insopportabile quotidianità nel territorio occupato. Dove le tragedie non vengono mai una alla volta, si accavallano, e a quella di un figlio coinvolto in un terribile incidente stradale durante una gita scolastica si aggiunge il non poterlo andare a cercare nell’ospedale dove sta morendo, perché non si dispone del documento del colore giusto.A mezzogiorno, la via di Anata su cui affaccia il balcone di Abed è un carosello rumoroso di camion, auto non proprio nuove, odore di spezie e puzza di diesel. Adam, il figlio, ha portato il caffè, Abed l’ha bevuto e ora vorrebbe accendersi una sigaretta, si vede lontano un chilometro. «Il dottore mi ha fatto smettere, a gennaio compio 57 anni». Fino a poco tempo fa guidava l’autobus, portava gli studenti dal campo di Shoufat all’università. Ora si è preso una pausa. Su uno scuolabus ha perso l’altro suo figlio, Milad, 5 anni. Il veicolo si è ribaltato sulla dissestata Highway 60 dopo l’impatto con un camion, era il 2012. La strada è ancora dissestata.«Dopo l’incidente ho cancellato tutte le sue immagini dal telefono, avevo paura di incontrare i suoi occhi. Mi sono subito pentito e mi sono ritrovato a chiedere le foto di Milad a parenti e amici. Milad è sempre con me, ne percepisco la presenza, è l’angelo che mi sta vicino». E lo ha rimesso anche nel telefono, come salvaschermo.Tra Abed Salama e Nathan Thrall c’è qualcosa di più del legame professionale che ha portato il primo a raccontare il proprio dolore, il secondo a scriverlo. Sono diventati amici. «Ho capito che Nathan era la persona a cui aprire il mio cuore la prima volta che si presentato a casa mia, io gli ho parlato di Milad e lui ha pianto insieme a me. Grazie alle sue parole scritte, mio figlio vive». Abed Salama gli ha consegnato i segreti della famiglia, riportati nel libro che lo scorso anno ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa non fiction. Confidenze che hanno rappresentato per Abed lesliding doors della sua esistenza, come quando la cognata Lalya gli mentì sull’amata Ghazl (unico nome che nel libro è stato cambiato) e Abed finì per non sposarla. «La mia vita sarebbe stata sicuramente diversa, non sarebbe successo tutto questo».Tutto questo è Milad, il suo decesso, la disperazione della ricerca disperata e vana di quel giorno infame, quando lo scuolabus prese fuoco e morirono sei bambini e l’insegnante. «A Nathan chiesi soltanto di raccontare questa vicenda senza assumere la prospettiva israeliana. Una premura inutile, la mia… a volte penso che lui sia più palestinese di me». Ridono. Si vogliono bene, la vedono allo stesso modo.Haifa, la moglie di Abed, lavora all’emporio dall’altra parte della strada insieme alla figlia. «I soldati fanno incursioni tre o quattro volte alla settimana, ci vogliono ricordare che ci tengono in pugno, ci chiudono dentro Anata con il cancello giallo che quattro mesi fa hanno messo all’ingresso della città, sull’unica strada di uscita, perché siamo circondati dal muro». Un muro basso, grigio, lastre di cemento piantate a terraper impedire di avvicinarsi all’insediamento di Pisgat Ze’ev. «L’altro giorno i militari sono entrati armati nell’emporio, fucili spianati, c’era mia figlia, volevano arrestarla, le hanno preso il telefonino. Ho parlato col capitano israeliano, li ho calmati. Ecco come va ad Anata, due anni dopo l’uscita del libro. Va come prima, anzi peggio».Escluso il check-point di Shuafat, la via di fuga di Abed Salama continua a essere la strada dell’apartheid, la route 4370, che al posto delle aiuole centrali ha una barriera di calcestruzzo e acciaio di otto metri: da una parte passano solo le macchine degli israeliani, dall’altra quelle dei palestinesi e degli isreliani. Dalla casa di Abed sono pochi chilometri, ci si arriva attraversando il cancello giallo. Sempre che sia aperto.Anata e l’attiguo campo profughi di Shuafat non sono villaggi, sono città, insieme fanno 130 mila abitanti. Che condividono tutti lo stesso problema: essere nell’area della cosiddetta Grande Gerusalemme, che interessa al governo di Israele e ai coloni, e dove, non a caso, insiste anche il Piano E1, un progetto di urbanizzazione e viabilità ideato negli anni Novanta per collegare l’insediamento di Ma’ale Adumim (40 mila abitanti) con Gerusalemme. Approvato la scorsa settimana, prevede la costruzione di 3.800 nuove case per israeliani. Su terra palestinese.«È il modo per consolidare il controllo su Gerusalemme Est e spezzare in due la Cisgiordania», ragiona Thrall. Per mostrare l’estensione e le conseguenze dell’E1 ci ha portato con la macchina in alto, su una collina. Indica dei punti sulla vallata. «La metà dei coloni vive nell’area della Grande Gerusalemme. I negoziatori, gli americani e gli altri, ormai lo considerano un dato acquisito». Quella è Ma’ale Adumim, quella è la strada della segregazione, quella è Anata, quello è il muro di Anata, quella è la zona delle nuove abitazioni. Si vede tutto da quassù, l’occupazione spiegata e declinata. «Siamo sul Monte Scopus, alle spalle della prestigiosa Università ebraica di Gerusalemme. Con un grazioso giardino botanico che affaccia sull’apartheid». Abed Salama quassù non può venire, questione di documenti e di colori. Non la vede, dall’alto, la valle del prossimo insediamento. Ma ne percepisce l’espansione. Il Piano E1, per gli abitanti di Anata, è un’ombra che si allunga sulla loro esistenza già recintata. «Siamo spaventati, non sappiamo bene cosa succederà, se la città sarà sotto l’Autorità palestinese o sotto il governo israeliano. Qualcuno teme che chiuderanno il cancello giallo per sempre». È per questo che Thrall ha scelto di raccontare Anata. Perché, spiega, «è un microcosmo che contiene tutti i conflitti, tutte le contraddizioni del sistema dei documenti colorati e tutte le ingiustizie».Dove, se hai la carta di identità verde, ai check-point non passi. Neppure per andare all’ospedale di Gerusalemme dove tua figlia sta per partorire. Anche questa è successa un giorno nella vita di Abed Salama, l’anno scorso. «Viviamo in una prigione a casa nostra. Che ti fa sentire… qual è l’espressione giusta… un cittadino minore… siamo uomini che non sono uguali agli altri uomini…si dice così?». Sì, si dice così.