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 2025  agosto 29 Venerdì calendario

La crociata (in atto) contro il passato

Nel 1691 il vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet sostenne che il cattolicesimo era la meno tollerante di tutte le religioni, fa notare il sociologo Frank Furedi – nato in Ungheria ma a lungo insegnante all’Università del Kent nel Regno Unito – in La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica, appena uscito da Fazi editore. «Ho il diritto di perseguitarvi», diceva Bossuet, «perché io ho ragione e voi avete torto». I protestanti non erano da meno. Henry Kamen in Nascita della tolleranza (il Saggiatore) ha fatto notare come il sinodo vallone di Leida, costituito principalmente da rifugiati ugonotti, aveva condannato come se si trattasse di una forma di eresia l’apertura alla professione di altre religioni. Non vi era nulla di naturale nella tolleranza. Neanche la si concepiva. Se ne può dedurre che, senza il prevalere di comportamenti intolleranti e senza essere costretti ad affrontare le loro conseguenze distruttive, l’ideale della tolleranza non sarebbe mai esistito. L’idealizzazione dell’intolleranza precede la valorizzazione della tolleranza, scrive Furedi, «non solo cronologicamente, ma anche logicamente». In qualche modo è l’intolleranza che genera la tolleranza. E non vale solo per essa. Tutti i valori importanti del mondo contemporaneo, come la libertà e l’uguaglianza, sono sorti come «risposta al loro contrario». È stata la «capacità di imparare dall’esperienza del passato» che ha permesso alla civiltà di sviluppare atteggiamenti fondamentali che oggi influenzano il nostro modo di vivere. Ad un certo punto il disagio e la sofferenza di una parte della società – nei confronti dell’intolleranza, dell’assenza di libertà, della diseguaglianza e via dicendo – hanno suscitato un senso di repulsione in un numero relativamente ristretto di individui. Tuttavia, con il passare del tempo, la sensibilità di questo numero ristretto di individui si è imposta e ha influenzato settori più ampi della società. Per noi dovrebbe essere un obbligo approfondire il nesso tra questi concetti. E quanto sia importante non rinunciare a ciò che abbiamo conquistato. 
Norbert Elias in La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi nel mondo aristocratico occidentale (il Mulino) ha richiamato l’attenzione sul profondo cambiamento del comportamento umano nel corso del processo di civilizzazione che va dall’800 a.C. all’inizio del XX secolo. I cambiamenti hanno riguardato gli atteggiamenti verso la violenza, le forme linguistiche, il comportamento sessuale, le buone maniere a tavola e moltissime altre cose. Da Sigmund Freud, Elias ha preso il filo dell’interiorizzazione dell’autocontrollo nelle relazioni interpersonali. Leggendo questo libro si comprende che molti degli atteggiamenti che trattano con sufficienza il passato e lo considerano moralmente inferiore sono a loro volta il risultato del processo di civilizzazione descritto da Elias. La sensibilità morale che esige di espiare i presunti misfatti dei nostri antenati si è evoluta storicamente attraverso la «cristallizzazione dei valori civili». 
Dobbiamo lottare, scrive Furedi, per la nostra storia in modo da garantire che le conquiste della civiltà siano tutelate da coloro che cercano di indebolirne l’autorità morale. Ciò «richiede che ci impegniamo in una battaglia per proteggere alcune delle più importanti conquiste civili dei nostri predecessori». 
Come ha spiegato Alasdair MacIntyre in Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (Armando editore), «un senso adeguato della tradizione si manifesta nella capacità di cogliere quelle possibilità future che il passato ha messo a disposizione del presente». Sono «tradizioni viventi proprio perché proseguono una narrazione non ancora completata» e «si trovano di fronte a un futuro il cui carattere determinato e determinabile, nella misura in cui ne possiede uno, deriva dal passato». 
Ezra Pound considerava «la tradizione» – Saggi letterari (Garzanti) – come «una bellezza che noi conserviamo e non una serie di catene che ci legano». Inoltre, scriveva, «un ritorno alle origini rinvigorisce perché è un ritorno alla natura e alla ragione». Con tutte le evidenti contraddizioni che il ritorno alle origini porta con sé. 
