Corriere della Sera, 28 agosto 2025
In morte di Cesare Nosiglia
Cesare Nosiglia, prete e vescovo, si faceva chiamare padre e amico, non per vezzo ma con la consapevolezza che il farsi umili e servi di Cristo fosse il punto più profondo e misterioso dell’avventura dell’uomo. Cesare nasce tra Rossiglione, diocesi Acqui Terme, ma provincia di Genova, il 5 ottobre 1944. Cresciuto in un ambiente protetto e fuori dalle contraddizioni della grande città, Nosiglia studia in seminario negli anni del Concilio Vaticano II ad Acqui Terme e a Rivoli, avendo così i primi contatti con la chiesa torinese. Il 29 giugno 1968 viene ordinato presbitero dal vescovo di Acqui Giuseppe Dell’Olmo. Viene inviato a Roma per approfondire gli studi; consegue la licenza in teologia alla Pontificia Università Lateranense e la licenza in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico. È collaboratore delle parrocchie di San Giovanni Battista de Rossi e San Filippo Neri alla Pineta Sacchetti. Dalle terre di confine tra Piemonte e Liguria, don Cesare parte alla volta di Roma, già frequentata per gli studi teologici alla Lateranense e al Biblico. Due sono gli ambiti dell’impegno pastorale nell’amata Roma, prima da sacerdote e poi da vescovo dagli anni Novanta: la carità vissuta in prima persona nelle periferie e la catechesi, il fondamento dell’annuncio cristiano alle genti all’ufficio catechisti o nazionale. Tra gli ultimi, i poveri, i dimenticati, ma anche le famiglie, i lavoratori in difficoltà quando si perde il lavoro: don Cesare c’è sempre con la sua presenza e il suo esempio. Infine, con i giovani, ispirato dall’esempio di Giovanni Paolo II e le Giornate mondiali dei giovani, come vescovo ausiliare di Roma per molti anni. Sarà così anche nella sua avventura episcopale a Vicenza, tra il 2003 e il 2010, e nei dodici anni di intensa guida pastorale nell’arcidiocesi di Torino, dall’ottobre 2010 alla primavera del 2022. Ricordava Marco Bonatti, prima direttore della Voce del Popolo e poi suo portavoce, festeggiando gli 80 anni di monsignor Cesare: «Il Nosiglia “romano”, nominato da Benedetto XVI succedendo al cardinale Severino Poletto, si era portato dietro a Torino quella consuetudine di frequentare i poveri, e aveva abituato la sua diocesi a gesti e momenti fuori dall’ordinario. Come quando, e capitò spesso, andava a trovare i nomadi nei loro campi, sedendosi a tavola con loro, parlando con i bambini, girando fra le roulotte. Lui, uomo che ha sempre creduto nella comunicazione, in queste occasioni raramente faceva dichiarazioni o messaggi: erano i gesti a parlare, o le fotografie dei reporter che lo seguivano. Anche perché l’arcivescovo non si limitava a effetti “mediatici”: alla realtà dei nomadi dedicò una lettera pastorale già nel 2012 (Non stranieri ma concittadini e familiari di Dio)». Per i suoi detrattori era troppo vicino al cardinale Camilo Ruini per essere pronto alle novità di Papa Francesco. Invece fu il contrario, sia pure nelle fatiche di passare alla guida di una chiesa come quella torinese vasta e composita. Così come la sua diocesi che si estende oltre le mura urbane e sprofonda nella campagna lambendo Savigliano e Bra. Nosiglia descrive Torino e la ama, e per questo il suo cruccio erano le due città, la sofferenza di vedere la cesura tra due mondi distanti: bisognava ricucire, ci avrebbe provato con l’agora del sociale, portando le comunità delle periferie, con i tanti immigrati di tutto il mondo ora residenti a Torino che ascolta e sono ricambiati da una vicinanza e un amore vero, invitando la città ricca, produttiva, nobile a fare uno sforzo nuovo, richiamandosi all’anima sociale dei santi di Torino di fine Ottocento e alle realtà virtuose di oggi, dal Sermig al Gruppo Abele. Non era divisivo Nosiglia, ma fautore di prassi di inclusione e condivisione. Il grande lavoro per liberare l’ex villaggio olimpico del Moi lo si deve a lui, con la collaborazione tra città e chiesa, pubblico e religioso, in un’ottica di liberazione di un luogo per ridare dignità ai profughi che l’avevano occupato. Contaminare i quartieri nobili con quelli ex operai oggi multietnici era il programma cristiano e umano di Nosiglia, che aveva a cuore anche un altro dramma del nostro tempo: il lavoro o, meglio, la mancanza del lavoro. Il camminare a fianco di operai e impiegati, di impresari e datori di lavoro, sindacati e organizzazioni datoriali, sempre anche le famiglie, le vittime per la perdita del lavoro come la fine della dignità. Il caso Embraco fu il più emblematico. E poi i giovani, la formazione, la preghiera e la difficile riforma interna di Curia e vicariati, la vasta Diocesi che è solo Torino, le unità pastorali e ruolo di laici tout court e delle donne nella chiesa. La lotta alla povertà, l’impegno a sostegno della Caritas, della pastorale della salute e degli anziani sempre più numerosi e soli nella città nascosta. E poi ancora, il rapporto con la chiesa italiana di Ruini e di Bagnasco con i Papi Benedetto XVI e Francesco, che con lui ritornò nella terra dei suoi padri e madri, nella terra della Sindone e dei santi sociali, del dialogo ecumenico e interreligioso, in quella bellissima visita del giugno 2015. E per Nosiglia la fatica e l’impegno nel coordinare il convegno ecclesiale di Firenze con le parole profetiche di Papa Bergoglio sull’innescare i processi, il cambio d’epoca e la chiesa in uscita. Non si possono dimenticare le visite nei tempi liturgici forti, in particolare la corona di Natale con le persone spesso dimenticate, le messe con gli operai, la capacità di coniugare spiritualità e carità attraverso una radicalità evangelica che non escludeva la pluralità delle voci di una chiesa articolata come quella torinese. Poi il ritiro, il passaggio del testimone al suo prete poi vescovo e oggi cardinale Roberto Repole, il servizio silenzioso, nascosto in parrocchia per tornare Cesare figlio, fratello, padre e amico, in attesa dell’abbraccio di Dio in cielo. E ancora le parole di Bonatti ci vengono in soccorso per dire che monsignor Nosiglia guardava oltre l’orizzonte umano, delle cose della vita che passano e del già è non ancora che tutti ci attende. Alcune belle pagine ha scritto il vescovo amico, con quel suo spirito del «noi» sui problemi dell’integrazione e dell’accoglienza con un grande collettivo sforzo per la liberazione delle persone dal Moi e la capacità di mettere al tavolo tutti gli attori della vita per tracciare un orizzonte condiviso. Tutto questo con la consapevolezza da prete, vescovo e soprattutto di persona comune, di non aver paura qualche volta di perdere.