Corriere della Sera, 29 agosto 2025
Irene Pivetti pronta per il carcere
Quando hai ricevuto una condanna a quattro anni di carcere per evasione fiscale e autoriciclaggio alla possibilità di finire davvero dietro le sbarre ci pensi. Lo fai anche se ti chiami Irene Pivetti e sei stata la più giovane presidente della Camera tra il 1994 e il 1996. Lo fai perché, oltre alla condanna in primo grado, c’è un nuovo processo da affrontare per una vicenda di acquisto di mascherine cinesi in epoca Covid.
«Ci penso e mi preparo anche a questa eventualità – risponde lei al telefono al Corriere, dopo il racconto rilasciato l’altro giorno a Il Giornale — ho le mie tristezze di mamma e ora anche nonna, ma ho capito che questo pensiero non può e non deve prendere il sopravvento sulla mia vita. Cerco di vivere anche questa situazione con equilibrio. Grazie a Dio, e non è una frase fatta, sono riuscita a riprendere la mia vita».
La fede la aiuta?
«Il Signore sa quello che fa e mi affido a lui».
Pensa che la sua notorietà e il fatto di chiamarsi Irene Pivetti possa aver giocato a suo svantaggio?
«Qualcuno lo pensa, ma io non credo al complotto. Penso piuttosto che il sistema ti condanna già solo per il fatto di fare impresa. In un attimo ti ritrovi sbattuta in prima pagina. Anche questo è parte del sistema che ti toglie dignità, rovina la tua immagine, ti annienta anche economicamente. Non mi vergogno a dire che ho fatto ricorso ai pacchi viveri della San Vincenzo, non mi hanno tolto la casa solo perché non l’avevo, ma ad altri è successo anche questo».
Non le fa male parlare della sua caduta?
«Non voglio destare pietà, io non mi sono mai lamentata. Racconto di me perché io ho la possibilità di farlo e voglio essere la voce di chi è nella mia situazione. Quanti imprenditori hanno perso tutto e poi sono risultati innocenti?».
Il momento più buio?
«Quando la Guardia di finanza si è presentata da me con un avviso di garanzia ho pensato subito a un errore, proprio perché sono un personaggio pubblico sono sempre stata attenta e scrupolosa. Invece sono finita in un tritacarne».
Nel novembre 2022 ha raccontato, in esclusiva al Corriere, la sua nuova vita a Monza, nel ristorante sociale «Smack» che dà lavoro ad ex detenuti e soggetti fragili. Serve ancora 100 pasti al giorno?
«Quando tutti mi chiudevano la porta in faccia e io non avevo i soldi per vivere devo dire grazie alla Cooperativa sociale Mac di Milano che mi ha teso la mano. Per me che ho cresciuto i miei figli a surgelati è stata una bella sfida. Per avviare il ristorante ho fatto di tutto. Vivevo in una camera in affitto sopra il ristorante, ero la prima ad arrivare alle 6,30 e l’ultima ad andarmene. Quando ho avuto il primo stipendio da mille euro ho capito che potevo farcela».
Continua ad essere impegnata nel sociale?
«Quell’impegno mi ha salvata. Continuo a dare una mano, torno a trovarli, mangiamo insieme».
La politica l’ha lasciata sola?
«Sì, ma non mi aspettavo nulla e non posso rimproverare nessuno».
C’è qualcosa che rimprovera a sé stessa?
«Non aver minimamente immaginato i risvolti del fare impresa in Italia, la possibilità di finire nel tritacarne. Non rifarei più l’imprenditrice».
La sua storia le fa dire che la giustizia in Italia deve essere riformata?
«Più che di separazione delle carriere metterei al centro il tema del rispetto dell’individuo. Se c’è davvero la presunzione di innocenza bisogna avere rispetto. Invece è un sistema perverso».