Furedi sa bene che il processo di civilizzazione che lega gli uomini del XXI secolo ai loro antenati di migliaia di anni fa è stato spesso interrotto da ostacoli ed eventi che hanno minacciato di annullare le conquiste del passato. Ma nonostante le «periodiche esplosioni di comportamenti distruttivi e oppressivi», l’umanità si è sempre mostrata «in grado di avanzare e di costruire sulla propria eredità». Come se fosse all’opera «un meccanismo di autocorrezione che prima o poi reagisce alle violazioni della dignità umana e delle norme civili». 
Di conseguenza, «coloro che disprezzano il passato sono intrappolati in una quarantena temporale da loro stessi creata». Quando ridicolizzano alcuni aspetti della cultura dell’antica Grecia, «danno l’impressione di non tenere conto di nient’altro se non del fatto che la proprietà degli schiavi era diffusa in quelle città-Stato». Criticano il valore della scoperta della democrazia nell’antica Atene mostrandone i limiti, sostenendo che non era «vera fino in fondo», che il popolo era assai meno coinvolto nella gestione del potere di quanto si sia voluto far credere. E cercano così di sminuire il contributo della Grecia alla fondazione della civiltà occidentale mettendone in discussione la levatura morale. Eppure, sostiene Furedi, il mondo di oggi è molto più influenzato dallo spirito democratico degli ateniesi che dall’uso, peraltro strumentale, che facevano della schiavitù. 
Il fatto che l’eredità della democrazia ateniese abbia trionfato su quella della schiavitù «dimostra che la nostra è una storia di grande valore». 
Ci troviamo adesso alle prese non con un problema di reinterpretazione della storia ma con l’imposizione di una «forma egoistica di punizione collettiva». Punizione collettiva che attraversa il confine temporale tra passato e presente. Nella Bibbia, ricorda l’autore, è detto che il Signore «castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione». La versione attuale del peccato ancestrale sostenuta dagli «archeologi della rimostranza», ironizza Furedi, è molto più spietata: «I peccati del padre si trasmettono alle generazioni all’infinito». Proprio così: all’infinito. 
Il paradosso è poi che gli «imprenditori della rimostranza», del tutto a loro agio con «la trasmissione nel tempo di peccati commessi secoli fa», sono «totalmente ostili al valore persistente della tradizione storica». Dimenticano che «le tradizioni del passato non possono essere facilmente oscurate perché sono ancora vive dentro di noi, nel linguaggio che usiamo e nel modo in cui pensiamo».  
Stabilire una contrapposizione morale tra il presente e il passato non ha senso. Il passato non è moralmente superiore al presente, ma non dovrebbe nemmeno essere interpretato come «un’epoca che necessita della nostra guida morale». Le società storiche e quelle odierne «dovrebbero essere valutate e comprese in relazione alle circostanze e al contesto specifici del loro tempo». Il nostro compito è capire e imparare dall’ esperienza del passato «senza piegarla a un esperimento ideologico o politico retrospettivo». 
Il danno causato dalla vandalizzazione del passato è fin troppo evidente nel mondo contemporaneo. I giovani crescono con un debole e tormentato senso di relazione con ciò che li ha preceduti e sono le vittime della guerra contro il passato. L’imposizione della condizione di amnesia storica contribuisce a prolungare uno stato d’animo di malessere culturale. Intrappolata nel ginepraio presentista, la società occidentale, che un tempo si vantava di essere orientata verso il futuro, è ripiegata su sé stessa. 
Il libro di Furedi è stato concepito alle nove di una sera dell’ottobre del 2020 quando un commissariato di polizia a Portland, in Oregon, segnalò su Twitter un assembramento all’angolo tra Southwest Park Avenue e Southwest Madison Street. Alcune persone, diceva il tweet, «stanno cercando di abbattere una statua con una catena». Poco più di un’ora dopo, Abraham Lincoln era stato tirato giù dal piedistallo, «assassinato per la seconda volta». E le immagini erano state condivise velocemente online fino a raggiungere il computer dello studioso in Inghilterra. I responsabili di questo atto di «vandalismo insensato» fecero venire in mente a Furedi l’immagine di un linciaggio. Anche se con una differenza: il loro obiettivo era la statua inanimata di una persona morta più di un secolo fa. Era come se «avessero violato il passato per vendicarsi del presente». 
