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 2025  agosto 28 Giovedì calendario

Storia dei centri sociali in Italia

Non è semplice definire che cosa siano o che cosa siano stati i CSOA, i centri sociali occupati autogestiti: «Per molti anni sono stati lo spazio del possibile, la spina dorsale dei movimenti, incubatori e detonatori delle lotte, spazi di elaborazione politica, di resistenza, di cultura e creatività» dice Fabrizio C., autore con questo nome del recente Il cerchio e la saetta, un libro che ne ripercorre la storia tra 1985 e il 1995, quando si espansero in tutt’Italia anche fuori dalle grandi città.
Nel libro, che raccoglie le voci di tante e tanti militanti soprattutto romani, qualcuno parla dei centri sociali come di «luoghi di vita liberata», qualcun altro spiega che hanno per decenni garantito la possibilità di fare attività politica «fuori dai partiti e dai sindacati» e di «vivere i quartieri in un momento storico in cui i quartieri erano desertificati». Altri citano una frase del quotidiano francese Le Monde che alla fine degli anni Novanta li definiva come il «fiore all’occhiello della cultura italiana» e altri ancora dicono, infine, che lì i «soggetti considerati inorganizzabili» si sono organizzati.
Per molti e molte che i centri sociali li hanno attraversati, a rappresentarli bene è un simbolo, utilizzato per varie esperienze nel Nord Europa e che in Italia è diventato quello dei centri sociali a partire dagli anni Novanta: un cerchio spezzato da una saetta, che dà il nome al libro di Fabrizio C., che non si firma con il proprio cognome perché «per anni e anni, il cognome è sempre stato quello della struttura o del collettivo di appartenenza». Il cerchio rappresenta «la città soffocante, chiusa nelle sue dinamiche alienanti, mentre la saetta simboleggia la spinta all’azione, la voglia di rompere gli schemi e rifiutare il conformismo», spiega.
gni centro sociale ha una sua storia, spesso caotica e a volte incoerente, una storia collettiva che coinvolge persone e generazioni diverse. Ma generalizzando, la storia dei centri sociali si può dividere in tre cicli: quello che va dalla loro nascita fino agli anni Ottanta, quello successivo al movimento studentesco della Panteradel 1989 e quello post Genova 2001.
Per Vincenzo Scalia, professore di sociologia della devianza all’università di Firenze e per lungo tempo attivista dei centri sociali bolognesi, la genealogia dei centri sociali non è difficile da individuare: «Comparvero a Milano a metà degli anni Settanta dove erano attivi i Circoli del proletariato giovanile», luoghi di varia natura come chiese sconsacrate, fabbriche dismesse, casali o cinema abbandonati che venivano occupati dai giovani che componevano il cosiddetto “proletariato giovanile”: operai, disoccupati, occupati in modo sommerso o saltuario, e anche studenti.
L’esperienza dei Circoli, prosegue Scalia, trovò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta una nuova forma e una nuova diffusione, con caratteristiche e connessioni con altre organizzazioni, collettivi della sinistra o parti di movimenti ogni volta diversi a seconda dei luoghi. Ad accomunarli era «la necessità di creare un’alternativa alla marginalità e ai problemi sociali delle periferie», dove mancavano asili, mense, trasporti, farmacie, biblioteche, ambulatori e altri servizi ancora. E «dove riqualificazione significava spesso speculazione». Il primo centro sociale a nascere fu il Leoncavallo, a Milano, nel 1975, di cui la scorsa settimana è iniziato lo sgombero.
Il periodo che precedette di poco la comparsa dei CSOA era complesso e di grande cambiamento per il paese. L’Italia aveva ormai superato il cosiddetto “boom economico”, la Fiat 500 che di quell’espansione era stata il simbolo era uscita di produzione e le manifestazioni studentesche e le lotte operaie agitavano le piazze. Erano poi gli anni dell’affermazione dei movimenti femministi, degli scontri di strada, degli attentati, dei sequestri e delle bombe, delle Brigate Rosse, delle organizzazioni terroristiche di estrema destra. Il tesissimo clima politico aveva provocato profonde divisioni nei movimenti della sinistra sulla questione della lotta armata, la feroce repressione giudiziaria aveva disperso molte energie e fiaccato un movimento politico enorme, e in generale l’azione fuori dalle istituzioni era diventata quasi impossibile.
