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 2025  agosto 28 Giovedì calendario

Riparte la sceneggiata delle pensioni

Che un governo aumenti le libertà di scelta individuali è (nella maggior parte dei casi) cosa buona e giusta. È quindi comprensibile che tutti vogliano – tra le altre cose – maggiore libertà di scelta anche in campo pensionistico, dove la libertà viene pudicamente chiamata «flessibilità».Il sistema previdenziale è pubblico anche se, ovviamente, nessuno vieta ai cittadini che ne hanno i mezzi di aderire a un fondo pensione o di comprarsi una pensione privata. È però lo Stato che fissa le regole: stabilisce non solo l’obbligatorietà della partecipazione (e quindi l’alternativa privata può essere solo “integrativa") ma anche la “aliquota contributiva”, ossia quale percentuale di salario lordo o di reddito da lavoro autonomo deve essere versata all’Inps. Lo Stato fissa anche l’età di pensionamento (solitamente distinta tra anticipata e ordinaria), il numero minimo di anni di contribuzione e la formula per il calcolo della pensione e delle sue variazioni nel tempo (e quindi l’indicizzazione ai prezzi).Non basta ancora: lo Stato decide anche le modalità di finanziamento della spesa: non solo in Italia, ma in tutta Europa esso non deriva dall’accumulazione e dall’impiego finanziario dei contributi. Appena versati, infatti, i contributi vengono destinati al pagamento delle pensioni in corso; un contratto tra generazioni che funziona benissimo quando c’è crescita economica e occupazionale ma che oggi le proiezioni demografiche e la produttività stagnante mettono a repentaglio, con il forte incremento degli anziani rispetto alle coorti in età da lavoro.Cambiare qualcosa in questa complessa materia è quindi molto difficile, a meno che non si tratti di cambiamenti migliorativi, per esempio un aumento delle pensioni minime o una riduzione dell’età di uscita, politicamente molto allettanti perché generatori di consenso ma contabilmente sempre meno sostenibili per il nostro elevato debito pubblico. Se si fanno troppe promesse, arriva prima o poi il momento in cui occorre frenare, magari bruscamente, come toccò al “governo tecnico” nel 2011, quando lo Stato italiano arrivò molto vicino al dissesto finanziario, complice anche il peggioramento delle variabili che sostengono il sistema: oltre all’invecchiamento della popolazione, siamo di fronte a un peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro delle giovani generazioni. Modifiche sfavorevoli allora si impongono: le “famigerate” riforme, che non piacciono ai cittadini e meno ancora ai governi per il “costo elettorale” che solitamente deriva alla maggioranza che le approva.Invece di dire la verità ai cittadini (pratica oggi alquanto in disuso), la politica ricorre spesso, in questi casi, al “mascheramento” dei provvedimenti sgraditi ai cittadini e all’introduzione di misure di maggiore spesa presentate come grandi miglioramenti ma in realtà “spolpate” da “accorgimenti normativi” che ne riducono l’impatto sul bilancio. Esempi dell’uno e delle altre abbondano in materia pensionistica e la discussione di questi giorni sulle modifiche da inserire nella prossima legge di bilancio non fa eccezione. Avendo al suo interno un partito il cui segretario si è sgolato per anni a sostenere che avrebbe cancellato la riforma del 2011 (sprezzantemente definita «la Fornero») al suo primo Consiglio dei ministri, la presidente Meloni pare incapace di dire agli italiani una semplice verità: ossia che una riduzione strutturale dell’età di pensionamento è resa di fatto impossibile dal peggioramento nel rapporto tra numero di anziani e di persone in età di lavoro ("tasso di dipendenza degli anziani"): già oggi, e sempre più in futuro, mancheranno i giovani (sperabilmente non il loro lavoro) e per pagare le pensioni occorrerà che tutti lavorino, e un po’ più a lungo.Le misure adottate in anni recenti per derogare, nel breve termine (rilevante per il consenso elettorale) all’uscita ordinaria a 67 anni e consentire uscite anticipate – che ancora oggi ci collocano ai livelli più bassi in Europa per età media di pensionamento – sono state occasioni mancate: “quota 100”, poi diventata “quota 102” quando se ne sono visti i costi, poi “quota 103”, peraltro attenuata dall’introduzione di finestre” (tempi di attesa dalla maturazione del diritto) e, soprattutto, dal “metodo contributivo di calcolo” della pensione per dissuadere i lavoratori dall’avvalersene. Operazione ispirata dalla “prudenza” di Giorgetti ma certo in aperta contraddizione con i pronunciamenti del Segretario del suo partito. Misure contraddittorie rispetto alla sostenibilità dei conti, costate decine di miliardi a un bilancio pubblico in affanno, lasciando nel contempo sguarniti gli ospedali, l’assistenza di lungo termine agli anziani con disabilità, e altri capitoli della spesa pubblica fondamentali per la crescita della produttività, come istruzione, ricerca e innovazione.La sceneggiata si ripresenta quest’anno con il congelamento dell’indicizzazione dei 67 anni all’aspettativa di vita: l’aumento avrebbe dovuto essere di 3 mesi, certo pesanti per chi svolge un lavoro faticoso, ma comprensibili se spiegati con l’amara verità della curva ancora crescente della spesa pensionistica sul Pil. Si dice che il costo sarà di 2 miliardi ma si dimentica che una misura di questo tipo, una volta introdotta, vincola chi viene dopo e ha quindi effetti di lungo termine (che la Ragioneria Generale dello Stato stima in circa 20 miliardi nei prossimi due decenni). Si sollecita anche l’utilizzo del Trattamento di Fine Rapporto (cioè della “liquidazione") a fini di previdenza integrativa per consentire il raggiungimento della pensione necessaria all’uscita anticipata (64 anni), operazione che trasforma una ricchezza disponile alla cessazione della vita lavorativa in un reddito condizionale alla sopravvivenza. Non un regalo, quindi, anche se viene presentato come tale. Si re-introduce un bonus per il proseguimento dell’età lavorativa senza esplicitamente dire che l’importo della pensione sarà più basso e che quindi il lavoratore scambia soldi suoi di domani con soldi oggi in busta paga. In definitiva, siamo di fronte a una serie di cambiamenti all’insegna del populismo, con la consapevolezza di non poter tornare alla generosità del passato, fatta di indebitamento a carico delle giovani generazioni. Perché non dirlo apertamente?