Fu in quel momento che Furedi si rese conto che è in atto, già da tempo, una guerra contro il passato. Pur non essendoci stata alcuna dichiarazione formale di tale guerra. Nessun colpo d’arma da fuoco. Non ne hanno parlato nemmeno i notiziari locali. Eppure, la guerra era ed è in atto. I colpevoli? Difficile individuarli. Coloro che sostengono l’attacco all’eredità della civiltà europea non sono membri di un partito. Non si sono pronunciati sui loro obiettivi e «non hanno mai formulato una visione strategica esplicita». Costituiscono una coalizione eterogenea di interessi e movimenti disparati. Lo storico inglese Jonathan Charles Douglas Clark è stato il primo a mettere in guardia dal rappresentare tale conflitto come la «conseguenza di una grande cospirazione». A suo giudizio questo fenomeno è il «risultato di un migliaio di azioni isolate, vagamente collegate tra loro, frutto delle sollecitazioni di idee diffuse e condivise». E anche, talvolta, quasi impercettibilmente in contraddizione l’una con l’altra. Tuttavia, ha sostenuto Clark, nonostante le varie sollecitazioni non siano coordinate, stiamo assistendo ad una «chiara impresa di diseredazione della storia». 
La crociata contro il passato, scrive Furedi, si è dimostrata molto efficace nell’alienare la società dalla sua storia. Le istituzioni pubbliche e private dipingono senza sosta il passato delle loro comunità con le tinte più fosche. Non è più necessario esortare le istituzioni educative e culturali a scusarsi di quasi tutti gli eventi passati. Lo fanno già come se fosse la cosa più naturale, iscritta nei loro doveri istituzionali. Perfino le straordinarie conquiste della civiltà umana, dalla filosofia greca alla rivoluzione intellettuale dell’Illuminismo fino alle invenzioni scientifiche della nostra epoca, ormai sono accusate regolarmente di presunta complicità con lo sfruttamento e l’oppressione. 
La rappresentazione del passato, attraverso una ricostruzione che ne mette in evidenza «la dimensione malvagia, oppressiva, sfruttatrice e violenta», non è limitata a pochi storici in cerca di notorietà. La frequenza con cui la storia viene raccontata come una vicenda di degrado umano indica che nella cultura popolare il passato possiede ormai la reputazione di «brutti tempi». 
Il quotidiano inglese «The Guardian» l’ha definita «guerra delle statue». Ma come aveva da tempo notato Andrew Gamble in Fine della politica? (il Mulino) non è questione solo di monumenti abbattuti. Chiunque visiti una galleria o un museo, nota Furedi, si trova di fronte a richiami inquietanti all’influenza nefasta del passato. Esiste «un vero e proprio esercito di archeologi della rimostranza, il cui compito è accusare di qualche colpa gli oggetti esposti». Qualsiasi dipinto o oggetto realizzato nel XVIII o nel XIX secolo «ha buone probabilità di essere direttamente o indirettamente associato al colonialismo o alla tratta degli schiavi». 
E se si va indietro, molto indietro nel tempo, il discorso è più o meno lo stesso. Nella Burrell Collection di Glasgow, la didascalia posta accanto al busto in bronzo di un giovane romano, databile tra il 100 a.C. e i due secoli successivi, recita così: «Gli artisti romani copiarono gli scultori greci, i quali usavano formule matematiche per stabilire quelle che credevano fossero le proporzioni perfette di un individuo; questo criterio è stato usato scorrettamente per promuovere idee razziste sulle proporzioni ideali dei volti». Una didascalia che, come migliaia di altre dello stesso genere, ci dice a che punto è questa guerra, la quale trova più di una connessione con i conflitti combattuti in armi che insanguinano il mondo contemporaneo.