I primi anni Ottanta, racconta Scalia, erano invece quelli «della crescita caotica delle periferie, quelli di un’Italia che si raccontava come la quinta potenza industriale del mondo, e che però sorvolava sulla deindustrializzazione delle aree metropolitane tradizionali, sui licenziamenti di massa, sugli 800 morti all’anno per eroina». Ed erano quelli, aggiunge Fabrizio C., della televisione commerciale, del «declino dell’impegno collettivo, dell’affermazione di un nuovo paradigma culturale dominato dall’individualismo» e di un modello di società «in cui il consumismo si diffondeva capillarmente, accentuando le disuguaglianze, e in cui la precarietà lavorativa e la disoccupazione giovanile cominciavano a farsi sentire in modo sempre più marcato».
Ma nel passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, non erano solo le città e la struttura sociale ad essere cambiate: di fronte all’espansione sregolata delle periferie, alla marginalità, alle carenze e ai bisogni insoddisfatti, le persone e la parte più radicale dei movimenti giovanili si organizzarono. In un modo differente rispetto al recente passato: senza alcun rapporto, innanzitutto, con le organizzazioni politiche più stabili e tradizionali, e con il desiderio di trovare modi nuovi rispetto a quelli della generazione precedente.
Nei primi anni Ottanta, racconta Peppe del collettivo autonomo romano del Policlinico nel libro di Fabrizio C., si era «tornati fuori (…), non si trattava più solo di mantenere una presenza in piazza per difendere il diritto a manifestare». Nel luglio del 1983 venne convocata una manifestazione nazionale contro il carcere di Voghera, iniziarono l’opposizione al riarmo nucleare e le proteste contro l’installazione di missili Cruise nella base NATO di Comiso, con campeggi, blocchi e mobilitazioni. Nel 1985 il movimento studentesco, che partecipò al movimento antinucleare, organizzò una serie di proteste contro la proposta di legge per la riforma della scuola della ministra dell’Istruzione Franca Falcucci, rilanciando l’idea delle autogestioni.
Cominciò insomma, racconta sempre Peppe, «un periodo di ripresa, di riconnessione tra compagni a livello nazionale e anche internazionale». E arrivò ben presto il tempo, ricorda Scalia, «in cui lo slogan “rompere la gabbia, uscire dal ghetto” si stava avverando». L’obiettivo era tornare a fare politica nei quartieri e riappropriarsi degli spazi urbani, occupando gli edifici abbandonati. Le occupazioni, dice Fabrizio C., «rappresentavano una forma di rivendicazione del diritto alla città, città che gli interessi politici ed economici vedevano solo come un valore di scambio».
Intorno alla metà degli anni Ottanta a Roma vennero occupati l’Hai Visto Quinto? (chiamato poi più comunemente Sisto V), il Blitz, il Forte Prenestino, e poi il Break Out e La Torre, tra gli altri. Nacquero lo Spaziokamino a Ostia, il TNT a Jesi, El Paso Occupato a Torino, il Pedro di Padova, il CPA di Firenze, il Tuwat a Carpi, la Giungla a Bari, e altri ancora in molte parti d’Italia.
Erano luoghi aperti, influenzati dalle nuove culture giovanili transnazionali come il punk, in cui nacque l’idea di “bene comune”: luoghi rivalutati non in senso economico ma sociale, che in molti casi sopperivano alle mancanze dello Stato organizzando i servizi più diversi a prezzi popolari o gratuiti: doposcuola, scuole popolari, mense, laboratori e molto altro ancora. Luoghi raccontati fin da subito in modo distorto dai media mainstream e sotto continua minaccia di sgombero.
Gli anni Ottanta italiani, racconta Fabrizio C., «si chiusero con un’esplosione di entusiasmo e speranza: una generazione uscì dall’isolamento e cercò di diventare protagonista del proprio futuro». Si chiusero con due eventi importanti. Il primo fu lo sgombero violento del Leoncavallo a Milano nell’agosto del 1989, che diventò decisivo per tutto il movimento e a cui seguì la prima assemblea nazionale dei centri sociali, dal titolo “Contro i padroni della città”. Il secondo fu l’inizio, quello stesso anno, del movimento studentesco della Pantera, che prima all’università di Palermo e poi alla Sapienza di Roma e altrove si organizzò per opporsi alle riforme che iniziavano a favorire i finanziamenti privati. Il movimento difendeva l’idea che le università fossero luoghi di sviluppo del pensiero critico, e chiedeva maggiore coinvolgimento degli studenti nei processi decisionali.
Finite le occupazioni e le manifestazioni nelle università, coordinate da nord a sud grazie ai nuovi mezzi di comunicazione come il fax e i primi sistemi di posta elettronica (come la rete Okkupanet), molte persone che vi avevano partecipato si spostarono nei centri sociali. E inaugurarono un ciclo di forte espansione che sarebbe proseguito per tutti gli anni Novanta. Nacquero dunque nuove realtà e nuove occupazioni (Officina 99 di Napoli e l’Askatasuna di Torino, solo per dirne alcune) che portarono avanti nuove modalità di fare politica e nuove forme di socialità: basate sulla condivisione, sull’autogestione, sull’autoproduzione, sulla combinazione della dimensione culturale e sociale.
Una modalità originale in cui, dice Fabrizio C., «l’organizzazione del movimento e il divertimento non erano più separati. E centinaia di giovani ragazzi e ragazze, non per forza politicizzati, si riversarono nelle occupazioni perché vedevano in quegli spazi delle enormi possibilità d’espressione».
La musica autoprodotta, i graffiti, le Posse (formazioni musicali alternative), le sottoculture underground, il reggae e più avanti la cultura rave, furono tra i principali fattori di aggregazione intorno ai CSOA: erano mezzi di denuncia politica e sociale, rappresentavano una contestazione delle logiche della mercificazione e dell’industria consumistica del divertimento, ma erano soprattutto un’alternativa concreta fuori da quelle logiche.
Negli anni Novanta quella generazione cresciuta negli spazi occupati e autogestiti non si limitava a contestare il sistema, «voleva costruire un’alternativa concreta facendo le cose alle proprie condizioni e con le proprie regole: etichette indipendenti, distribuzione indipendente, fino ai service e quant’altro», dice Fabrizio C. E così, i concerti, i dj set, il cinema, il teatro, i laboratori, le radio, le fanzine (riviste autoprodotte di carattere culturale), le case editrici, «tutto era fatto in autonomia, nei propri spazi, con le proprie persone. Nessuna trattativa con il mainstream, nessun compromesso».
In certi casi ci furono però dei punti di contatto con il mainstream: nel 1993 Gabriele Salvatores scelse alcune Posse per la colonna sonora del film Sud, facendo un tour di presentazioni per i CSOA italiani, e altri gruppi finirono in tv, nella trasmissione Avanzi. Il mainstream insomma cercava e trovava nei centri sociali elementi di vitalità culturale e artistica. «Oggi accade esattamente il contrario: troppo spesso sono gli spazi sociali a cercare visibilità attraverso il mainstream. Un altro ribaltamento significativo», dice Fabrizio C.
Nel Duemila la spinta degli anni Novanta entrò in crisi e il numero degli spazi si ridusse, anche a seguito del G8 di Genova, alla repressione e alle divisioni che seguirono nei movimenti della sinistra antagonista. Molti spazi furono sgomberati, anche dalle amministrazioni di centrosinistra, altri hanno fatto prevalere la funzione assistenziale su quella militante e conflittuale, alcuni si sono divisi sulla questione del reddito autogestito: se fosse possibile cioè creare dei circuiti anche economici pur restando fuori dalle logiche del mercato. In altri si aprirono spaccature sulla questione di un riconoscimento istituzionale e su una possibile “regolarizzazione” attraverso il pagamento dell’affitto di una sede, anche minimo, per evitare i rischi di sfratto. In diversi casi i tentativi di “istituzionalizzare” i CSOA attraverso contenziosi o negoziazioni con i comuni sono di fatto riusciti, mentre altre trattative sono ancora in corso.
«Cosa sono o non sono i centri sociali oggi non saprei dirlo» dice Fabrizio C. «A Roma anche quelli più recenti hanno ormai una ventina d’anni, spesso chi li frequenta non era neanche nato o nata quando furono occupati. E quando parliamo del Leoncavallo o del mio ex centro sociale La Torre, parliamo letteralmente di un altro mondo». Il dibattito tuttora in corso nelle destre sulla pericolosità sociale di alcuni spazi «fa sorridere», conclude Fabrizio C.: «E infatti Fratelli d’Italia, per dimostrarla, a proposito del Leoncavallo ha ripescato una fotodi trent’anni fa», dice riferendosi a un’immagine che mostra degli attivisti armati di bastoni pubblicata dalla pagina milanese del partito di Giorgia Meloni. «E questo fa sorridere non perché alcuni spazi non siano più propositivi, ma perché, a parte alcuni, hanno esaurito la loro spinta propulsiva e non sono più degli incubatori di lotte e conflitti».
Dopo la stagione dei Teatri occupati e la nascita del movimento per i beni comuni, ora l’autorganizzazione politica ha soprattutto altri canali e altre forme: Fabrizio C. cita Insorgiamo, legato ai lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, e Quarticciolo Ribelle a Roma che, come realtà simili in altre città, cerca non solo di offrire servizi e possibilità altrimenti non accessibili a chi vive in quel quartiere, ma cerca di trasformarlo del tutto, sempre dal basso.